• TEATRO – Mito e tragedia: i crocevia del tempo

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    buoenos

     

    di Lia Maselli

     

    SINOSSI per  Efemeridi, Un Crocevia

     

    Ecate, nello spazio di lettura delle efemeridi ancora forse leggibili, accoglie i frammenti delle esistenze di coloro che incrociano la sua strada. Tematica di fondo, il tempo: dall’idea di tempo, che si fa racconto e narrazione (Mnemosine), alla caduta nel tempo (Gaia); dal futuro delle illusioni (Icaro) che sfuma nel passato della perdita (Eco), fino al presente della totale disillusione (Colei che resta), dove l’uomo capisce di non avere altro che se stesso (Medea). Un tempo che si cerca di fermare con tutte le proprie forze, al punto da rimanerne prigionieri (Arianna), o cui si fugge, dimenticando tutto e tutti (Teseo); un tempo che comunque non si riesce mai a guardare, e che, come Euridice, risuona soltanto dentro di noi (Voce).

    EFEMERIDI

    Un Crocevia

     

    Personaggi

     

    ECATE

    GAIA o delle stagioni

    ECO o della perdita

    MNEMOSINE o del racconto

    COLEI CHE RESTA o dell’attesa

    ICARO o delle false partenze

    MEDEA o dei delitti

    ARIANNA o dei nodi

    TESEO o della dimenticanza

    VOCE

     

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    SCENA I

     

    GAIA ad un crocevia invoca ECATE e le parla di Urano, oggi che lui è tornato bambino.

    È l’alba. Stazione periferica di una linea metropolitana. Sullo sfondo, murales. Le immagini sono in movimento, proiettate sul muro di separazione tra stazione e città.

     

    GAIA: Riconosco la strada, ne fiuto le tracce smarrite: intercettando uccelli migratori ripercorro antiche rotte.

    Oggi fili bianchi e rughe inospitali mi ricordano che c’è solo una carogna in fondo a questa via, un pensiero molesto, una stria di sangue impastata alla terra.

    Quando i piedi precedevano i desideri e i segnali erano spenti e gli occhi correvano anche nel buio, caddi tra le cose del mondo.

    Le stelle gettarono il loro manto su di me, manto profondo, il miele corse tra la ferita aperta.

    Si sciolsero poi, nel fianco che si faceva morbido arrotondandosi, gli anni del fare, dei parti felici e di quelli senza volto, mentre lui girava la mia bussola e mescolava le carte.

    Sul mare contro la collina si spostavano fragili i doni all’avvenire.

    Un po’ nel riso, un po’ feroci, i giorni dai capelli neri e dalle palpebre lisce passavano ignorati.

    ECATE: Perché di nuovo qua, cos’è cambiato?

    GAIA: I tempi sono cambiati, artrosici i rancori, solo brevi i tratti di terra intrisi di pioggia.

    GAIA si allontana lentamente, ripercorre i murales.

     

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    SCENA II

     

    ECO aspetta il primo treno del mattino. Fumo di legna bruciata da un campo nomadi. ECATE, che l’ha vista arrivare, le si avvicina.

     

    ECATE: Eco: ti tradiscono l’andatura di chi un tempo ha danzato, gli occhi un po’ obliqui, capelli misti a foglie…

    ECO: Mi muovevo dove ora sono i lembi di panni stesi strappati dal vento, bruciati dal sole, coi piedi scalzi e neri, crocifissi dai rovi, il rossetto di more cangianti mi spugnava le labbra.

    ECATE: Sul palmo bruciato della tua mano non si leggono più le linee della vita e dell’amore.

    ECO: Aspetto il treno che mi porta ogni mattina dall’altra parte della città, dove il mio sguardo abituato ai campi assediati di luce non troverà che uno spiraglio debole.

    ECATE: Hai alzato muri che fermano le parole.

    ECO: Quando hanno spezzato la mia voce sotto la ferrovia, laggiù nel campo.

    ECATE: Sotto i papaveri hai lasciato correre il sangue, senza parole, né grida, né silenzi, solo uno sguardo scavato nella roccia.

    ECO: La periferia, sotto i rovi, tra le carcasse d’auto, ha il sapore del ferro tra i denti, può spingerti a terra e cancellare tutti i passi di danza che hai imparato intorno ad un fuoco.

    ECATE: Gli uomini erano senza labbra, e i loro occhi in fondo ad un abisso.

    ECO: La mia voce sconfitta ripiegò in anse di muschi, ferita da stalattiti di dolci promesse non mantenute.

    ECATE: Nessuno potrà mai toccarti nella stanza.

    ECO: La ferita risale dal ventre al palmo della mano, irregolare, rossa come il succo di un papavero, copre il destino, pensando che così nascosto io possa dimenticarlo. Rimane solo l’orlo della mia veste tra i papaveri sgualciti, sotto i passi del loro desiderio semi andati perduti, fantasmi che si specchiano in un vortice cupo. Perduti gli istanti nelle unghie che si sgretolarono ricompattandosi in roccia bruna.

    ECATE: Dietro la parete c’è sempre una solitudine.

    ECO: Ballo e mentre lo faccio sfioro il mio corpo da bambina col la mano bruciata fino all’avambraccio, nascondendo le linee cancellate della vita e dell’amore al punto rosso fuoco (indica una telecamera). Solo, qualcuno spinge con forza i confini del giorno per farli sprofondare in un piacere denso di fuliggine.

    ECATE: Quando si fa buio ritorni con passo sicuro alla stazione e sali ad occhi chiusi sul treno affollato, potresti avere la discrezione di un autista senza volto ma preferisci sentirti schiacciare contro le pareti di un treno di pendolari, sentirne l’alito e i pensieri pesanti farsi strada sul tuo collo lungo, tra i capelli mossi dalle intemperie.

    ECO: Ritorno sempre sotto questo pezzo di cielo che annoda i binari in un groviglio di fili ad alta tensione.

    ECATE: Ma dov’è la porta di casa?

    ECO: La porto stretta sul grembo.

     

    Esce ECO al suono di un treno in arrivo.

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    SCENA III

     

    Piove piano, i vetri antirumore che separano i binari dalla strada sono rigati di pioggia. MNEMOSINE seduta su una panchina; ECATE è in scena.

     

    MNEMOSINE: Aprendo gli occhi cerco con le mani il sorriso più prossimo alle mie unghie rigate ma inciampo in un rifiuto rauco e cammino sulla punta di una lingua impastata di parole che si accartocciano come al sole.

    Da qui aspetto che un cielo sottile ricopra ciò che resta con un indugio gentile, un cenno che mi tolga dal petto il battito continuo, a volte impaurito, del gatto che tiene il conto delle cose, dei giorni.

    All’improvviso qualcosa arriva da un punto incerto, come vago chiarore, supera il pianto di quella stanza chiusa sul buio di un nome.

    Allora riprendono forma i volti, le parole si mettono al loro posto, abbandonandosi sul letto sfondato di una terra cruda, coperta di alghe primitive.

    Ancora una volta, per poco, ogni cosa ha il suo nome, un nome per un fatto, un nome per questo.

    E mi ritrovo in questa linea oscura del naso e questo pallore delle unghie a guardare in un riflesso di schermo che proietta stagioni.

    Mi addormentano i colpi di frusta dei minuti, mi cullano battaglie su angoli di carta, navigando o spingendo un carretto di resti e fortunate coincidenze, afferro qualche frase andata a fondo.

    Non è vero che non ricordo. Ma qualcuno lo ha detto, girando altrove la voce.

    È l’unica cosa che mi tiene stretta al dorso del tempo, ricordare.

    Che mi lancia sassi da lontano, più lontano mi spinge. Dove ci sono ancora scintille.

    Dove ogni parola dice una cosa, così come la vedevo e la toccavo prima di imparare a parlare, prima di capire che i nomi mi avrebbero condannato ad una memoria che rimane contro il palato stretto del cuore, sempre più lontana dal campo visivo miope delle cose.

    Allora da questo buco coi vetri grigi d’acqua colata da Dio, io penso alle cose accadute, e la bocca ha una saliva che sa di vento.

    E mi racconto questa storia per restare a galla, quando tutto intorno, dal bicchiere agli occhiali scheggiati, all’orso di pelo ruvido, alle unghie affilate del respiro corto, mi dicono che non ci sono più.

    Asfittica e molle sul letto, come un insulto.

    C’è qualcuno nella stanza, ne vedo una schiena lucente azzurra come quella di un pesce, ne sento il pianto fitto. Quando so che mi sente arrivare io racconto.

    Furono anni lucenti come vetri al sole, non meno taglienti. Lunghi i pomeriggi con il sonno sgomento per gli attacchi da più parti, i giochi di mani che si muovono sul pavimento nudo, i pomodori crudi e lisci che rotolano sulle palpebre e si lasciano a metà, morsi liquidi a sfarsi nella penombra. Il padre lasciava una lunga scia di malumore, si lavorava nell’ombra per non intralciargli il cammino. E tu chi sei bambino?

    VOCE: Ero lì, ho visto tutto.

    MNEMOSINE: C’erano le Estati, così lunghe che confondevano l’autunno, lasciandolo spaesato. E poi il fumo inondava le strade senza asfalto e con lui i mandarini e i lampi sul mare. Noi camminavamo assieme, ancora, ignari di quanto ci avrebbe separato e cosa, che era già lì in agguato negli inganni di parole, nelle gelosie e nel lavorio cieco del tempo.

    VOCE: Io lo sapevo che poi tutto avrebbe giocato a mio favore.

    MNEMOSINE: Il tempo ha schiacciato e separato, senza occhi senza pietà.

    VOCE: Inafferrabili gesti, rumore di lutti. Arrivarono in fretta, arrivarono inaspettati.

    MNEMOSINE: Non si aspettano, si portano in grembo. Fino a che una luce rompe il cielo sul mare e allora si corre più in fretta che si può al riparo, ma si affonda nella sabbia e il mare ha già un altro volto, e poi cala un silenzio.

    VOCE: Tempesta, ne sentivo le urla e non capivo e non vedevo.

    MNEMOSINE: È trascorsa un’altra notte sul mare, ho cercato il sonno l’ho cercato con le mani alla cieca, d’un tratto mi sono ritrovata in uno di quei vortici a mulinello e sono andata a fondo con la testa calva perché i pesci si nutrivano dei miei capelli e io sprofondavo senza alcun dio.

    VOCE: È naturale come lo è andarsene, dimenticare.

    MNEMOSINE: Si fa fatica in principio, si continua a credere che tutto resterà fermo, che le onde si chiameranno onde e che il vento non cancellerà le parole emettendo altri suoni, non è mai così se non in rari, fortuiti casi. Si resta senza forze.

    VOCE: Ne avevi da vendere, ne hai ancora in fondo agli occhi.

    MNEMOSINE: A volte il sonno mi prendeva più dolcemente, era un lungo lunghissimo bacio senza volto e il respiro copriva tutto ciò che incontrava. Le strade si coprivano di quella polvere rossa del deserto, fino alle città lontane, ricopriva le auto, i camini lunghi, i sotterranei, i volti dei passanti.

    Qualcuno ha fatto tacere la lampada colore del latte, che geme di notte in un corridoio sotto assedio. Nessuno parla.

    Io sola lo faccio ancora e soltanto di notte, quando raccolgo ciò che resta sul fondo del secchiello che ho portato in riva al mare per raccogliere ricordi.

    Di notte ancora sono libero di cambiare l’ordine e il significato dei fatti senza che qualcuno mi si avvicini per spiegarmi cosa sto addentando, dicendomi con voce cantilenante questa è una pesca una bella pesca dolce.

    Scandendo i sorrisi perché mi arrivino meglio in quella parte oscura che si è ribellata e non mi risponde, quando chiamo e non ho consonanti e vocali a colmare i vuoti.

    Esce MNEMOSINE.

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    SCENA IV

     

    Bar della stazione, attraverso i vetri si intravede COLEI CHE RESTA seduta; ICARO, in piedi, guarda fuori; ECATE è in scena.

     

    COLEI CHE RESTA: Quante volte hai girato l’angolo? E quante volte ti ho visto fare quel cenno con la mano? Cos’era per te? (Pausa; dopo un po’) Fino a che qualcosa mi si è allargato nella mente, come un’emorragia di pensiero, e sono scivolata sotto il suo peso.

    Di solito accadeva con le giornate che si allungavano, che le promesse non mantenute si schiantassero sul sentore di una stagione nuova.

    Partivi per necessità dicevi, e diventavi un altro, mi restavano false spoglie e non lo sapevo.

    L’odore di gelsomino ricopriva tutto, avvolgeva il giardino di clausura, metteva radici in un ventricolo contratto e triste.

    Mi spingevo fino alle spoglie di luglio senza tirare il fiato, prima o poi avresti portato anche me, saremmo atterrati insieme tra le nuvole e il vento.

    ICARO: (rivolto altrove) Credete che sia facile inseguire immagini che hanno la pretesa di essere cose reali, persone e fatti in carne ed ossa? Non potete sapere quanto sia difficile restare a terra. Sul bordo estremo della pista aspetto impaziente che tutto sia controllato, mani sporche di oli e calli duri sul palmo delle mani.

    COLEI CHE RESTA: Immaginavo un’isola e la descrivevo senza averla mai vista se non in qualche mappa satellitare, ti osservavo mentre andavi avanti sulla tua rotta e mi feriva il rimorso di non crederti fino in fondo.

    Ma poi mi riscattava il tuo silenzio, e la mia rabbia.

    ICARO: Io ero quello che andava. Il resto del mondo era l’attesa sciupata.

    Spreco di pensieri e di tempo.

    COLEI CHE RESTA: Gli anni, gli anni, gli anni.

    Un incontro, il nostro. Città tra bandiere e caffè di metropolitana, mozziconi schiacciati sotto le suole, prima del fischio.

    ICARO: Ho messo piede nella tua vita con toni pacati, mai uno che ti facesse pensare alla pretesa, ricordi quanto erano semplici e calme le mie parole?

    COLEI CHE RESTA: Quando tagliavi la strada e poi sparivi dietro la curva io avevo passi pesanti, l’alito oppresso da notti senza stelle.

    ICARO: Come sai non cercavo stabilità, ma la combinazione fortuita di elementi, e tu eri l’aria ed io il fuoco, tu l’accelerazione di processi, avresti voluto tutto e subito.

    COLEI CHE RESTA: Ho iniziato con una parola nella testa, e dal suo percorso assurdo in quegli anni ciechi.

    Certamente era lì, nascosta in ogni angolo, nel tarlo che rovistava nella stanza, nell’intermittenza del frigorifero, nei graffi dei gatti, nella follia che nutre l’attesa.

    ICARO: Sono arrivato nella tua vita e l’ho messa a ferro e fuoco, lasciando che la mia corresse parallela e che tu non la vedessi.

    COLEI CHE RESTA: E della volta che ti vidi attraverso i vetri, e alla prima cabina telefonica infilai il gettone, tenendo a freno il tremore con l’altra mano e tu rispondesti, e non avresti potuto, visto che non eri lì. Cosa mi dici di quella volta? Eri tornato da poco, le tue parole.

    Girare in tondo fino a guardare attraverso fessure della tua vita.

    Le nostre vite, separate dallo spazio stretto di una telefonata, di una voce registrata in segreteria, di un cenno con la mano, prima di voltare l’angolo.

    ICARO: Quando mi chiedevi com’è la tua casa, io dicevo è una casa, se vuoi un giorno la vedrai, e entravo ed uscivo dalla tua come fosse la mia.

    COLEI CHE RESTA: Una finestra si apre su una vasca di terra dove le radici non trovano la strada, ma fioriscono anche le rose se si sa aspettare, bianco dei gelsomini, un muro dove corrono gatti.

    Poi, ieri sera. Dopo anni di silenzio entrando in un teatro nel buio mi sei venuto incontro, il tuo naso i tuoi occhi marini e schivi, le tue mani salate. Per un attimo la testa ha preso a girare e la vecchia pellicola ha balbettato su uno schermo bagnato di pioggia. Ma ho respirato e tu non eri più lì e il mio pugno si è stretto e poi si è allargato in un saluto breve.

    ICARO: Mi chiamano Icaro e sono l’ uomo che ha volato bambino.

    COLEI CHE RESTA: Ma quando giravi l’angolo, cosa pensavi quando giravi l’angolo, e come vivevi le parole che non dovevano scappare e i gesti che non dovevi ripetere e i tempi che non coincidevano?

    La parola mi gira nella testa come una piccola trottola di legno sulla strada.

    Uno di quei saluti ha l’odore del sole che attraversa i vetri. Ti sei mai chiesto cosa facessi quando andavi via?

    Tu, sul dove sul quando sul perché, sapevi costruire trame per ogni giorno di assenza. Anni ho impiegato a raccogliere i gomitoli delle tue parole.

    Ma la verità dov’era? Mentre risuona tra la gola e il palato ne avverto l’inconsapevole rovescio.

    ICARO: Non cercare di capire, non indagare oltre, non guardare altrove.

    COLEI CHE RESTA: Il tuo racconto menomato si trasforma in gocce di sudore che ghiacciano all’alba.

    ICARO: Accoglie e divide la sponda di un letto dove soffoca un sole color melograno,voglio partire un’ultima volta.

    COLEI CHE RESTA: Ho appreso la conta dei nodi sul tronco dell’ulivo paterno, ogni gelo azzera l’attesa seppellendola in fondo e si ricomincia a contare, il tempo di una battaglia. È rancido il pranzo che consumo esausta da tanta attesa.

    In disparte dalla scena del dialogo tra COLEI CHE RESTA e ICARO interviene ECATE

    ECATE: Non mi stupisce, che rimanga a fissare una porta, cercando nelle ombre dei passanti.

    COLEI CHE RESTA: Cosa mi resta nella casa?

    ECATE: Vettovaglie.

    Escono tutti tranne ECATE.

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    SCENA V

    Rumore di mare, vento… MEDEA irrompe con foga, poi si ferma al centro della scena.

     

    MEDEA: Ferma al centro della strada senza voltarmi, l’auto ha attraversato la mia angoscia, battuto il muso di metallo cromato sul fianco dei miei sogni.

    Come un animale con gli occhi socchiusi sulla preda attraverso incosciente il rumore della via.

    Ancora una volta salva, se salvezza è approdare su una terra sconosciuta, tra sassi corrosi dal sale, lungo una costa colore del ferro.

    I miei delitti sono chiusi in una tela dalla trama fitta, e sono tanti quanti i granelli di sabbia che rimangono tra le dita dei piedi sulla battigia d’inverno.

    Tre mi spalancano gli occhi quando è notte.

    Il primo è nel peso di un’estate torrida, quando annegando i pensieri in una riga di mare, ferma sull’orizzonte, il dolore copriva i gemiti rauchi di gatti neonati.

    Mi porta in questa terra l’ultima tempesta, corro con il volto indifeso ad una riva che mi respinge, toglie il respiro un vento di tramontana: è inospitale l’inverno del sud, sbatte contro i muri che hanno l’odore del fumo.

    Devo apparire persa, seduta sul bordo della strada, meditativa, senza occhi fisso l’asfalto rigido, il gas delle auto che hanno direzioni e spinte simili a isterici giochi.

    In una solitudine di voci che non si parlano, qualcuno mi chiama per nome. Ma è tutto un malinteso, io arrivo soltanto oggi, non riconosco nessun volto, e le sue parole non conoscono che i fatti.

    ECATE: Farnetica di verità la donna che è arrivata dove la strada s’interrompe, si spaccia innocente. Vuole corrompere anche la luna, e così nutre di dubbi il suo triplice sguardo, desidera su di sé l’attenzione delle donne che incontra al crocevia di sassi.

    MEDEA: Dove porto i miei piedi appesantiti dal mare, dove trovo un letto per la notte che scende irrequieta? Se soltanto potessi raccontare cosa c’è dietro i fatti, forse questa città mi sembrerebbe meno ostile, io non sarei straniera dove il suono della mia voce destasse dolore, non chiedo che il tempo di raccogliere i ricordi in un angolo buio.

    ECATE: Parla così la donna che ha commesso delitti e ora fugge.

    MEDEA: Non sono qui per dirmi innocente.

    Esce MEDEA.

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    SCENA VI

    GAIA ricomincia a camminare lungo i murales; ECATE le si accosta.

     

    ECATE: L’aria si fa pesante con il suo raccolto di confidenze scomode, e si muore di parole che ghiacciano sul cuore ogni complicità andata perduta.

    GAIA: Non cominciò tardi il suo silenzio senza appello, la sua mano che vibra in un’aria impolverata.

    ECATE: Accade, che gli anni si buttino in mare come ami famelici ricoperti dalla ruggine.

    GAIA: Fuggo da quegli anni. Anni lunghi, in cui lui è tornato bambino.

    Cade sul pavimento l’ultima goccia di quel miele che mi tenne stretta a lui, cade in disordine l’ultima stella, a terra briciole e gocce di latte. Noi due ormai tiepidi ai tramonti, intrecciamo distratti lunghe aride dita.

    Dirigo i passi e lo sostengo prima del sonno ormai breve e del peregrinare inquieto da una stanza all’altra, il bicchiere si vuota sempre più lentamente.

    Resto ferma a guardarlo quando cerca la mia mano, e la porta alle labbra umide di abissi; dimentico il sonno, cerco che la partenza mi indichi la luna più vicina.

    ECATE: L’hai conosciuto che portava un cipiglio negli occhi.

    GAIA: Oggi scende le scale appoggiandosi stretto, lui che sempre mi precedeva togliendomi il fiato.

    Il suo passo non segue più il pensiero immutato e lucido ed io non riconosco più il suo volto, appesantito da gobbe di assenze e sguardi vacui, arenati in drappi imbevuti di pece.

    Allora la falena si accende di ricordi, il fumo ci circonda senza fiamme.

    Esce GAIA.

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    SCENA VII

     

    Entra in scena MEDEA; ECATE è di spalle.

     

    MEDEA: Avevo avuto in sogno il filo dell’illusione. Ciò non ha impedito che mi alzassi, per dirgli addio.

    All’alba ho mosso il primo passo all’esecuzione: il clistere che darà una tempesta di false onde.

    Il taxi è scivolato nel giorno del caos, tra bus e motorini, atterrando in un vicolo cieco mi ha scaricata tra il vomito e il rancore. Ho fatto le scale con lentezza e a schiena dritta.

    Di fronte alla scheda che lo riassumeva in un grumo pallido il mio sguardo ha brillato.

    Di morte e vita hai beffato la mia carne, pensavo, mentre qualcuno mi diceva: il fiume ti coprirà di nostalgie.

    Tutte le profezie del padre e le debolezze della madre stanno di fronte al camice bianco.

    Dalla feritoia del telefono in fondo al corridoio qualcuno mi ha gettato il bastone tra le gambe e i denti.

    Allora, ho camminato stretta contro i muri. Ho lasciato la mia scia di sangue sull’erba già satura di urina di cani. In un’esistenza brulla, stenta. Correndo col pensiero, braccata, dopo l’angolo.

     

    Esce MEDEA.

     

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    SCENA VIII

     

    Entra ARIANNA come se stesse cercando qualcuno, seguita da TESEO.

     

    ARIANNA: Ho seguito voci che si confondono con il vento, sassi lanciati in acqua, a tratti sussurri, ho seguito il rumore dell’onda tra le vesti dell’ultima arrivata, e mi trovo nello stupore di un luogo che è l’inizio di luoghi possibili, ancora immaginabili.

    Senza sapere dove camminerò, se seguirò il verso di uccelli, presagi… O lo sguardo che parla con la lingua ferita, di chi si è fermato ad attendere: l’eco smarrita, il passo indurito dagli anni, il rumore di pensieri che non riconoscono le parole, il pianto che non assolve, lo sguardo imparziale, ambiguo, che mostra un volto sconosciuto.

    ECATE: Eri la schiena contro il muro a calce del labirinto, a prendere schiaffi dal vento che cambiava il tempo, voltando dietro l’angolo nudo.

    ARIANNA: Dimenticata sull’isola sono tornata nel labirinto a cercare le sue impronte, unirmi ad esse, così poi ho perso il ritorno, fino ad oggi.

    ECATE: Avevi teso il filo per liberarlo dagli ingannevoli percorsi, come hai potuto, tu stessa, rimanerne prigioniera?

    ARIANNA: Una promessa smarrita, dimenticata, lasciandomi il bandolo consumato dal sudore, mi teneva ferma, inchiodata, in un punto remoto della prigione che pure conoscevo così bene, l’avevo vista crescere, contro il cielo denso di arrivi e di partenze.

    TESEO: Hai trovato per me la strada del ritorno a casa, hai teso il filo, io non ne avrei avuto il tempo, troppo perso nei corpo a corpo coi fantasmi che tagliavano l’onda.

    ARIANNA: Ti lasciavo versi nella notte e tu ne seguivi le tracce, impronta grigia e morbida nella cenere, annusavi il lievito dei segni che spargevo intorno per darti l’uscita. Ascoltavi avido succhiando sillabe e fiato.

    TESEO: Le notti trascorse a seguire il tuo filo di parole, mi aprivano possibili varchi al mare.

    ARIANNA: È trascorso il tempo su costole muffite di libri, facendo leva su ogni sillaba, per spostare un’ora dopo l’altra le sorti del giorno che precipitava in un vuoto d’aria. I suoni ovattati, arrivavano come segnali di allerta e poi si spegnevano. Tutto si traduceva in un codice, numeri e lettere che cercavo di decifrare.

    ECATE: Nuove stanze al labirinto hanno confuso le mappe, e lui dov’era ad indicarti l’uscita?

    TESEO: Ero già lontano, imboccata la via di uscita ti portavo con me, figurina ritagliata in carta di riso: già dimentico del padre che attende le vele bianche, dimentico di te che dormi sulla sabbia.

    ARIANNA: Ho aspettato per anni che qualcuno passasse, che si fermasse a parlare, il tempo stringeva, le ore minuscoli pesci guizzanti, logorano la tela e mangiano i pensieri. mentre leggo con urgenza il mio elenco di titoli ricoperti di muffa.

    Nessuno mi chiedeva mai come ci fossi finita, fingendo di non sapere di non capire, non chiedevano per non ferirmi, con la bonarietà di chi accarezza la testa ad un cane e poi lo lascia agonizzante guardando altrove.

    TESEO: Volevi avvolgermi nelle tue trame e inghiottirmi nei tuoi sogni, mi indicavi l’uscita e imparavi a stringere nodi.

    ARIANNA: Nel labirinto arrivava il vento di scirocco rovistava sotto la gonna, accecava i lampioni che guardano a mare, sbeccati i gradini, per troppi salti, tentando la fuga.

    TESEO: Che destino incongruo il mio: dimenticare chi più mi sta a cuore, senza premeditazione: Niente di personale.

    ARIANNA: Ancora questo ingannevole tuo candore, questa tua pretesa estraneità ai fatti, se sono arrivata fino a questo incrocio polveroso, oggi, non è per te.

    Esce ARIANNA, poi TESEO.

     

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    SCENA IX

     

    Entra MEDEA.

    MEDEA: Sai cosa si prova a vivere la vita di un’altra persona? Parlare con la voce di un’altra, camminare coi suoi passi, dire le parole che non sei tu?

    Nessuno te lo impone se non te stessa, e perché lo fai?

    Fai un lavoro che non ti piace, sposi un uomo che non ami, stai in silenzio quando vorresti parlare, e stai ferma quando vorresti andare. Tutto questo diventa ansia e paura di vivere, diventa l’angoscia multiforme che ti stritola in vortici di ipocondria.

    ECATE: Scivola il suo sguardo su anni conficcati come denti in una giovinezza rude, nelle giornate a costruire percorsi di fuga.

    I passi si diressero altrove, gli occhi si abbassarono, e di non grande consolazione fu il ritrovarsi tra una folla di volti.

    MEDEA: Dove si muovevano parole nuove io correvo, senza scarpe ballavo sui tavoli circondata dal rumore caldo delle donne di casa, si muovevano al vento le pale dei miei sogni, e poggiavo la testa al cuscino continuando a danzare allacciata alle parole che danzavano con me.

    Questa fu l’infanzia dei viaggi in vagoni di notte, quelli che andavano lontano.

    ECATE: Hai dimenticato in fretta chi eri.

    MEDEA: Hanno scaricato sulla riva valanghe di massi ferrosi, per contenere il mare, cosa avrei potuto io che conoscevo soltanto l’infanzia? Ho imparato in fretta il limite alle mie visioni. Guardavo dalla terra ferma i camion arrivare e ripartire vuoti, ogni viaggio era un passo indietro, un compromesso.

    ECATE: E’ stato così che hai smesso di danzare con le parole, hai infilato scarpe e riparato gli occhi dalla salsedine e l’onda.

    MEDEA: Ho portato figure di danza nel cuore, e sono andata lontano. Sulla riva si alzavano case, i giardini ordinati, le balaustre si ricoprivano di rami, io sedevo a guardare la gente che camminava sulla via in basso, dallo scialle osservavo e lasciavo scappare le idee, i sogni intrecciati alle parole erano le idee che cadevano una dopo l’altra e il mio sorriso restava immobile, sotto i passi ignari della gente.

    Esce MEDEA.

     

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    ULTIMA SCENA

     

    Quasi sera. luci di un treno in lontananza. Il bar è vuoto. Non piove più. Entra ICARO.

     

    ICARO: Come poteva prevedere il mio ritorno dopo neanche un giro intorno al sole?

    Azzerati tutti i ritardi, tutte le attese, annullati tutti gli arrivi e le partenze.

    Poi mi fermerò, è veramente così che le ho detto? Un ultimo viaggio ancora… e lasceremo entrare le dolci lune del mattino dalla finestra aperta, oblique sul foglio teso… sì è così che le ho detto… Non raggiungibile, la risposta al suo messaggio, Irraggiungibile… i satelliti, confusi, continueranno a cercarmi nella notte.

    Le efemeridi, non più leggibili, in questo approdo nebbioso… quelle trascorse quelle future… lei sarà sorpresa di vedermi arrivare con il mio esile bagaglio questa volta per restare.

    ECATE: La notizia è arrivata nella notte… la bussola è nascosta da una zolla di terra, il suo sorriso di schegge di mare si è sciolto tra banchi di nebbia, la campagna ha un sussulto… Il sorriso evaporato dei morti si condensa sui vetri di una memoria intermittente.

    Lei lo ha saputo già in sogno, che l’attesa è finita.

    ICARO si allontana dalla scena, bagliori di luci dai treni in lontananza.

    ICARO volta le spalle, si vede GAIA camminare stancamente lungo i binari, viene infine avanti e si mette in attesa al centro della scena.

    GAIA: Al centro della strada aspetto che tu, benigna, mi dia la direzione.

    ECATE: Quello che vuoi è una strada che non posso darti.

    GAIA: Inizio a tremare e nessuno mi accoglie, non un sogno mi ruba all’inferno di queste fredde stanze, la stanchezza mi tiene sveglia, al suono del mio nome stracciato dalla sua nuova voce.

    Nella notte, al crocevia dove tu, ambigua, hai il tuo regno, mi chiedo se mai mi indicherai il punto in cui la strada si interrompe. Non lasciarmi esausta ad oscillare in equilibrio, sospesa, ingenuamente protesa.

    E ti aspetto, restando con le mani legate, tacendo l’angoscia che mi copre come schiuma di mare.

     

    Esce GAIA; ECATE è di spalle.

    14 - Copia

    Un crocevia

    Le tematiche assolute del Tempo e delle Dee si intersecano in Gaia e Mnemosine, nella prima la fine del tempo nell’altra il ricordo di questo che diviene narrazione, nel tentativo di ricomporre una memoria ormai labile

    Tematiche umane sono le illusioni e le promesse non rispettate dalla vita in Colei che resta e Icaro; quelle non rispettate da noi stessi verso la vita, i delitti di Medea: la perdita dell’innocenza, i desideri cancellati, le aspirazioni tradite.

    Né donna né dea, Eco, una dolorosa metamorfosi.

    Inizia e termina con Gaia, la parabola di un’esistenza che non troverà altro che “ una carogna in fondo a questa via”

    I personaggi sono accompagnati da Ecate che raccoglie nel suo peregrinare da una stazione all’altra le loro vicende, senza poter peraltro interferire con il loro destino

    Efemeridi da hemera: giorno, tav. numerica recante coordinate variabili degli astri. Anche almanacco giornaliero dei fatti

    La periferia di una grande città, nell’arco di un solo giorno, diviene crocevia di esistenze in cui si intersecano tematiche assolute ad altre più squisitamente umane

    Ecate dea multiforme dei trivi, accoglie i protagonisti e con essi, nel loro peregrinare da una stazione ad un’altra, frammenti della loro storia, senza poter in alcun caso interferire il loro destino.

    In Mnemosine il ricordo del tempo diviene narrazione nel tentativo di ricomporre una memoria ormai labile. Tematiche umane le illusioni e le promesse non rispettate dalla vita in Colei che resta e Icaro; quelle non rispettate da noi stessi verso la vita, i delitti di Medea: la perdita dell’innocenza, i desideri cancellati, le aspirazioni tradite. Né donna né dea, Eco, una dolorosa metamorfosi.

    Inizia e termina con Gaia la parabola di una esistenza che sa che non c’è altro che “ una carogna in fondo a questa via”.

    © Lia Maselli – Pubblicato per gentile concessione dell’autrice

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    • Ho letto. Ho ricordato. Ho amato.
      Gentile Lia. Il testo è intriso e intenso di vita, c’ è Kairos che aspetta e Kronos che non aspetta più. Se avessi denaro metterei in piedi quest’opera e la rappresenterei. Io sono Gaia. Grazie.

    • Stefania P.

      Sono ancora stordita dalla profondità abissale che il mio cuore ha dovuto conoscere.
      Le parole immaginifiche portano ad assorbire quanto Lia ha dentro.
      Se avessi modo pubblicherei immediatamente questo testo teatrale e lo metterei in scena. Ognuno di noi si specchia in altrettanti personaggi, personificazioni. Io sono Colei che resta.
      Grazie Lia

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