• 25 aprile … Resistenza, il giorno dopo : “La ragazza di Bube” e i romanzi del ritorno

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    P-Dopo il 25 Aprile: i romanzi del ritorno

    di Gian Carlo Zanon

    La data del 25 aprile, scelta convenzionalmente come “giorno della liberazione”, segna idealmente  uno spartiacque tra un prima, occupazione nazifascista, e un dopo: volontà di ricostruzione della società civile e di strutturazione di una nuova identità umana generata dagli ideali della Resistenza.

     Dopo gli orrori della guerra, il ritorno alla civiltà e alla democrazia non fu certamente lineare né indolore. Anche in questo caso per conoscere a fondo la storia, o meglio le storie, dell’immediato dopoguerra, ci si deve affidare non solo agli storici ma anche a poeti e romanzieri.

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    Costruire sulle rovine  dell’Italia una società mai esistita prima

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    «Per noi, pur nell’esultanza del sogno che avevamo lungamente atteso, che avevamo sofferto con struggimento senza fine, non era facile cambiare vita, abitudini, riacquistare in pochi minuti, in qualche ora, la disinvoltura, la naturalezza che l’imminente insurrezione ci prometteva (…)»

    Così narra Giovanni Pesce, Medaglia d’Oro della Resistenza, le sue esperienze di ex partigiano nel suo libro Quando cessarono gli spari. Da queste poche parole già si evince il senso di straniamento di chi, dopo aver combattuto contro tedeschi e fascisti e aver vissuto per mesi e mesi una vita estrema, ora doveva ritornare alla normalità. Ma cosa significava normalità?

    Finita la guerra mondiale e civile l’Italia è da costruire e ricostruire. Dal punto vista materiale, si può parlare di ricostruzione, case, strade, ponti, ecc.,  dal punto di vista sociale si deve, si dovrebbe, parlare di una vera e propria creatio ex nihilo. È per questa idea, che prevedeva la nascita di una società nuova e soprattutto diversa dalla precedente, che migliaia di giovani, sfidando la morte, avevano rifiutato il nazifascismo, e dopo, soltanto dopo, avevano scelto la lotta partigiana nei vari gruppi resistenziali.

    Certamente ogni partigiano aveva alienato le proprie aspirazioni e i propri ideali in un’idea di società che, anche se non possedeva contorni ben definiti, doveva corrispondere alle proprie speranze e quindi essere completamente diversa dal ventennio fascista.

    Queste idee, con mille sfumature diverse, convergevano su un dato comune: nella società nascente della ceneri dalla guerra civile i rapporti tra esseri umani dovevano essere diversi. Quindi non più lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non più padroni arroganti e forze dell’ordine onnipotenti; inoltre possibilità  per ognuno di realizzare la propria identità,  possedere diritti e doveri civili uguali per tutti, ecc. ecc..

     

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    Queste poche e non definite idee, presero forma nella nostra Costituzione approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947.

    Come affermò nel 1955 Piero Calamandrei durante un suo discorso, la Costituzione aveva le sue radici nei pensieri dei partigiani : «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.»

    La Costituzione italiana nacque quindi dai pensieri dei resistenti al nazifascismo. Parafrasando Cervantes, i partigiani avevano “sognato un sogno impossibile e avevano vinto contro un nemico invincibile”, e ora rivendicavano la concretizzazione delle idee per le quali avevano sofferto e rischiato la propria vita. Rivendicavano ed evocavano anche una nemesis storica che riequilibrasse la giustizia: i carnefici dovevano pagare per i crimini commessi.

    Non fu così. Tutte quelle speranze e quelle illusioni, tanto vicine da sembrare certezze, si infransero immediatamente contro i muri della geopolitica e della “ragion di stato” che divennero il pretesto per il ritorno al potere di coloro contro cui si erano battuti i partigiani. Alla luce della storia, si potrebbe dire che la “guerra fredda” fu funzionale sia alla Dc che al Pci perché la minaccia di un nemico esterno fornì un alibi ad entrambi gli schieramenti per realizzare il proprio scopo: la conservazione del potere politico tout court.

    Il primo atto, avvertito da tutti i combattenti partigiani come un tradimento, fu il provvedimento di condono per i reati con una pena detentiva non superiore ai cinque anni, emanato il 22 giugno 1946 dal segretario del Pci, Palmiro Togliatti, allora Ministro di Grazia e Giustizia. Il condono di fatto, anche per le opprimenti spinte degli “alleati” americani, presto si trasformò in una amnistia generale per i criminali fascisti. L’intento, secondo quanto affermava Togliatti, era quello realizzare la pacificazione: «Si trattava prima di tutto di staccare il paese e alcune autorità di esso da quell’atmosfera di lotta, anzi di guerra civile (..)» dirà in parlamento il 24 febbraio del ‘49 Togliatti.

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    Forse l’intento fu quello – Togliatti era “un uomo d’onore” direbbe l’Antonio shakesperiano –  ma sta di fatto che nei posti cardine delle istituzioni vennero reinsediati gli stessi uomini che vi sedettero durante il ventennio e durante la guerra civile. Come scrive Daniele Biacchessi nel suo libro Giovanni e Nori, una storia di amore e di resistenza, tra decine di migliaia di impiegati e dirigenti dei ministeri fascisti, solo in 449 furono rimossi dai loro posti di potere: «Su 64 prefetti, 62 sono funzionari degli interni durante la dittatura; 241 prefetti provengono dall’amministrazione dello Stato fascista; 120 su 135 questori giungono dalle vare polizie locali e segrete della Repubblica di Salò(…)» ecc. ecc..

    Ermanno Rea nel suo libro Mistero napoletano, riporta un dialogo tra Mario Palermo, del Comitato di liberazione, e il colonnello americano Richard Simpson, rappresentante della commissione di controllo, che sintetizza bene questa asfissiante situazione politica: Simpson nel 1945 impose un fascista non pentito come commissario di Napoli: «(…) come ha servito il fascismo saprà servire anche noi» disse il colonnello americano a Palermo che gli chiedeva le ragioni di quella nomina assurda.

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     Immersi nel profumo dell’illusione

    «Provoca sempre una forma di spaesamento, quasi d’allarme e di rimpianto, riaffiorare da un luogo chiuso in una luce diversa da quella che si era lasciata al momento “dell’immersione”. La sensazione è quella d’aver perduto irrimediabilmente qualcosa.» Rubo queste parole ad un grande affresco dell’Italia del dopoguerra, Mistero napoletano, in cui l’autore, Ermanno Rea, narra la fine delle speranze di un gruppo di donne e uomini che gravitavano attorno al Pci partenopeo, e del suicidio di due di loro: Renato Caccioppoli e Francesca Spada.

    Gli storici hanno l’abitudine di fermare pavidamente i propri passi sulla soglia che si apre sulle profondità della realtà umana. Al di qua di quella soglia gli esseri umani sono tutti uguali, carne e ossa e istinti animali di sopravvivenza. Esseri di carne e ossa senza pensiero irrazionale, senza sogni, senza esigenze, senza un’identità umana che li distingua gli uni dagli altri. Gli storici, seguendo ognuno le proprie intenzionalità, coscienti e non, narrando della Resistenza tracciano profili di uomini e donne uguali tra loro che si sono ammazzati a vicenda. Uomini e donne, soprattutto uomini, a cui i martirologi e la propaganda, dell’una o dell’altra parte, da un’immagine caricaturale degli eroi senza macchia e senza paura.

    Solo gli artisti e i poeti hanno la possibilità di varcare la soglia che conduce al cuore della verità. Solo loro sanno far luce sul discrimine tra umano e disumano, su “uomini e no”. Fenoglio, Cassola, ma anche a suo modo Bufalino, nei loro “romanzi del ritorno” narrano di questi individui che si sono immersi anima e corpo “nel fitto” della guerra civile e che, al momento della “riemersione”, trovarono un mondo di rapporti umani che non corrispondeva più né alla propria realtà umana che in quegli anni s’era inevitabilmente trasformata, né a ciò che essi avevano immaginato potesse essere.

    Il disagio non era certamente endogeno, il clima che si respirava nel dopoguerra non era per loro facilmente decodificabile. Nessuno dei partiti di sinistra parlava chiaramente di uno stato delle cose reso immodificabile da patti e alleanze, palesi ed occulti, confondendo ancor più le vaghe intuizioni dei resistenti ormai disarmati non solo delle loro armi ma anche dal punto di vista della decifrazione della realtà geopolitica che andava via via cristallizzandosi. La storia del dopoguerra in Italia è la storia di un “tempo sequestrato” , un tempo immobile che fungeva da palcoscenico ad un inganno: la pantomima dei partiti che si contrapponevano come marionette nel teatro dei burattini giocando il gioco delle parti, sperando che il fondale di cartapesta non si strappasse rivelando l’inganno. E lo spettacolo continua. Ma non è di questo che vorrei parlare.

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    Vorrei parlare dello stato d’animo, e capire i sentimenti, degli ex resistenti che dopo il 25 aprile, si trovarono a fare i conti con una realtà opaca perché coperta dalle menzogne di chi si era posto a capo dei partiti, dei movimenti, delle associazioni sindacali; di chi non volle, o non poté, dire la verità fino in fondo.  Se l’avessero detta … ma non la dissero, e la storia non si fa con i “se” e con i “ma”.

    Vorrei parlare di quel sentire caotico degli ex partigiani, causato dalla delusione per il tradimento dei compagni che correvano ad intrupparsi nei ranghi dell’apparato sociale e nelle nomenclature dei partiti, lasciandoli soli con le loro domande. Il tradimento dei compagni con cui avevano condiviso battaglie, deportazioni, agguati, torture, e l’odore della morte … e il profumo dell’illusione. Di questo parlano i “romanzi del ritorno”.

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    oι Nόστοι : i ritorni e le ragazze dei Bube

    «Cuando se miran de frente/los vertiginosos ojos claros de la muerte,/se dicen las verdades; /las bárbaras, terribles, amorosas crueldades (…)»

    Gabriel Celaya

    Come per i mercenari svizzeri è esistito “le mal di pays”, la nostalgia del paese natio, per i partigiani è esistito le mal de vivre del ritorno. Tornati nei luoghi che avevano visto nascere la loro ribellione – tanto certa quanto irrazionale – dopo le feste e la gioia e il vino, un bel mattino dovettero fare i conti con la realtà dello stato delle cose. Una realtà, come ho già detto, indecifrabile e troppo simile a quella contro cui avevano combattuto. Durante la guerra civile tutto era “semplice e chiaro”. Si sapeva chi fossero i nemici e chi gli amici; si sapeva chi era il compagno fidato e chi il delatore;  l’odio non poteva essere confuso con l’amore e ci si fidava del proprio sentire perché per salvarsi la vita era necessario un immediato e sicuro rapporto con la realtà umana circostante.

    Mai come in quei giorni, coloro che si opposero al giogo nazifascista, sfiorarono la verità. Verità che era fusione sincretica e immediata tra pensiero e atto. Come scrive il poeta Celaya, solo se si guardano “i vertiginosi occhi della morte si possono vedere le barbare, le terribili, le amorevolmente crudeli verità”. Il problema semmai è farle divenire pensiero verbale che imprimendosi nella mente possono poi creare movimento corporeo e  prassi politica.

    Al ritorno a casa, ciò che prima aveva un peso, un’immagine certa, un senso, non lo ha più. Tutto è annebbiato, sfumato … fuori tiro. L’estremo che aveva avvampato nella loro realtà umana aveva lasciato una traccia di verità indelebile, ed essi vissero il “male del ritorno”, e il loro “disagio esistenziale” ebbe l’immagine sfocata di una promessa non mantenuta.

    «Avevo intravisto di nuovo quanto è vicina la coscienza all’incoscienza, che curiose vicinanze ci sono al mondo»

    Luigi Meneghello, I piccoli maestri

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    Al ritorno a casa nulla ha più un senso univoco, se non i sentimenti e gli affetti per l’altro da sé che qualcuno di loro ha conservato. Il mondo si è fatto molteplice; il contenuto di quella realtà, di quella “normalità” è tutto da ricostruire e questa volta senza annullamenti che porterebbero a distruggere la memoria interna degli eventi trascorsi. Chi ricominciò a vivere annullando i contenuti che avevano dato vita alla Resistenza, distrusse un’area della sensibilità, quell’area che nutre la vita affettiva e la vita intellettuale.

    Al ritorno a casa pochi riuscirono a fare come Charlotte Dembo, intellettuale e resistente francese arrestata dai nazisti e deportata ad Auschwitz, che, come scrisse nel 1951 in sua lettera indirizzata ad un amico, seppe aspettare. Tornata ad una “normalità” indecifrabile che vanificava il senso del reale, Charlotte seppe attendere che lentamente ma inesorabilmente la realtà acquistasse di nuovo peso attraverso la memoria e gli affetti: «Io, ero risalita alla superficie di me stessa, e tutto ciò che mi circondava non erano che spigoli taglienti e brucianti di oggetti, di colori, di reminiscenze, di associazioni, di evocazioni che testimoniavano che G. aveva vissuto, mi aveva amato, che l’avevo amato e che non ero morta per averlo lasciato il mattino che andava morire».

    Ma prima, prima di quel giorno in cui era riuscita a risalire alla superficie di se stessa accettando la verità fino in fondo  «Tutto era falso, volti e libri, tutto mi mostrava la sua falsità ed io ero disperata di aver perso ogni capacità di illusione e di sogno, ogni permeabilità all’immaginazione, all’avventura».

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    La paga del sabato

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    Carlo Cassola, con La ragazza di Bube, e Beppe Fenoglio con La paga del sabato, affrontano il tema del ritorno a casa e alla “normalità” di due ex partigiani. Lo farà anche Gesualdo Bufalino, con La diceria dell’untore, ma in un modo più simbolico: il protagonista del romanzo, pur essendo un “resistente” alla lebbra comune, non è un ex partigiano.

    Fenoglio descrive magistralmente il malessere della “normalità” vissuto da Ettore, il protagonista de La paga del sabato: alla madre che lo incita a rientrare nei ranghi accettando un lavoro umiliante, Ettore urla rabbiosamente «Ricordatene sempre che io ho fatto la guerra, e la guerra mi ha cambiato, mi ha rotto l’abitudine a questa vita. Io lo capivo fin d’allora che non mi sarei poi ritrovato in questa vita qui (…) Mi facevano portare il calcestruzzo della betoniera a dove ce n’era bisogno, così tutto il giorno, tutto il giorno avanti e indietro col carrello. Io da partigiano comandavo venti uomini, e quello non era un lavoro da me».

    Ettore, di fronte a situazioni di “normalità opprimente”  – come il pranzo domenicale a casa dei futuri suoceri – per interpretare il proprio malessere interno ricorre alla memoria affettiva del suo passato da combattente : «risentiva la stessa disperazione di quella volta in guerra che aveva creduto di essere circondato e poi non era vero».  Per lui il ritorno a quelle condizioni abitudinarie è disperazione che si verbalizza in un pensiero che vorrebbe rendere manifesto alla madre, ma che si ferma sulla soglia del non detto: «Potevi proprio avanzare di mettermi al mondo». Una frase terribile ma quando si ha vent’anni è straziante dover rinunciare alla propria realizzazione umana, ad un pezzo di felicità solo accarezzato : «… e Ettore poteva leggerci il barbaro sentimento che quelli erano stati tempi felici e che il destino sarebbe stato ingiusto se non gliene riservava un altro pezzo prima di morire».

    Il protagonista non riesce a intraprendere la via della “normalizzazione” e percorre la strada laterale del crimine ma, al contrario dei complici, non fine a se stessa, ma come possibilità di riscatto da una situazione senza via uscita: o lacerare per sempre la propria identità – per quella che è, né più né meno – o prendere una scorciatoia e dimostrare a Vanda, la sua donna, di essere “un vero uomo”.

    Ettore, poco più che ventenne, si rende conto che la lotta partigiana lo ha mutato. Anche la separazione da quelle vicende estreme e le nuove esperienze e la storia con Vanda stanno mutando la sua realtà interiore: «Ettore era impressionato per sé e per loro, si domandava come facevano quei due (i due compagni-complici ex partigiani come lui – N.d.A.) a non essere cambiati da allora mentre lui era cambiato tanto da non riconoscersi più, cominciava a dirsi che forse loro non l’avevano fatto bene il partigiano, non ci avevano messo tutto (….)  – ma poi – si disse che era perché loro non avevano avuto, dopo la guerra, la persona o il fatto o il ragionamento che ci mettesse una pietra sopra: Lui aveva avuto Vanda».

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    Dopo l’esperienza partigiana e la guerra civile, con i suoi assolutismi esistenziali, il ritorno all’abitudine, alla coazione a ripetere, alla “normalità”  in cui doveva essere compresa come prima la scissione tra atto e pensiero, fu straziante. Carlo Cassola nel suo romanzo citato racconta bene questo passaggio. La svolta repentina tra lo stato “ferino”  e la “normalità della “civiltà” fu estremamente difficoltosa. Questo perché la brusca mutazione dei rapporti tra essere umani disgregava una raggiunta “certezza identitaria” monolitica assunta durante la guerra civile. “Certezza identitaria” che, nel bene e nel male, non scindeva pensieri dagli affetti e dalla prassi; certezza che diceva che ciò che era giusto era il bene ed era umano e chi lo incarnava doveva vivere,  e chi incarnava ciò che era ingiusto e disumano doveva morire.

    Dopo i giorni della ferocia ritrovare un nuovo equilibrio non fu facile. Ciò che il giorno prima andava rifiutato il giorno dopo doveva essere fatto rientrare nella normalità di una “dialettica civile” che spesso era la maschera di una realtà ingannevole. Ma sangue chiama sangue e c’è chi non si sazia.

    L’impossibilità per alcuni di adattarsi frettolosamente a questo passaggio la racconta bene Bertolt Brecht nel dramma Madre Courage e i suoi figli. Nell’XIII atto Eilif , il figlio di Courage, viene giustiziato per lo stesso atto di violenza per il quale pochi giorni prima era stato premiato: «Non ho fatto nient’altro che quello che ho sempre fatto» esclama Eilif mentre lo portano al patibolo. E il cappellano: «Durante la guerra, quando si comportava così lo festeggiavano, lo facevano sedere alla destra del comandante. Allora erano considerati atti di valore. »

    Anche Bube, il protagonista del romanzo di Carlo Cassola, come Eilif non capisce cosa stia succedendo attorno a lui. La realtà che si dipana ai suoi occhi non si mostra più nuda e vera; le nuove parole d’ordine che si accatastano una sull’altra aggrovigliano ancor più i suoi pensieri: pacificazione, amnistia, insurrezione, vittoria del comunismo. Bube nelle sezioni del partito sente parlare di insurrezione imminente, che è giusto ammazzare i fascisti, giusto vendicare i fratelli di strada assassinati, e lui quando vede cadere il proprio compagno ucciso da un carabiniere lo uccide a sua volta e accecato dal sangue uccide ancora. I compagni del partito di cui aveva portato i colori durante la guerra civile, anziché consigliarlo per il meglio lo nascondono, lo fanno espatriare – come fecero nella realtà con gli assassini della Volante rossa – gli dicono che ha fatto bene a fare ciò che ha fatto. E Bube il partigiano si perde, ed uccide. Solo Mara, la fidanzata, non lo delude e aspetta che torni da lunghi anni di galera.

    Quando Bube uscirà si dovrà accontentare della “paga del sabato” . Anche la stagione che ha visto i resistenti in mezzo ad un guado esistenziale, e li ha visti scegliere tra una, per loro assurda, normalizzazione e la lotta che li avrebbe distrutti, si è conclusa, lasciando dietro di sé molte vittime e macerie d’umanità.  Molti si persero uccidendo a freddo e molti altri si persero accettando le vecchie e ormai umilianti regole del gioco.

    «Tregua o condono che fosse in arrivo, sapevo che avrei durato fatica a rivisitare la vita, e le sue insolenze, il parapiglia preoccupante dei suoi commerci. A somiglianza di un Po, il cui alveo sia stato sconvolto dal malinverno, e che deve cercarsi nuove strade nel limo, io sentivo ogni forza nel sangue, prima protesa verso la foce sognata, svenarsi ora in mille ventricoli, sfrangiature e canali, fragili come intrecci di arteriole di un occhio. Con quali membra, del resto, e disposizioni dell’animo, ne avrei accolto l’assalto, se tutto in me pativa ancora la doppia offesa, così della guerra come del morbo nemico? Dove trovare me stesso ragazzo, come sanarlo di quell’infezione: l’ingresso dell’idea della morte nell’intimità del cuore innocente? Un peculio incalcolabile d’anni , se il medico non mentiva, si sarebbe aggiunto ai magri centesimi che finora stringevo nel pugno. Ma non sapevo come spenderlo, ai nuovi ricchi succede.»

    Al di là dei meri significati letterari, la meravigliosa metafora che Gesualdo Bufalino spende nella Diceria dell’untore, narra di una vita salvata dalla guerra civile, narra di una nuova esistenza da spendere senza sapere come, narra di una forza che pulsa e spinge verso indefiniti obiettivi e che cerca il suo alveo affettivo per andare oltre un passato che non c’è più. Lo scrittore siciliano con le sue parole che evocano una storia che è di tutti, ci parla di un presente carico di promesse ma confuso, e di un futuro indefinito da conquistare senza lacerare il ricordo vivente.

    Bufalino forse ci parla anche di un’infezione affettiva che sta scemando, e di un’intima innocenza perduta da riscattare, e di una ricchezza da spendere … ma il protagonista ha perso la ragazza che gli «aveva annunziato di esistere» e ora non sa come spendere quel «peculio incalcolabile d’anni» che ha avuto in sorte.

    24 aprile 2014

    Pubblicato il 24 aprile 2014 su Altritaliani

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