• Teatro sull’Web – Si apre il Sipario – GIOVANNI GIRAUD* «L’ajo nell’imbarazzo»

      0 commenti

    65884_496033779856_373059_n

     

     «L’ajo nell’imbarazzo»

    di Giovanni Giraud

     

     Interlocutori

     

    Il marchese Giulio Antiquati

    Il marchese Enrico, suo figlio

    Madama Gilda Onorati, sposa di Enrico

    Bernardino, fanciullo in fasce figlio delli sudetti

    Il marchese Pippetto, altro figlio del marchese Giulio

    Don Gregorio Cordebono, aio in casa del marchese Giulio

    Leonarda, cameriera attempata

    Simone, servo del marchese

     

    La scena si rappresenta in Roma in casa del marchese Antiquati.

     

     

    ATTO PRIMO

     

    Camera con varie porte

     

    Scena prima

     

    Il marchese Giulio e Leonarda.

     

    MARCHESE Senza fare tante ciance, avete detto a don Gregorio che voglio parlargli?

    LEONARDA Signorsì.

    MARCHESE Tanto basta.

    LEONARDA Ma siccome ancora non viene, non voleva supponeste che io…

    MARCHESE Verrà, verrà.

    LEONARDA Mi pare però che sia una mancanza farsi desiderare, quando un aio vien chiamato dal padrone.

    MARCHESE Andate: non v’imbarazzate di questo. Voi siete una buona donna, ma non volete, in tanti anni che siete in mia casa, ancora deporre il vizio di ciarlare e di mischiarvi in ciò che non vi spetta.

    LEONARDA Io per me… si figuri… anzi lo dico siccome… del rimanente…

    MARCHESE Basta; ritiratevi vi dico.

    LEONARDA Obbedisco. (Don Gregorio l’ha presa con me; è del tempo che me ne sono avveduta, ma son  più  vecchia di lui… cioè son  più  scaltra di lui) (via).

     

    LA_LOCANDIERA

     

    Scena seconda

     

    Don Gregorio e detto.

     

    MARCHESE Se a questa donna si lasciasse il campo libero, non cesserebbe mai di parlare, urtando or l’uno, or l’altro.

    DON GREGORIO Perdonatemi, marchese, se non son venuto subito: una lettera…

    MARCHESE Cosa dite! Anzi scusate se vi ho incomodato, ma, caro don Gregorio, io ho bisogno di voi.

    DON GREGORIO Comandatemi.

    MARCHESE L’ipocondria di Enrico mio figlio da vari mesi mi faceva esser turbato, ma quando questa mattina è venuto nelle mie camere a darmi il buon giorno, per verità l’ho veduto in uno stato che mi ha posto nella più  grand’inquietezza.

    DON GREGORIO Ne avete ragione.

    MARCHESE E perché sta  così?

    DON GREGORIO Perché!

    MARCHESE Io non posso immaginarlo.

    DON GREGORIO Neppur io.

    MARCHESE Egli dice di non aver alcun male: il medico assicura che egli non ha febbre.

    DON GREGORIO Tant’è.

    MARCHESE Se fosse un ragazzo tenuto con minor custodia, se non ci fosse in casa mia il rigore che v’è, vorrei pur sospettare; ma col mio sistema…

    DON GREGORIO Perdonatemi, marchese, ma su questo punto io vi ripeterò quello che centinaia di volte vi ho detto. Voi chiamate ragazzi questi vostri due figli, e questi ormai non lo son  più. Il marchesino Enrico ha ventitré anni ed il vostro Pippetto ne ha diciannove compiuti.

    MARCHESE Ebbene, cos’ha che far questo collo stato di salute di Enrico?

    DON GREGORIO Vi dirò schiettamente, che il mio timore è che questo giovane si sia dato all’ipocondria, vedendosi, nell’età sua, tenuto con tanta ristrettezza. Non avergli fatto mai vedere una conversazione, un teatro; mai non averlo fatto parlare con alcuna donna…

    MARCHESE Oh non mi parlate di donne!

    DON GREGORIO Senza mai (per  così  dire) fargli metter il naso fuori di casa.

    MARCHESE Questa non può esser causa di tali effetti. E poi voi conoscete la mia maniera di pensare. Finché i giovani non hanno venticinque anni almeno, non devono conoscere che la casa e lo studio. Guardi il cielo potessi sospettare in loro qualche cognizione o capriccio del mondo; voi m’intendete (alterandosi).

    DON GREGORIO Non v’alterate. Sono dieci anni che mi trovo in casa vostra, ove io vivo senz’alcun onorario, per la sola antica amicizia che vi professo. Se conservo ancora il titolo di aio de’ vostri figli, lo fo per l’amore che porto ad essi. Voi dovet’essere oggimai persuaso della mia onestà.

    MARCHESE Sì, ma le vostre massime…

    DON GREGORIO Fate quello che vi piace; volete tenerli sotterra, fatelo; ma siate certo che i vostri figli faranno come il cane, che se si lascia con prudenza libero e sciolto, cammina, annusa, conosce e passa; ma quando si tiene soverchiamente alla catena, se mai giunge a spezzar l’uncino che lo tiene attaccato alla muraglia, corre, urta, addenta, e se s’imbatte in qualche letamaio vi si ravvolge, vi s’imbratta e fa peggio degli altri cani.

    MARCHESE Siete un uomo che volete aver ragione a forza di parole e di principi alla moda presente. Io sono stato allevato così, e così voglio che crescano i miei figli.

    DON GREGORIO Dunque non vi lagnate se uno di questi perisce, e l’altro, dotato di poco talento dalla natura, rimane un melenso, senza distinguere il sol dalla luna.

    MARCHESE  Orsù , voi non mi persuaderete mai che questa sia la sola cagione del cattivo stato di Enrico, Don Gregorio, voi dovete, in ogni maniera, cercare di conoscer la causa che tiene mio figlio così  turbato. Io capisco che gl’incuto troppa soggezione, e ch’egli non farebbe forse a me le confidenze che  più  naturalmente paleserà a voi. Vi prego, occupatevi seriamente di questo. Da qualche giorno Enrico è  più  che mai mesto.

    DON GREGORIO State pur quieto, tornerò ad impiegare ogni mezzo per iscoprire se vi fosse qualche altra incognita cagione, ma sinora…

    MARCHESE Don Gregorio mi raccomando a voi. Io esco di casa per fare una visita al ministro; sarebbe possibile che dovessi rimanervi a pranzo, onde, se non son tornato alle tre, potete pur andar in tavola.

    DON GREGORIO Va bene.

    MARCHESE Vi raccomando quest’affare come il  più  importante pel mio cuore (via).

    DON GREGORIO Qual pregiudizio hanno mai questi vecchi testardi, di tener chiusi i loro figli sino alla metà della vita, affinché poi, quando escono al mondo senza esperienza di esso, vengano corbellati da qualche furbo o attrappati da qualche scaltra. Vero è però che lo stato del marchesino Enrico fa compassione, né mi riesce rinvenirne la vera causa. Basta farò di tutto… Intanto sentiamo che fa questo ragazzo stolido. Marchesino Pippetto, (chiamando) Pippetto.

     

     

    Scena terza

     

    Il marchese Pippetto e detto.

     

    PIPPETTO Signor don Gregorio che volete?

    DON GREGORIO Da quali camere venite?

    PIPPETTO Stava da Leonarda.

    DON GREGORIO A che fare?

    PIPPETTO M’insegnava a far la maglia ed a lavorar coll’ago.

    DON GREGORIO A che vi servono queste cognizioni?

    PIPPETTO Tutte le scienze sono buone.

    DON GREGORIO Scienza il cucire! (Povere cure gittate al vento; ed il padre pretende che questa sorta di teste alli venticinque anni, senza aver veduto nulla, vengano a figurare nella società).

    PIPPETTO Che volete da me?

    DON GREGORIO Ditemi, volete venire a passeggiare?

    PIPPETTO Permettetemi, non avrei volontà di muovermi.

    DON GREGORIO Ebbene rimanete, ma non istate tanto insieme colle genti di servizio; col parlar con Leonarda ed i servitori, voi avete appreso alcune parole e frasi che sono troppo triviali.

    PIPPETTO E con chi volete che io parli, se non vedo nessun altro?

    DON GREGORIO (Ecco quel che dico al marchese) (da sé). Basta, almeno procurate imitare il linguaggio di vostro padre, dei maestri, e non quello de’ familiari.

    PIPPETTO Procurerò, ma Leonarda non mi pare che parli male.

    DON GREGORIO Certo, che in quell’età dovrebbe aver imparato.

    PIPPETTO Uh! a me non par vecchia (da sé).

    DON GREGORIO Fate intanto il favore di dire ad Enrico, che se vuole uscire, io fra poco verrò qui; vado su nelle mie camere a sigillare alcune lettere, e torno subito. (La balordaggine di costui, lo stato di Enrico, l’ostinazione del vecchio marchese mi hanno da far perdere il cervello) (da sé, e via).

    PIPPETTO Vedo che Leonarda ha ragione di dire che don Gregorio è divenuto suo nemico: bisogna che sia vero, che abbia tentato di sedurre la sua innocenza! Brutto vecchiaccio. Oh, si chiami mio fratello per dirgli se vuol uscire. Enrico, Enrico (chiama).

     

    don-giovanni719614_4_grand

     

    Scena quarta

     

    Enrico e detto.

     

    ENRICO (di dentro) Che vuoi?

    PIPPETTO Senti.

    ENRICO (come sopra) Ma che hai da dirmi?

    PIPPETTO Vieni e lo sentirai.

    ENRICO (fuori) Quanto sei importuno.

    PIPPETTO Oh quanto stai di cattivo colore!

    ENRICO Lasciami in pace.

    PIPPETTO Don Gregorio dice che se vuoi uscire, egli a momenti vien giú per accompagnarti.

    ENRICO No.

    PIPPETTO Ebbene, rimanti qui un poco e quando don Gregorio torna, digli che vuoi restare in casa.

    ENRICO Sì (Con gli occhi fissi).

    PIPPETTO Ma perché stai sempre  così  melanconico? Sai quel che voglio dirti? Che se tu seguiti in questa maniera, morirai presto.

    ENRICO È vero (come sopra, ponendosi a sedere).

    PIPPETTO Bada che, quando sarai morto, ti dispiacerà. Fa poi quel che ti piace. (Voglio andare da Leonarda che mi aspetta, e le dirò che don Gregorio mi ha detto che è vecchia. Ma egli può pur tentare tutte le strade, che ad ogni modo Leonarduccia non vuol bene che a Pippetto suo) (da sé, e via).

    ENRICO (che sarà stato finora cogli occhi fissi) Son disperato, non v’è scampo per me. Col naturale austero di mio padre… mentre suppone che io mai non sia uscito dalla mia casa, esser costretto a confessargli che ho moglie! Oh Dio! che al solo pensarlo io gelo. È vero che il grado è eguale; che le qualità sono adorabili; che non potrei desiderare di  più … ma il carattere di mio padre… il suo sistema… Ah! che io raccapriccio al solo aspetta del mio stato. Finché il segreto si è potuto mantenere, il mio cuore si è confortato con varie lusinghe, ma ora, che tutto devesi irremissibilmente scoprire, ora che Gilda mia non ha che me solo per se… che io… Oh che tormento! Oh che smania è la mia! (tornando nella  più  profonda melanconia).

     

     

    Scena quinta

     

    Don Gregorio e detto.

     

    DON GREGORIO Eccolo qua nella sua solita positura; povero giovane, mi muove a compassione (da sé). Marchesino (chiamandolo).

    ENRICO Signor don Gregorio.

    DON GREGORIO Vogliamo andare a camminare un poco?

    ENRICO Vi prego, dispensatemi.

    DON GREGORIO Come volete; purché siate un poco sollevato.

    ENRICO Eh!… non dubitate… (piangendo).

    DON GREGORIO Ma cosa dite! Da’ vostri occhi cadono delle lagrime come gocciole di pioggia. Figlio mio caro, a che serve  più  nascondervi; voi avete una causa, che fa strazio della vostra salute. Enrico mio bello, caro Enrico, gittati nelle braccia del tuo don Gregorio; non arrossirti, svela qualunque segreto motivo ti tiene in questo stato infelice. Il mio cuore è aperto per te; non sono in questo momento il tuo aio, sono il tuo caro amico. Io ti giuro di tener il segreto, e ti prometto ogni aiuto, come il padre  più  amoroso che ti stringa al suo seno (abbracciandolo). (Se non s’intenerisce a queste parole, non s’intenerisce più) (da sé).

    ENRICO Don Gregorio mio, mi giurate…

    DON GREGORIO (Eccolo che piega). Sì, Enrico mio.

    ENRICO Ah! voi vedete in quale stato io mi sia ridotto.

    DON GREGORIO Poverino: Sì, voi siete consumato, impallidito.

    ENRICO Io non mangio… soffro… smanio… la notte i miei sonni… Ah! che pur troppo merito pietà; ma voi don Gregorio mio, voi non potete rimediare al mio male.

    DON GREGORIO Sì, Sì, v’è rimedio a qualunque male. Venite qua, dite, confessate, palesate; don Gregorio sigillerà la bocca; le vostre parole rimarranno pietrificate nelle sue orecchie; voi risanerete. Ditemi il vostro male qual è? Qual causa genera la vostra malattia?

    ENRICO Don Gregorio il male… Ah! non ho cuore! La mia malattia… Cielo, dove son io! Ah! donne, donne! (esclamando).

    DON GREGORIO Donne! Come! (Percuotendosi il capo) Oh povero ragazzo! Eh! come è possibile… senza mai uscir di casa… Siete innamorato? che v’è accaduto?

    ENRICO Don Gregorio mio, tacete, per amor del cielo… Io sono nelle vostre braccia!… Sì, voi già immaginate… Una donna mi riduce nello stato che mi vedete…

    DON GREGORIO Oh briccona!… Io sudo… io non sono in me… Figlio caro, spiegati pure…

    ENRICO Oh Dio! che non trovo le parole… Ah! datemi un momento di tempo… il rossore… Mio padre dov’è?…

    DON GREGORIO Vostro padre è uscito; non dubitate, forse non tornerà neppur a pranzar in casa.

    ENRICO No! Davvero? (scuotendosi).

    DON GREGORIO Credetemi.

    ENRICO Dunque… (pensando se può arrischiarsi di fargli veder la moglie) (Quest’è il momento). Giurate aiutarmi?

    DON GREGORIO Sì, con tutt’il cuore.

    ENRICO Ebbene, adesso… (con smania indeciso, non sapendo risolversi) Cielo dammi forza… risoluzione… Vi mostrerò tutto…

    DON GREGORIO Si, Sì, figlio mio.

    ENRICO Chiudete quella porta, acciò Pippetto e Leonarda non possano venir qui… Il servo che sta in sala… fatemi grazia, mandatelo fuori di casa…

    DON GREGORIO Sì, Enrico, fo tutto ciò che volete. Qui chiudiamo (serra): manderò per una commissione il servitore. Coraggio, coraggio.

    ENRICO Eccomi… vengo… vedrete tutto… vi farò compassione… Cielo m’assisti in quest’azzardo (entra nelle sue camere).

    DON GREGORIO Povero ragazzo… Io non connetto… Scellerata! Simone (chiamandolo). Dopo tanta custodia!… Ah! che lo dico io, che è tutto inutile… Simone (come sopra). Ed in qual maniera!… Qualcuno ha dovuto tenergli mano… Simone, Simone.

     

    Scena sesta

     

    Simone e detto.

     

    SIMONE Comandi.

    DON GREGORIO Andate alla Posta a cercare le mie lettere.

    SIMONE Ci sono stato, e non v’erano.

    DON GREGORIO (Capperi!) Potreste dunque vedere se il libraio ha legato quei due tomi.

    SIMONE Sì, signore, gli ha portati, e gli ho posti nella vostra anticamera.

    DON GREGORIO (Or vedi come il diavolo ci ficca la coda). Ebbene, giacché siete disoccupato, andate a chiamarmi il barbiere, e fatelo andar di sopra, che voglio farmi la barba.

    SIMONE Benissimo.

    DON GREGORIO (Un poco  più diceva che già me l’ero fatta) (da sé).

    SIMONE A proposito, oggi son tutti chiusi, i barbieri fanno festa.

    DON GREGORIO Eh! il malanno che… va bene (oggi è giornata climaterica). Venite con me nelle camere mie, vi darò alcune lettere da portare alla Posta.

    SIMONE Come comanda.

    DON GREGORIO (Manco male, credevo che il buco della Posta fosse turato). Povero ragazzo! Se vi penso mi vien da piangere (vanno via).

     

    0902-28 032

     

    Scena settima

     

    Enrico, indi Gilda.

     

    ENRICO Giusto cielo, seconda tu questo passo azzardoso… Ah! che nessuno la vegga! Poverina, appena dalla finestra le ho fatto cenno di venir qui francamente, m’è sembrato ch’ella stessa sia stata animata da un ardire insolito. È balzata dalla sedia, ha staccato dal seno il povero fanciullo… (sentendo camminare nella casa). È dessa che già è venuta! Il servo ancora… (tremando).

    GILDA (in punta di piedi) Enrico. Va bene?

    ENRICO Hai incontrato alcuno?

    GILDA No.

    ENRICO Respiro.

    GILDA Qual nuova! Che vuoi? Siamo sicuri?

    ENRICO Coraggio mia cara Gilda, tu hai da fare l’impresa.

    GILDA Enrico mio caro, tutto ciò che vuoi farà Gilda tua. In un anno sei dimagrato per metà.

    ENRICO Ascolta. Ero io poco fa preso dalla disperazione, quando l’aio, trovandomi a piangere, a forza di buone maniere mi ha costretto a confessargli la causa del mio stato infelice. Io in parte gli ho detto, ma non ho avuto coraggio di dirgli che eravamo sposi. Tu sai che, quando devo dire certe cose, la soggezione mi chiude la gola; onde, per dar l’ultimo colpo, sono stato inspirato dal cielo, ora che non è in casa mio padre, di far venir te, che parli con tanta energia e spirito, per rispondere a ciò che dirà don Gregorio ascoltando una cosa simile.

    GILDA Farò ciò che posso. Io, lo sai, che quando mi trovo perduta pongo nel discorso qualche squarcio de’ romanzi che ho letto. Ti prevengo però che questo tuo aio ha una figura che non mi par nulla di buono.

    ENRICO T’inganni; non ha cattivo cuore don Gregorio

    GILDA Gilda fa tutto ciò che tu gl’imponi.

    ENRICO Quanto sei buona, quanto ti amo! Il tuo carattere è la mia  più  gran discolpa.

    GILDA E quando lo vedrò questo don Gregorio?

    ENRICO Eccolo.

     

    Scena ottava

     

    Don Gregorio e detti.

     

    DON GREGORIO (Poffarbacco! che vedo!) (facendo un arresto sorpreso in vedere una donna).

    ENRICO Don Gregorio, eccola qua.

    DON GREGORIO Possibile! Voi…

    GILDA Ah! Signore.

    DON GREGORIO M’inganno o siete voi quella signorina che abitate dirimpetto alla nostra casa dalla parte della piccola strada? (con sorpresa).

    GILDA Appunto.

    DON GREGORIO Figlia del colonnello…

    GILDA Tallemani.

    DON GREGORIO Che fu detto morisse nell’ultima guerra.

    GILDA Disgraziatamente.

    DON GREGORIO E voi avete ridotto a questo stato…

    GILDA Io sì, nol nego; io l’ho così  ridotto il mio Enrico.

    DON GREGORIO Eh chetatevi, cosa dite!… Arrossite.

    ENRICO Don Gregorio, non incominciate dai rimproveri.

    DON GREGORIO Ma come mai… (Io perdo la testa). Per vedervi, come avete fatto? (nella  più  grande indecisione ed inquietezza).

    GILDA Digli come abbiam fatto.

    ENRICO No Gilda, diglielo tu. Che ora hai perduto il tuo coraggio?

    DON GREGORIO (Io divengo pazzo… chi lo crederebbe). Ma via spiegatemi, parlate.

    GILDA Sappiate dunque, che essendo il mio povero padre assente, mia madre mi teneva in rigorosa custodia. Enrico, voi sapete che anch’egli…

    DON GREGORIO Ad esso era impossibile l’allontanarsi da casa.

    GILDA Ebbene stavamo dunque entrambi alle fenestre, che sono precisamente incontro l’una dell’altra. Enrico guardava me ed io guardava lui; esso rideva e ridevo io; egli mi faceva de’ cenni, ed io gliene faceva degli altri. Ridi oggi, accenna domani, sospira quell’altro; che alla fine…

    DON GREGORIO Alla fine vi riuscí…

    GILDA Ci riuscí; ma sapete quanto tempo vi volle prima di poterci parlare.

    ENRICO Troppo tempo passò.

    DON GREGORIO Io non intendo nulla; io non sono in me (da sé).

    GILDA Finalmente una notte vien fatto ad Enrico d’uscir di casa; scappa e sale su per le mie scale. Io con tre ferri da calze attortigliati insieme forzo la molla della porta di mia casa, egli entra palpitando, ed io tremando richiudo.

    DON GREGORIO Oh Dio che sento! Io mi perdo!

    GILDA Quando, entrato appena Enrico sulla soglia della mia camera (egli stava lí, ed io qui), mia madre comparisce ad un tratto; fa un grido vedendoci; si slancia sopra di me, ma s’arresta sull’atto e si avventa contro Enrico, indecisa sopra chi prima sfogar la sua collera: fra la sorpresa, lo sdegno e ‘l contrasto, trema convulsa e cade svenuta.

    DON GREGORIO Ebbene?

    GILDA Urlando dallo spavento, io m’attacco al suo collo desolata; piangendo Enrico si getta a’ suoi piedi: allorché alle grida accorre la vecchia donna di casa e mia madre ritorna in se. Per rimediare il passo inconsiderato, per salvar l’onor mio non v’era che un mezzo; Enrico lo propone, io l’accetto, e mia madre lo benedice.

    DON GREGORIO Come!

    GILDA Ci demmo la man di sposi, ed il giorno appresso fu segretamente reso sacro ed autentico il nostro legame.

    DON GREGORIO (gridando) Che dite! Siete sposi? Davvero. Senza consenso del padre! È questo il vostro male! Io che credeva che fosse solo il mal di amore… (disperandosi). Andate via; faccia vostro padre ciò che crede… Egli vi ucciderà: io v’abbandono.

    ENRICO Don Gregorio mio, adesso è fatta.

    GILDA Pur troppo, né v’è riparo.

    DON GREGORIO Non mi parlate… Non so nulla… Bricconi… tradirmi… (in furia). Ma come hai fatto, come, ad uscir di casa? (ad Enrico).

    ENRICO Bastiano il servo, che è morto sono due mesi, mi assisteva, e mi aveva fatto fare una chiave falsa.

    DON GREGORIO Indegni! Indegni! (gridando in collera). E tu come facesti ad innamorarlo? (rivolgendosi a Gilda).

    GILDA Come fanno le altre.

    DON GREGORIO Perfida, perfida! (come sopra). Ma è veramente legittima la vostra unione? (affannoso).

    ENRICO È fatta in presenza di notaro.

    GILDA Co’ testimoni.

    ENRICO Legalizzato.

    GILDA Con tutte le formule.

    DON GREGORIO Io non so ove mi sia… Il marchese muore dal dolore. Qui non v’è riparo, io non posso aiutarvi. Andate, partite (smaniando). E quanto tempo è che siete sposi?.

    GILDA Un anno.

    DON GREGORIO E pel tratto di un anno?…

    GILDA In un anno abbiam fatto un figlio.

    DON GREGORIO Un figlio!

    ENRICO Uno solo, don Gregorio mio.

    DON GREGORIO Lasciatemi andare, lasciatemi partire; restate, fuggite, fate ciò che vi piace; io vi abbandono allo sdegno di vostro padre, al suo furore (per partire).

    GILDA Come!

    ENRICO Per amor del Cielo! (ritenendolo per l’abito).

    DON GREGORIO No, no, non vi è pietà (in atto da partire).

    GILDA Ebbene, lascialo, Enrico; lascia quest’uomo col cuor da tiranno. Tel dissi che non mi prometteva altro il suo aspetto.

    DON GREGORIO Come! che dite! Io tiranno?

    GILDA Sì, lo siete, e rimarrete contento. I nostri cuori son legati fra loro dal nodo sacro, dal nodo dell’onore, da quello delle leggi, e da mille e mille altri gruppi e nodi d’amore, e di giuramenti l’uno sull’altro attortigliati e stretti. Sciogliere i nostri cuori non si ponno che riducendo in tritoli uno di essi, o lacerandoli entrambi. Avrete quante lagrime e quanto sangue vi piace per soddisfarvi; solo, vi prego, saziatevi nel pianto mio, nel mio sangue, ma sottraete al rigore di un padre severo il povero Enrico mio. Se io fui la causa dell’infelicità di questa famiglia, vendicatevi tutti sopra la disgraziata Gilda, ma sia perdonato Enrico. A questo prezzo son contenta andare smarrita, raminga, abbandonata da tutti, solo conservando al mio seno lo sventurato frutto de’ nostri amori.

    DON GREGORIO (già inteneritosi nel tratto del discorso) (Il mio cuore si spezza!)

    ENRICO Brava Gilda (sottovoce).

    GILDA Addio Enrico mio… perdonatemi… (piangendo).

    DON GREGORIO Fermatevi… che fo (asciugandosi gli occhi). Poveri giovani, lasciarli in preda alla disperazione… Il male è fatto… sono già marito e moglie… Oh Dio!… il grado è quasi eguale (indeciso fra sé).

     

    adp-web-testata-61

     

    Scena nona

     

    Il marchese Giulio e detti.

     

    MARCHESE (di dentro) Don Gregorio è tornato?

    DON GREGORIO Corpo del mondo! ecco il marchese!

    ENRICO Don Gregorio son perduto.

    GILDA Oh Dio! che fo! salvatemi (a don Gregorio).

    DON GREGORIO (Cielo consiglio!)… Qui, qui, entrate presto (spingendola entro le camere di Enrico).

    GILDA (entra) Non tradite Enrico.

    DON GREGORIO Zitta, zitta.

    ENRICO Per carità! Vado?

    DON GREGORIO Restate (chiudendo a chiave la porta).

    MARCHESE Siete in casa? (trovando don Gregorio, che leva in quell’atto la chiave dalla porta).

    ENRICO Ben tornato signor padre (baciandogli la mano).

    MARCHESE (facendo attenzione a don Gregorio che leva la chiave dalla porta con timore) Scusate don Gregorio, perché levate con quella fretta la chiave da quella porta?

    DON GREGORIO (da sé) (Io sudo freddo)… Nulla…

    ENRICO (da sé) (Oh Cielo!)

    MARCHESE Credeva rimanere a pranzo fuori di casa, ma il ministro pranzava dal Maresciallo… Perdonatemi, don Gregorio, voi mi par che siate imbarazzato; ditemi, che cosa avete chiuso là dentro?

    DON GREGORIO (da sé) (Da capo). Un’inezia, vi dico.

    MARCHESE Ma pure…

    ENRICO Non mi tradite (piano a don Gregorio).

    DON GREGORIO Ci vuole spirito (da sé). Vi dirò… mi è stata regalata… una… cagnolina, ed acciò non imbrattasse l’appartamento l’ho chiusa là dentro;  più  tardi la porterò nelle mie camere.

    MARCHESE Torno a domandarvi scusa, ma voi parlate in una maniera… Fatemi il piacere, datemi la chiave.

    DON GREGORIO Come!

    ENRICO (da sé) (Son disperato!)

    MARCHESE Non sono il padrone?

    DON GREGORIO Lo siete, e per questo…

    MARCHESE Voglio veder che v’è là dentro.

    DON GREGORIO Ve l’ho detto, una barboncina.

    MARCHESE Oh! scusatemi, io nol credo;  Orsù  questa è casa mia, l’esigo; don Gregorio, datemi la chiave.

    ENRICO (da sé) Io muoio.

    DON GREGORIO Nol credete! (Colpo da Maestro). Signor marchese,  così  si parla a me? Ecco la chiave, apra, veda, e poi arrossito dal torto che mi fa, non abbia il coraggio di mirarmi  più  in volto. Temer che don Gregorio mentisca! Fargli un simile affronto in presenza di questo giovane! Apra all’istante signor marchese; apra in mia presenza; si vegga l’insolente sua diffidenza e l’onoratezza di don Gregorio, che sin da questo punto parte da questa casa.

    MARCHESE Don Gregorio.

    DON GREGORIO Apra, non ascolto ragione.

    MARCHESE Don Gregorio, eccovi la chiave.

    DON GREGORIO No, apra signor marchese. A me un torto simile!

    MARCHESE Perdonatemi vi dico; un momento ho perduto la riflessione, ho avuto il torto.

    DON GREGORIO Diffidare! Dia la chiave, venga, veda (per andare ad aprire).

    MARCHESE Fermatevi, non voglio (ritenendolo).

    DON GREGORIO Mi lasci, vegga, si chiarisca…

    MARCHESE Vi dico di no; vi domando perdono, scusatemi, ho mancato (facendo di tutto per ritenerlo).

    DON GREGORIO No (fingendo di voler per forza aprire).

    MARCHESE Cosa volete che io faccia di  più  per domandarvi scusa; don Gregorio mio, perdonatemi. Fui pazzo: non voglio veder nulla, son persuaso. Perdonatemi per amor del cielo (che feci, io son confuso) (via).

    DON GREGORIO A me! di me! con me! (Oh stacci vecchio testardo).

    ENRICO Ah! che paura! Io vi devo…

    DON GREGORIO Vi devo un… Cosa mi fate fare voi altri (disperandosi).

    ENRICO Adesso…

    DON GREGORIO Adesso non so nulla, vedrò… cercherò… Fatela andar via (gli dà la chiave, parlando senza saper che dica per la confusione).

    ENRICO Siccome…

    DON GREGORIO Siccome le giuggiole. Qual imbarazzo è il mio… Fate che nessuno la vegga; io sarei compromesso; per carità… Va bene  così … Avete capito… Il diavolo mi porti, se intendo io quel che mi dico (via).

    ENRICO Cielo aiutami! (Entra nelle camere, ov’è la moglie).

     Continua …

     Leggi qui la seconda parte

    *Giovanni Giraud (Roma, 28 ottobre 1776 – Napoli, 1 ottobre 1834) è stato un drammaturgo e poeta italiano.

    Biografia

    Apparteneva a una famiglia nobile francese trapiantata da tempo a Roma, ed ebbe la sua formazione in un ambiente chiuso e rigido. Cresciuto in mezzo all’aristocrazia e al clero, rivolse più tardi contro questi gli strali delle sue satire.

    Il suo primo successo teatrale fu la commedia La conversazione al buio, che venne messa in scena a sua insaputa a Venezia nel 1804.

    Il suo lavoro più famoso, insieme al Don Desiderio e al Galantuomo per transazione è la commedia L’ajo nell’imbarazzo, rappresentata per la prima volta al Teatro Valle di Roma nell’autunno del 1807 e ripresa presto in altre città italiane e a Parigi (nel 1812 addirittura in tre teatri contemporaneamente). Gaetano Donizetti compose un’opera buffa sul libretto che Jacopo Ferretti aveva ricavato dalla commedia (L’ajo nell’imbarazzo, Roma 1824).

    Scrivi un commento