• La storia dei mille anni

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    Un viaggio emozionante nel misterioso popolo Rom della Bosnia Erzegovina

    Signori del tempo

     

    di Gian Carlo Zanon

    Pensieri a margine del film/libro Adisa o la storia dei mille anni di Massimo D’orzi

    «Non bisogna lasciare che un film finisca con la fine di un film, ma bisogna fare in modo che il film si prolunghi all’esterno di se stesso, proprio dove siamo noi, dove viviamo noi che siamo i protagonisti di tutte le storie»

    Michelangelo Antonioni

     

    Avevo visto il trailer del film. Sarà stato il suono della fisarmonica che sempre mi scioglie il cuore, o forse le immagini dove il nero mostrava il rosso nascosto, ma anche il cavallo bianco che avanzava in quella neve e rendeva opache e irreali le cose del mondo … non so, so che sono uscito per prendere il libro/DVD Adisa o la storia dei mille anni per continuare a vedere quelle immagini così… così … poi sdraiato sul divano ho visto il film, e il giorno dopo, assediato da quelle immagini che non mi lasciavano pensare ad altro, ho letto il libro.

     

    Ora sono qui chinato in segno di rispetto e con timore, a scriverne forse per capire i motivi che mi vincolano, – in senso bruniano 1) –  a questa opera d’arte.

     

    Un primo elemento, un’ immagine poetica condivisa, l’ho trovato nella poesia Che farò di Joska Michele Fontana inserita nel libro. La poesia evoca una notte inquieta dove l’esigenza dell’essere chiede la forma del suo mostrarsi:

     

    «Dipingerò questa sera./No non mi sento./Che farò (…) Quanti desideri/ vaneggia la mia mente (…) Il furore della gioventù/ ancora domina lo spirito./ Quando ti placherai/ vorace mio cuore?»

     

    Mi sono ricordato di una poesia, dimenticata in una scatola di scarpe … quando? Vent’anni fa? Trent’anni fa? Più o meno. Eccola l’ho trovata

     

    « Un adolescente avvolto dal vento,…/ la camicia nera a pois,/ immortale come uno zingaro; /e poi la notte…/impossibile consumare questo tempo/ dormendo/ fermare questo fiume in piena che tutto/ riempie, impossibile.(…) /Notti dove tutto può accadere,/ quando il cuore si dibatte/ impietoso,/ cresce inarrestabile e vuole, /vuole; /vuole un corpo sempre più forte, /più giovane/e spinge, spinge fuori dalle vene/ il sangue/che corre a rivoli, / dalla mia bocca.»

     

    Non volevo tediarvi con le mie cose, è solo che trovo tutto ciò … Zorba direbbe “lussureggiante”. Mi danno un piacere immenso questi vincoli che fasciano la mente per giorni e giorni e mi piace pensare che c’è qualcosa, o c’è stato, di molto simile tra me un “gagè” e uno sconosciuto poeta Rom.

     

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    Ma queste sono solo parole, e il mio timore iniziale sta divenendo ansia per la difficoltà che provo nello sforzo di scrivere di questo film/libro, e cercare delle ‘affinità elettive’ nelle parole non placa certo l’inquietudine che queste immagini mi fanno vivere. E allora qual è il ‘problema’? E come ‘risolverlo’?

     

    Il ‘problema’ sta, penso, nel non riuscire a definire con il mio pensiero verbale quella “sensazione del tempo” ed anche la percezione dello spazio del vivere, così diversa tra un Rom e un “gagè” …  come me. Lo dice a modo suo nella prefazione al libro di M. D’orzi, intitolata Il tempo e l’orologio,  il regista Silvio Soldini: c’è una distanza arcaica, sottolinea Soldini, «… che non possiamo più capire. Come il considerare lo spazio che si attraversa non qualcosa che appartiene a qualcuno, ma un bene di passaggio che ti serve – a trovare acqua, accendere un fuoco, cercare un riparo …». Certamente c’è anche questo, ma ciò è solo ed ancora la superficie di quella realtà umana che sì appartiene ai Rom ma che appartiene anche a noi, ai “gagè”, i «murati vivi», o perlomeno ad alcuni di ‘noi’: quelli, come l’autore del film, che si sono salvati dalla lebbra comune.

     

    Loro, i bambini, le donne e gli uomini, ritratti in questo film, vivono il proprio tempo interno con una naturalezza ‘spaventosa’. Dire che se hanno fame cucinano e mangiano tutti insieme, e non guardano l’orologio per vedere se manca molto all’ora di cena, è solo una verità molto superficiale.

     

    Il mondo occidentale, con una sempre maggiore accelerazione, è tutto teso ad ‘anticipare gli eventi’. I miliardari in questi ultimi anni stanno cercando di accaparrarsi terre, acque, spiagge, perché credono che questo, in un prossimo futuro, darà loro ancora più denaro e soprattutto più potere. È da almeno tremila/quattromila anni che l’uomo maschio occidentale, angosciato da possibili eventi imprevisti ed ignoti, cerca di prevedere gli accadimenti. Per fare ciò esclude persino l’epoké, la sospensione del giudizio creando così ex nihilo  il pre-giudizio che fondendosi alla realtà nella percezione delirante, snatura la realtà interna degli eventi e soprattutto quella dell’altro da sé.

     

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    Da almeno tremila anni nelle società patriarcali – il 99,9% delle società – il modello assoluto dell’essere umano è maschio, bianco, cristiano e predestinato dal dio monoteista al successo sociale; partendo da questi assunti dogmatici, che permeano il pensiero delle società capitalistiche, il resto dell’umanità, che non ha queste caratteristiche, è una mera anomalia della specie, una sottospecie umana da usare per il sistema o, se non aderisce a questo modello, da eliminare. I Rom fanno parte di quest’ultima categoria e sono da espellere, eliminare, ghettizzare come nel libro di Aldous Huxley Brave New World, in nuove ‘riserve per tribù indiane’ dalle quali non possono uscire e mostrare il loro diverso modo di vivere, se non come se fossero rinchiusi nelle gabbie di uno zoo.

     

    Per tenere lontani questi esseri sub-umani che perturbano il mondo ordinato dell’abitudine e del tempo umano ostaggio del denaro, si costruiscono muri mentali e materiali e fortezze poste ai confini del Deserto dei Tartari, per difendersi da coloro che rappresentano l’inquietante ignoto.

    In quei luoghi mentali, dove la ragione utilitaristica si arrocca in una moltitudine di fortezze Bastiani, il perturbante può prendere la forma di un cavallo bianco, che, nell’opera di Buzzati, sconvolge il tranquillo tran tran della coazione a ripetere. Nell’opera filmica di Emil Loteanu, I Lautari,un cavallo bianco apre il film e lo chiude fondendosi ad un’immagine femminile.

     

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    Anche in Adisa o la storia dei mille anni appare un cavallo bianco, definito dall’autore «metafora e materia di tutte le cose …» ma certamente non rappresenta l’ignoto non conoscibile, l’angosciante fascinans et tremendum.

    Pur sapendo che ciò che è entrato nella telecamera esiste ed è reale, questa del cavallo, come tutte le immagini in movimento del film, appaiono gravide di un mistero che attrae senza  … si potrebbe dire che è un Tarkovsky senza l’angoscia religiosa che pervadeva la sua filmografia in alcuni film, soprattutto gli ultimi.

     

    Ma lasciamo stare i registi ‘santificati’, questo film non ha padri. Molti registi ‘santificati’ hanno provato a fare film sull’arte creando dei tableaux vivants, uno per tutti Tout va bien di Jean-Luc Godard, ma ne lui né Derek Jarman, – CaravaggioGreenway, – Nightwatching – non parliamo poi dell’obbrobrio di Pasolini, – La ricotta – . Ma questi registri stranoti al pubblico mondiale non sono riusciti a rappresentare il movimento nell’arte, o il tempo umano. Le ‘immagini’ dei film citati sono cristallizzate come le peggiori nature morte. Massimo D’orzi non ha fatto dei tableaux vivants. Definire in questo modo i visi e corpi che ‘caravaggescamente’ escono da un buio popolato di mistero sarebbe un grave offesa. Ciò che ha fatto il regista/autore forse non ha un termine definito, o perlomeno non lo conosco: ho pensato a cose come, “immagini parlanti”, che dicono di sé, che ‘rispondono’ alle domande dell’autore, della montatrice Paola Traverso, della troupe, di chi vede questo film.  Sia le domande che le risposte sono in divenire e ciò che era realtà ora è finzione, ciò che era finzione diviene parte del pensiero dello spettatore e quindi sua realtà interiore, suo movimento mentale.

     

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    Ho pensato anche a “un’opera d’arte immersa nel tempo in continuo movimento” perché quelle immagine nella mente non si ripresentano mai statiche ma hanno sempre il tempo che appartiene ad uno sguardo, alla molteplicità dello sguardo, degli sguardi. Come lo sguardo degli occhi neri e splendenti di Adisa.

     

    A questo punto credo di aver compreso perché Massimo D’orzi ha scritto un testo poetico per accompagnare con un libro il suo film: perché non ci sono altri modi per raccontarlo se non la poesia. Prima di iniziare a leggere i testi inseriti in questo libro ho pensato di difendermi dalle sue parole, per ‘salvare’ il film che ‘io’ avevo visto. Non è stato necessario, il mio pre-giudizio era inutile:  le sue parole, quelle di Paola Traverso e degli altri, mi hanno attraversato quasi, quasi, come le immagini del film.

    Certo D’orzi nel testo cita Caravaggio e Van Gogh, e tutti, compreso me, avranno ‘visto’ l’ombra dei due pittori nel film,  ma, in fondo in fondo, il movimento vitale che trasmettono le sue immagini, non appartiene a questi due artisti: il luccichio negli occhi che dipinge il vedere interno di Adisa è un’immagine assolutamente nuova. Anche il libro è intrigante, lo puoi aprire a caso e leggere la pagina che il caso ti ha messo davanti … non delude mai.

     

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    Paola Traverso che scrive il capitolo dal titolo Scrivere con le immagini, parla del suo lavoro di montaggio del film. Parla anche della propria inesausta ricerca – viene il fiatone a leggerla- per dare alle immagini «… il valore e il significato di un pensiero». La montatrice parla anche delle sue scelte estreme, ad esempio «il rifiuto di fare del cinema uno strumento per ribadire l’immobilità e l’ineluttabilità della condizione umana»; scrive anche «L’unico pensiero che ho fatto prima di cominciare a lavorare è stato proprio quello di ricercare nel montaggio una sorta di scrittura  con le immagini – e che ha fatto in modo che esse divenissero «Una forma di scrittura».

     

    Mentre la leggevo ho pensato alla Tapesserie de la reine Mathilde che racconta le gesta di Guillaume le Conquérant, quando nel 1066 riconquistò con le sue armate normanne l’Inghilterra. Si narra che la tapesserie, una striscia di lino alta cinquanta centimetri e lunga quasi 70 metri e ricamata con fili di lana colorata, sia stata cucita sapientemente dalla reine Mathilde , sposa di Guillaume. L’opera d’arte, che dal 2007 è inscritta al registro Memoria del mondo dell’Unesco, è da moltissimi anni vivente negli occhi delle migliaia di visitatori che per poterla vedere si immergono nella semioscurità, che la protegge dal tempo, di una grande sala del museo di Bayeux in Normandia.

     

    In verità la tapesserie,  pur nel suo fascino, appare più come una storyboard. Le immagini raccontano solo ricordi. Diverso il lavoro di montaggio di Paola Traverso che scrive «Dal silenzio nel quale ci immerge il montaggio emergono volti e poi voci come un canto in una lingua sconosciuta». Questa è la differenza: la reine Mathilde  cuce la storia della conquista del marito con l’intento di raccontare fedelmente un accadimento. Paola Traverso monta un materiale lasciandosi possedere dai volti e dalle voci che emergono assemblandole con il proprio tempo interiore. Sono due intenzionalità ben diverse. E questo fa parte del fascino di Adisa.

    Un altro elemento che affascina è il potere dello sguardo filmico che penetra la realtà. Realtà che si mostra in migliaia di attimi registrati dalla fotocamera che si sovrappongono raccontando anche ciò che esiste sotto la scorza dura della nostra civiltà di“gagè”. Per questo e per molto altro quest’opera sfugge anche alla pur splendida definizione di Tarkovskij citata nel testo: «Il cinema è un mosaico fatto di tempo» . La sfugge e la supera perché il grande regista russo parla di mosaici, di immagini immobili … questo film invece sembra essere fatto della stessa sostanza del vento impetuoso che scompiglia, ogni volta che lo rivedi o lo ripensi, i pensieri che ti eri fatto su quelle immagini fuse con il tempo che dona loro il movimento … e forse anche l’immagine che ti eri fatto di te stesso.

     

    D’orzi ha rubato a questi esseri umani incontrati nei territori insanguinati dell’ex Jugoslavia visi e mani, cavalli e fuochi, donne con orecchini e ombre, occhi neri scintillanti e calma, per domandare chi siamo, sapendo che la risposta è nascosta nel tempo umano di ognuno di noi.

    Ma altri pensieri vengono stimolati dalle immagini parlanti del film e dalle parole/immagini del libro … il popolo Rom, le sue tragedie, la stupidità delle nostre leggi razziste create durante quella che dei fascisti in camicia verde e i loro complici hanno definito ”emergenza nomadi”… ma guardando questo film tutto è presente eppure tutto è scomparso: rimane solo la sensazione di essere stato lì in mezzo alle montagne tra Monstar e Sarajevo, e aver mangiato assieme ai ‘figli del vento’.

     

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    ‘Figli del vento’ che ogni giorno incontro sui bus e sulle metropolitane di questa città papalina dove la loro lingua, come le onde del mare che unisce e divide, è spesso un muro invalicabile. Ora dopo esser stato assediato per giorni e notti dalle immagini parlanti del film e dalle parole/immagini del libro, penso che questo popolo scaltro, forse senza saperlo, è lì che ci aspetta … questa società in cui viviamo sta mostrando crepe e sintomi che raccontano della fine imminente – quanto imminente non si sa – di questo sistema di vita. È inutile nascondere il capo nella sabbia credendo così di annullare delirantemente i segni del declino del mondo occidentale ed estensivamente di tutto il sistema capitalistico.

    Due sole sono grosso modo le strade per affrontare la crisi: la prima, tragica, è continuare in questo modo e permettere che solo i ricchi, i potenti e i loro servi possano mantenere il livello dei consumi attuali lasciando miliardi di persone nella lotta feroce per la sopravvivenza. La seconda chance, auspicabile, è quella della divisione delle risorse e della ricreazione di una rete sociale improntata su rapporti umani affettivi. Per poter fare ciò, adottando un’economia da decrescita, si deve tornare ad un livello di consumi paragonabile a quella dei Rom. Per giungere a questo nuovo modo di vivere i rapporti con l’altro da sé, si deve attraversare il guado di una mutazione antropologica che deve necessariamente fare i conti con il concetto di tempo: passare da un tempo che appartiene alla realtà della natura non umana, che ci porterebbe a sbranarci l’uno con l’altro, al tempo umano della nascita.

     

    Solo parlando di tempo come ‘tempo umano’, restituendogli così la sua primaria qualità, ci si può avvicinare alle immagini del film Adisa o la storia dei mille anni, e pensare che un altro modo di vivere sia possibile. Loro vivono così da centinaia di anni, perché non potremmo vivere anche noi in un modo simile? Come scrive l’autore non è la miseria materiale «a rendere l’uomo disumano». Casomai è la miseria psichica di chi ‘percepisce’ l’altro come un oggetto desanimato da sfruttare a proprio beneficio a renderlo disumano. Nel testo del c’è una bellissima frase di Massimo D’orzi che definisce bene la differenza sostanziale tra la natura dei Rom e quella dei “gagè” : «Non cambierei la mia misera sorte con la tua schiavitù». E molti di noi sono schiavi perché hanno venduto per pochi talleri il proprio tempo umano. Michael Ende, l’autore de La storia infinita, scrisse negli anni ’80 una favola, Momo, edita ora da Longanesi, dove racconta di una bambina che aiuta gli abitanti di una città a salvarsi dagli Uomini grigi che rubano il tempo agli esseri umani.

     

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    Gli esseri umani che vivono inseriti nel sistema capitalistico sono da troppo tempo rinchiusi, ognuno nella propria fortezza Bastiani, a difendere con abitudini ritualizzate la logica delle ‘necessità consumistiche’ perpetuando tragedie senza grida. ‘Loro’ no; ‘loro’, i Rom, anche quando hanno una casa vivono accampati, perché il domani è domani e ci saranno nuove domande che esigeranno nuove risposte; perché ‘loro’ non sono dei “gagè”,dei «murati vivi», ‘loro’.

    Prova del nostro andare verso di loro e non viceversa è un libro  che diventerà materiale di insegnamento in un corso tenuto all’Università di Chieti: Rom, genti libere, storia, arte e cultura di un popolo misconosciuto, -Dalai Editore – . Il professor Santino Spinelli, che insegna Storia e cultura Rom all’Università di Chieti ne è l’autore. Come ha scritto ieri Furio Colombo sulle pagine de Il Fatto «Con questo libro la cultura rom entra nelle biblioteche universitarie. Sbugiarderà e svergognerà la Lega e i suoi leader».

     

    Utopia? Forse. Comunque vada occhi neri luccicanti come quelli di Adisa da mille anni sono lì che aspettano il nostro ritorno.

     

    Oggi mi piacerebbe essere uno «figlio del vento» e non sapere cosa succederà domani, domani … domani non so ma oggi andrò a vedere la prima di Sàmara, il nuovo film di Massimo D’orzi.

     

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    Il cembalo di Eraclito

     

    La campagna correva strusciando il suo verde

    sui vetri e negli occhi di donne straniere.

    Un suono perfetto sgusciava

    sfumando a Natura i colori:

    un uomo, gitano nel cuore,

    urtava, sapendo di corde,

    un’arpa ungherese con legni di quercia.

     

    La mente destata dall’eco diceva:

    che fare per mettere insieme parole

    dire di mani fatate e di corde?

    Mentre il suono, come vento giungeva

    scoprendo abitudini vili, e

    certe del niente, e fissate nel tempo

    di inutili, galattiche sfere.

     

    “È un cembalo” disse e voleva dei soldi

    per vivere il vino e scordarsi del volto

    che dava alla musica un senso.

    E la corda ch’era d’arco di Apollo,

    che uccise la Pitzia,  o fu lira

    d’Orfeo, e incantava le fiere,

    si tese ancora una volta … e fu canto.

     

    Gian Carlo Zanon , primavera 2011

     


    • Bellissima poesia che coglie nel segno, Per noi – anche quelli come me – vivere nel presente come dimensione di realtà non è facile. Sarebbe tutto già previsto e , ovviamente, non è vero. Noi, come loro, lottiamo contro il disumano che distruggerebbe la natura, il tempo e i rapporti tra esseri umani Penso che le rivoluzioni non hanno mai cambiato il mondo. Non lo fecero i barbari che invasero l’ impero romano, non lo fecero i rivoluzionari del tempo dei lumi nè i bolscevichi. Anche il muro di Berlino è caduto – ma già se ne vedevano le crepe. Sono fiducioso che col capitalismo accadrà la stessa cosa. Quelle società di cui si apprende nei libri di storia erano in crisi per cause endogene. Per una porta scardinata o un muro cadente basta un colpo di vento. Io aspetto e faccio le mie piccole rivoluzioni nel quotidiano – anche da solo.
      Non ho visto ancora il film ma la tua bella recensione mi ha messo addosso la curiosità. Attrae che il ” diverso ” sia tanto vitale.
      Alla Prossima. Ciao.

      • Si penso anch’io che le cause del fallimento delle cosiddette rivoluzioni sia endogena, perché le rivoluzioni non sanno partorire continue rivoluzioni che portino, una volta superati i bisogni primari, ad una ricerca sulle esigenze irrazionali, o se vuoi inconsce, degli esseri umani. Sono discorsi enormi… per rimanere nell’ambito di questo film meraviglioso in questi giorni ho pensato che fra un po’ dovremo andare a scuola dai Rom perché loro sanno tutto sulla decrescita, sullo sviluppo sostenibile, sul risparmio delle risorse naturali, e sul tempo umano legato agli affetti …

    • dopo aver letto questo tuo scritto così appassionato voglio vedere e leggere..quest’opera che aiuta a comprendere che non vi è “immobilità e l’ineluttabilità della condizione umana”. un bacio, figlio del vento, ogni volta che ti leggo mi sento più “ricca”. grazie

    • ‘In quei luoghi mentali’… ‘Signori del tempo’.

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