• Una stagione all’inferno … Arthur Rimbaud (2)

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    Cattivo Sangue

    Dei miei antenati Galli ho l’occhio biancazzurro, il cervello stretto, e la goffaggine nella lotta. Trovo il mio modo di vestire barbaro quanto il loro. Ma non ungo di burro la mia chioma.

    I Galli erano gli scorticatori di bestie, i bruciatori d’erbe più inetti del loro tempo.
    Di loro, ho: l’idolatria e l’amore per il sacrilegio; – oh! tutti i vizi, ira, lussuria, – magnifica, la lussuria; – soprattutto menzogna e accidia.
    Ho orrore di tutti i mestieri. Padroni e operai, tutti bifolchi, ignobili. La mano da penna vale la mano da aratro. – Che secolo di mani! – Io non avrò mai la mia mano. Dopo, la familiarità porta troppo lontano. L’onestà della mendicità mi affligge. I criminali sono disgustosi come i castrati: io, sono intatto, e per me fa lo stesso.
    Ma! chi ha reso la mia lingua tanto perfida, da guidare e tutelare fino ad oggi la mia pigrizia? Senza servirmi nemmeno del mio corpo per vivere, e più ozioso d’un rospo, ho vissuto dappertutto. Non una sola famiglia in Europa che mi sia sconosciuta. – Famiglie come la mia, voglio dire, che devono tutto alla dichiarazione dei Diritti Dell’Uomo. – Io ho conosciuto tutti i figli di famiglia!

     

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    Se almeno avessi degli antecedenti in un punto qualsiasi della storia di Francia!
    Ma no, niente.
    Mi è del evidente che sono sempre stato di razza inferiore. Non posso comprendere la rivolta. La mia razza non si è mai ribellata se non per predare: come i lupi con la bestia che non hanno ucciso.
    Ricordo la storia della Francia, figlia primogenita della Chiesa. Villano, avrei fatto il viaggio in terra santa; ho in mente certe strade nelle pianure sveve, certe vedute di Bisanzio, i bastioni di Solima; il culto di Maria, l’intenerimento sul crocifisso si destano in me fra mille fantasmagorie profane. – Me ne sto seduto, lebbroso, sui vasi rotti e le ortiche, ai piedi d’un muro sgretolato dal sole. – Più tardi, ràitro, avrei bivaccato nelle notti germaniche.
    Ah! un’altra cosa: ballo il sabba in una radura rossa, assieme vecchie e bambini.
    I miei ricordi non vanno più in la di questa terra e del cristianesimo. Non finirei mai di rivedermi in questo passato. Ma sempre solo; senza famiglia; anzi, quale lingua parlavo? Non mi riconosco mai nei consigli di Cristo; e neanche nei consigli dei Signori, – rappresentanti del Cristo.
    Che cos’ero nel secolo scorso? non mi ritrovo che al giorno d’oggi. Non più vagabondi, non più guerre vaghe. La razza inferiore ha ricoperto tutto – il popolo, come suol dirsi, la ragione; la nazione e la scienza.
    Oh! la scienza! Tutto è stato ripreso. Per il corpo e per l’anima, – il viatico, – ci sono la medicina e la filosofia, – i rimedi da comare e gli le canzoni popolari adattate. E gli svaghi dei prìncipi e i giuochi che essi proibivano! Geografia, cosmografia, meccanica, chimica!…
    La scienza, la nuova nobiltà! Il progresso. Il mondo si muove! Perché mai non dovrebbe girare?
    È la visione dei numeri. Andiamo verso lo Spirito. È una cosa sicurissima, è oracolo, quel che dico. Io capisco, e non sapendo spiegarmi senza parole pagane, vorrei tacere.

     

     

     

    Il sangue pagano riaffluisce! Lo Spirito è prossimo, perché Cristo non mi aiuta, donando alla mia anima nobiltà e libertà? Ahimé! il Vangelo è passato! il Vangelo! il Vangelo. Attendo Dio con ingordigia. Sono di razza inferiore da tutta l’eternità.
    Eccomi sul lido armoricano. Che le città si accendano nella sera. La mia giornata è finita; abbandono l’Europa. L’aria marina mi brucerà i polmoni; i climi lontani mi abbronzeranno. Nuotare, pestare l’erba, cacciare, fumare soprattutto; bere liquori forti come un metallo bollente, – come facevano quei cari antenati intorno ai fuochi.
    Ritornerò, con membra d’acciaio, con la pelle scura, con lo sguardo furente: dalla mia maschera, mi giudicheranno di razza forte. Avrò dell’oro: sarò ozioso e brutale. Le donne son piene di cure di questi infermi feroci, che tornano dai paesi caldi. Sarò immischiato negli affari politici. Salvo.
    Ora io sono maledetto, ho orrore per la patria. La cosa migliore è un sonno da ubriaco, sul greto.

     

     

     

    Non si parte. – Riprendiamo il cammino da qui, gravato dal mio vizio, un vizio che ha sprofondato le sue radici di sofferenza al mio fianco, fin dall’età della ragione – che sale al cielo, mi batte, mi travolge, mi trascina.
    L’estrema innocenza e l’estrema timidezza. È detto. Non recare al mondo i miei disgusti e i miei tradimenti.
    Andiamo! La marcia, il fardello, il deserto, la noia e la collera.
    A chi offrirmi? Quale bestia bisogna adorare? Quale santa immagine aggredire? Quali cuori spezzerò? Quale menzogna devo enunciare? – In che sangue camminare?
    Piuttosto, difendersi dalla giustizia. – La vita dura, l’abbruttimento semplice, – sollevare, col pugno inaridito, il coperchio della bara, sedersi, soffocarsi. Così, niente vecchiaia, né pericoli: il terrore non è francese.
    – Ah! sono così derelitto che offro ad una qualsiasi immagine divina qualche slancio verso la perfezione.
    O mia abnegazione, o mia carità meravigliosa! quaggiù, però!
    De profundis Domine, come sono stupido!

     

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    Fin da fanciullo, ammiravo il forzato intrattabile su cui si richiude sempre l’ergastolo; visitavo le locande e le camere ammobiliate ch’egli avrebbe potuto consacrare col suo soggiorno; con la sua mente vedevo il cielo azzurro e il travaglio fiorito della campagna; nelle città, fiutavo la sua esistenza fatale. Aveva più forza di un santo, più buonsenso di un viaggiatore – e sé, solamente se stesso! come testimone della propria gloria e della propria ragione.
    Sulle strade, nelle notti d’inverno, senza un ricovero, senza vestiti, senza pane, una voce stringeva il mio cuore gelato: “Debolezza o forza: eccoti qui, è la forza. Non sai dove ti stai recando né perché, entra dappertutto, rispondi a tutto. Non ti uccideranno più che se fossi cadavere.” Al mattino avevo lo sguardo così smarrito e un contegno così smorto, che quelli che mi incontravano non mi hanno forse mai veduto.
    Nelle città il fango all’improvviso mi appariva rosso e nero, come uno specchio quando la lampada vaga nella stanza vicina, come un tesoro nella foresta! Buona fortuna, gridavo, e vedevo un mare di fiamme e di fumo nel cielo e, a sinistra, a destra, tutte le ricchezze divampare come un miliardo di folgori.
    Ma l’orgia e l’amicizia delle donne mi erano negate. Non un compagno. Mi vedevo davanti ad una folla esasperata, di fronte al plotone d’esecuzione, piangere per l’infelicità che non avessero potuto comprendere, e perdonando! – Come Giovanna d’Arco! – “Preti, professori, padroni, vi sbagliate consegnandomi alla giustizia. Non ho mai fatto parte di questo popolo; non sono mai stato cristiano; sono della razza che nei supplizi cantava; non comprendo le leggi; non ho senso morale, sono un bruto: vi sbagliate…”
    Sì, ho gli occhi chiusi alla vostra luce. Sono una bestia, un negro. Ma posso essere salvato. Voi siete dei falsi negri, voi maniaci, feroci, avari. Mercante, tu sei negro; magistrato, sei negro; generale, sei negro; imperatore, vecchia prurigine, sei negro: hai bevuto di quel liquore non tassato, fatto da Satana. – Questo popolo è ispirato dalla febbre e dal cancro. Infermi e vecchi sono talmente rispettabili da chiedere di essere bolliti. – La scelta più astuta sarà abbandonare questo continente in cui la follia va in giro per fornire ostaggi a questi miserabili. Entro nell’autentico regno dei figli di Cam.
    Conosco ancora la natura? mi conosco? – Basta con le parole. Seppellisco i morti nel mio ventre. Gridi, tamburo, danza, danza, danza, danza! Non vedo nemmeno l’ora in cui, allo sbarco dei bianchi, cadrò nel nulla.
    Fame, sete, gridi, danza, danza, danza, danza!

     

     

     

     

    Sbarcano i bianchi. Il cannone! Basta sottoporsi al battesimo, vestirsi, lavorare. Ho ricevuto al cuore il colpo della grazia. Ah! non l’avevo previsto!
    Non ho fatto il male. I giorni per me saranno lievi, il pentimento mi sarà risparmiato. Non avrò avuto i tormenti dell’anima quasi morta al bene, in cui risale una luce severa come i ceri funebri. La sorte del figlio di buona famiglia, bara prematura coperta di limpide lacrime. Senza dubbio la dissolutezza è stupida, il vizio è stupido; occorre buttar via il marciume. Ma l’orologio non sarà riuscito a suonare solo l’ora del puro dolore! Sarò dunque rapito come un bambino, per giocare in paradiso nell’oblio di ogni sventura!
    Presto! ci sono altre vite? – Il sonno nella ricchezza è impossibile. La ricchezza è sempre stato un bene pubblico. Soltanto l’amore divino concede le chiavi della scienza. Mi accorgo che la natura non è che uno spettacolo di bontà. Addio chimere, ideali, errori.
    Il canto ragionevole degli angeli si innalza dalla nave salvatrice: è l’amore divino. – Due amori! posso morire d’amore terrestre, morire di dedizione. Ho abbandonato anime la cui pena si accrescerà per la mia partenza! Voi scegliete me fra i naufraghi, e quelli che rimangono non sono amici miei?
    Salvateli!
    La ragione mi è nata. Il mondo è buono. Benedirò la vita. Amerò i miei fratelli. Non sono più promesse d’infanzia. E neanche la speranza di sfuggire alla vecchiaia e alla morte. Dio fa la mia forza, e io lodo Dio.

     

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    La noia non è più il mio amore. Le rabbie, gli stravizi, la follia, di cui conosco tutti gli slanci e i disastri, – tutto il mio fardello è deposto. Apprezzano senza vertigine la vastità della mia innocenza.
    Non sarei più capace di affrontare il conforto di una bastonatura. Non mi credo imbarcato per uno sposalizio, con Gesù Cristo per suocero.
    Non sono prigioniero della mia ragione. Ho detto: Dio. Voglio la libertà nella salvezza: come conseguirla? I gusti frivoli mi hanno abbandonato. Non più bisogno di devozione né di amore divino. Non rimpiango il secolo dei cuori sensibili. Ognuno ha la propria ragione, disprezzo e carità: prenoto il mio posto in cima a quest’angelica scala di buon senso.
    Quanto alla felicità stabilita, domestica o no…. no, non posso. Sono troppo dissipato, troppo debole. La vita fiorisce grazie al lavoro, vecchia verità: per me, la vita non è abbastanza pesante, vola via ed aleggia lontano, più in alto dell’azione, questo diletto fulcro del mondo.
    Come divento zitella, a non avere il coraggio di amare la morte! Se Dio mi accordasse la calma celeste, aerea, la preghiera, – come i santi antichi. – I santi! dei forti! gli anacoreti, artisti come non ne occorrono più
    Farsa perpetua! La mia innocenza finirà col farmi piangere. La vita è la farsa che tutti devono recitare.

     

     

     

    Basta! ecco la punizione. – In marcia!
    Ah! i polmoni bruciano, le tempie mi rintronano! la notte rotola nei miei occhi, con questo sole! il cuore… le membra…
    Dove si va? al combattimento? Sono debole! gli altri avanzano. Gli arnesi, le armi… il tempo!…
    Fuoco! fuoco su di me! Qui! o mi arrendo. – Vigliacchi! – Mi ammazzo! Mi butto fra le zampe dei cavalli!
    Ah!…
    – Mi ci abituerò.
    Sarebbe la vita francese, la via dell’onore!

     

     

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