• Utopia … quel luogo dove gli affetti, l’amore, e il desiderio, sono così certi da divenire tangibili

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    Di Giulia De Baudi

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    «I luoghi comuni non sono delle idee ricevute, ma, letteralmente dei luoghi in cui un pensiero del mondo incontra un altro pensiero del mondo. (…) luoghi in cui un pensiero del mondo conferma un altro pensiero del mondo.»

    Édouard Glissant Introduction à une Poétique du Divers.

    Esattamente cinquecento anni fa, nel 1516,  Thomas More, Lord Cancelliere d’Inghilterra sotto Enrico VIII, umanista, scrittore e politico cattolico inglese, dando alle stampe il Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia, coniò il termine Utopia.

    Nel breve racconto si narrava dell’esistenza di un’isola, Utopia, in cui – dice la vulgata acritica – viveva una società perfetta ed equilibrata, governata da leggi che la mettevano al riparo da ogni ingiustizia sociale.

    Il sostantivo Utopia, si dimostrò immediatamente quantomeno duplice dato che si poteva intendere in due modi: Ouktopia, ovvero “nessun luogo” o Eutopia, vale a dire “buon luogo”.

    L’autore corse a i ripari: due anni dopo, nella ristampa di Basilea del 1518, appare un’aggiunta significativa firmata da Anemonio – eteronimo dello stesso More – che dice «Gli antichi mi chiamarono Utopia per il mio isolamento. Adesso sono emula della Repubblica di Platone, e forse la supero (infatti ciò che quella a parole ha tratteggiato, io sola lo attuo con le persone, i beni, le ottime leggi), sicché a buon diritto merito di essere chiamata Eutopia».

    Con questa postilla Thomas More chiariva il significato del termine fregiando l’isola, creata dalla sua mente, dell’autoritas di Platone e del titolo di “buon luogo”.

    Ma, entrando ancor più nei dettagli, mi vien da dire che Utopia intesa come “buon luogo” in senso spaziale – Atalntide, Paradiso, Walhalla, Campi elisi, Isola dei beati,  Isola di Utopia, Città del Sole, – in realtà è un “non luogo”. È un “non-luogo” perché “è esistita ed esiste” solo nella mente di chi l’ha immaginata e di chi crede a queste “non esistenze”.

    «In realtà L’Utopia ha due facce: è la critica di ciò che è, e la rappresentazione di ciò che deve essere»

    Max Horkheimer

    Come già aveva fatto notare G. C. Zanon in un suo articolo (maggio 2012 leggi qui) leggendo il libro di More, ci si rende conto che quella “società ideale” poi tanto ideale non lo era. Per esempio si adottava quel principio “schizofrenico” che Max Weber definì “dualismo etico”, ovvero la legittimazione dell’abbandono delle norme etiche, valide all’interno della comunità, al di fuori di essa. Ciò significa che nel racconto di More mentre il rapporto tra gli abitanti di Utopia era eticamente regolato, l’opposto avveniva con esseri umani di altre società, ai quali venivano imposte le leggi della forza e dell’arbitrio. Arbitrio che si ripercuoteva anche sugli schiavi e su chiunque, non accettava di divenire parte “dell’alveare utopico” in cui ognuno deve identificarsi con il “bene comune” deciso dagli anziani.

    Una narrazione in pieno stile totalitarista così perfetta da far meritare a More sia l’aureola di Santo della Chiesa cattolica sia il titolo di proto-socialista sovietico: canonizzato nel 1935 da Pio XI  l’artefice del Reichskonkordat con Hitler fu poi, nel 2000, proclamato patrono dei governanti e dei politici cattolici dal grande amico di Pinochet, Wojtyla. Che strane coincidenze! Inoltre, nel 1917 fu eretto dai Bolscevichi un monumento che lo rappresentava davanti al Cremlino.

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    Molto probabilmente le intenzioni di Thomas More non erano quelle di rappresentare un prototipo del totalitarismo. Inoltre leggere, oggi, con occhio critico dell’isola di Utopia non ha un valore assoluto. In cinquecento anni sono cambiate molte cose … anche se ancora pochi hanno capito che il totalitarismo in nome dell’eguaglianza sociale annichilisce la libertà individuale.

    More è figlio del suo tempo e ha assorbito una cultura millenaria da sempre ha inventato isole, continenti e luoghi sovrannaturali in cui alienare speranze, idee, istanze, sogni, esigenze umane, che riteneva irrealizzabili durante la naturale esistenza umana. Esagerando in negativo, potrei dire che credere nell’esistenza di una vita dopo la morte è, se non proprio un’Utopia, un “delirio utopico”

    Dal mio punto di vista “utopia” in fondo significa … è la ricerca inesausta della realizzazione di sé che non può prescindere dalla realizzazione dell’altro da sé. Senza l’altro da sé noi esistiamo ma non siamo.

    “Utopia” continua ad essere una parola senza un significato univoco. Per molti significa “sogno ad occhi aperti”, “realizzazione irraggiungibile”, o cose del genere. Quante volte i nostri amici di fronte alle nostre “voglie di cambiare il mondo”  hanno scosso la testa dicendo “ma questa è un’utopia”.

    Io invece uso spesso quella parola per dire di una cosa per me reale che non c’è ancora ma che ci sarà anche se io, forse, non la vedrò mai realizzata.

    Per altre persone invece “Utopia” è un termine metafisico.

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     L’Atlantide di Platone o il palazzo di Eros?

    Qualche giorno dopo il brutale attacco alla redazione di Charlie Hebdo, sul giornale satirico venne pubblicata la vignetta che vedete qui sopra: i terroristi islamici giunti in paradiso chiedono “dove sono le 70 vergini che ci sono state promesse?” E una voce proveniente dalla nuvoletta dove si sta consumando un orgetta gli risponde: “se la stanno godendo con l’equipe di Charlie babbei!”

    Ciò che il vignettista di Charlie Hebdo liquida con poche battute, cioè il delirio del nichilista di fede islamica, in realtà attinge anch’esso a un’idea “utopica” ben presente non solo nelle religioni salvifiche ma anche nella cultura millenaria che stando a monte di esse le irriga.

    Il genere umano ha sempre cercato di sfuggire al dolore e alla morte. Lo ha fatto in vari modi che tracciano sia il percorso positivistico che la via metafisica e che potrei riassumere così: ha cercato di mutare il destino del genere umano con i paradigmi razionali/positivistici, tentando la via della felicità terrena. Vale a dire cercando e trovando rimedi in grado di alleviare e di curare il dolore fisico – anche soddisfacendo i bisogni primari – e allontanando la morte regalando ai mortali decenni di vita; oppure scegliendo una “soluzione” metafisica, fuori dalla realtà, fantasticando luoghi in cui è possibile salvarsi dalla disperazione della “naturale condizione umana”. Condizione per la quale la felicità terrena è e resta inattingibile.

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    Faccio un rapido inciso per dire che se è vero che queste due strade, la prima scientifica, la seconda religiosa, soprattutto dall’illuminismo in poi, hanno percorso due strade divergenti che hanno permesso alla scienza di affrancarsi dall’oscurantismo religioso, è anche vero che ancor oggi la maggior parte degli uomini di scienza, anche coloro che dischiarano il loro ateismo, sono più o meno inconsapevolmente preda di una sotterranea alienazione religiosa che altera la percezione della realtà. Soprattutto della realtà umana interiore.

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    Tornando alle due “soluzioni” – razionale e metafisica – si potrebbe dire che mentre la speculazione filosofica generava ideologie e luoghi – reali come Cuba o fantastici come Utopia e la Città del sole di Tommaso Campanella – in cui soddisfare al meglio i bisogni primari e la giustizia sociale, dall’altro lato i “sistemi religiosi” “risolvevano” i dilemmi della disperante “condizione umana”  creando “locations metafisiche” funzionali alle varie tipologie sociali.

    Se le società erano bellicose lo erano anche gli dei che mettevano a disposizione degli eroi luoghi meravigliosi in cui vivere da dio il resto dell’eternità: Nella mitologia norrena, il Walhalla è la residenza dei morti gloriosamente in battaglia. Stessa cosa valeva per i Campi Elisi dei soldati romani. L’islam con il suo “paradiso delle venti vergini pro-capite” non si è inventato nulla di nuovo.

    Questo genere di utopie inaugurate da Platone sia con il mito di Atlantide – descritto nel Timeo e in Crizia –  sia con Repubblica e che influenzeranno tutte le narrazioni successive, nascono sia dall’esigenza tutta umana che tende alla realizzazione della propria identità, sia dalla “nostalgia” per un luogo perduto” di cui si avverte la mancanza.

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    Molti studiosi, contemporanei tra cui Claudio Pozzoli  (Utopia possibile, per una critica della follia politica) e LewisMumford (Storia dell’Utopia) hanno scandagliato in lungo e in largo i territori dell’Utopia declinata in vario modo. Esistono Utopie rivoluzionarie proiettate nel futuro che vogliono cambiare il mondo e Utopie conservatrici che vogliono, follemente, riportarlo allo stato precedente: la Restaurazione postnapoleonica fa parte della seconda categoria.

    Molte damigelle d’onore, non sempre all’altezza di sua maestà Utopia,  accompagnano questa parola che non ha mai trovato una definizione univoca che rivelasse una volta per sempre il suo contenuto:  nostalgia, fede, speranza, “il sol dell’avvenire”, regressione allo stato precedente, fuga della realtà, sogno ad occhi aperti, passi perduti, l’età dell’oro, ’68, ecc. sono solo alcune di queste espressioni verbali che vorrebbero rappresentare il senso dell’Utopia.

    «Le utopie spesso non sono altro che verità premature»

    Alphonse De Lamartine

    Esistono  Utopie in divenire come quelle auspicate da Lev Trockij, che parlava di una “rivoluzione nella rivoluzione” e Utopie che guardano alle esigenze umane: «Lasciatemi dire, a costo di sembrare ridicolo, che il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore» Ernesto (che) Guevara.

    Vivono nella storia del pensiero Utopie meravigliose come quella di Aleksandra Kollontaj che turbava le menti quadrangolari dei compagni bolscevichi difendendo i «cuori innamorati» e irrompendo nella storia del comunismo con domande tipo «Qual è il posto occupato dall’amore nell’ideologia della classe operaia?» e quelle zeppe di speranza di Albert Camus che scriveva «La rivolta consiste nell’amare un uomo che non esiste ancora».

    Esistono anche autori tra cui George Orwell (1984) e Aldous Huxley (Brave New World) che nei loro romanzi hanno ben illustrato a cosa portano quelle Utopie ideologiche, inaugurate dalla Repubblica di Platone, che hanno in comune idee che pensano a “nuovi mondi” in cui le passioni umane e la fantasia vengono bandite perché nemiche dell’ordine e della Realpolitik.

    L’Utopia può essere personale, intesa come realizzazione di sé, oppure può cercare di realizzare “paradisi terrestri” non colonizzati dall’ ingiustizie sociali e dall’arbitrio di pochi contro la moltitudine.

    Spesso all’Utopia  è stato posto il nome di un luogo “beato”: Atlantide, Utopia, Città del sole, isola che non c’è, Ogigia, Eldorado, paradiso perduto, Itaca. L’Utopia può divenire anche un terribile farmaco religioso “effetto placebo” religioso, che la crea ex nihilo luoghi sovrannaturali dove “vivere in eterno un’esistenza” post mortem al fianco di un dio con la sua schiera di santi angeli e beati o degli dei del pantheon politeista. Luoghi posti al di fuori dal tempo umano, limite oltre il quale, dice Amleto nel famoso monologo, esiste «(..) il paese inesplorato dalla cui frontiera/nessun viaggiatore fa ritorno».
    Che cosa sono poi , in letteratura, questi luoghi/utopie – intese come “buon luogo” collocate in uno spazio geografico e/o temporale in cui è possibile condurre una vita felice, se non dei “surrogati” dell’isola di Ogigia dove Calipso, “colei che nasconde”, prometteva all’amante “un amore immortale”, oppure del palazzo in cui Eros accoglie Psyché la protagonista dell’antichissima fabula milesia incastonata al centro del romanzo L’asino d’oro di Apuleio, che narra il passaggio tra adolescenza e maturità sessuale e che affonda le sue radici culturali in un tempo impossibile da raggiungere dalla certezza filologica.

    Se il mito di Atlantide narrato da Platone fonda i luoghi/utopie del raziocinio – cioè quelle “repubbliche ideali” dove vivere secondo ragione eliminando ogni residuo di irrazionalità pensata come un vaso di Pandora – la favola milesia di Eros e Psyché, che entrerà – si pensi solo alla favola de La bella e la bestia diffusa in tutto il mondo in migliaia di varianti – a far parte dell’immaginario di tutte le culture, narra invece di un luogo in cui il pensiero irrazionale trova la sua dimora.

    La dimora degli amanti notturni è il luogo in cui l’invisibile diviene “visibile”. Il “luogo” sempre perduto e sempre ritrovato; sempre “dimenticato” e sempre ricreato. Il “luogo” in cui corpo e mente sono sinonimi e dove, affetti, amore, desiderio, sono così certi da divenire tangibili … basta non credere alla sorelle invidiose.

    7 agosto 2016

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