• Realismo magico… fuga dalla realtà o ricerca di una realtà più reale?

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    Piero della Francesca, Flagellazione, Urbino

    di Gian carlo Zanon

    Summa della relazione tenutasi al Centro culturale Caravaggio di Castiglione delle Stiviere a cura del Gruppo lettori dell’Associazione Frammenti, il 28 Marzo 2023

    Il realismo magico, per quanto riguarda l’arte pittorica, fu un fenomeno di portata transnazionale. Fu il critico d’arte monacense Franz Roh che, in un suo celebre saggio dedicato alla pittura contemporanea tedesca pubblicato nel 1925, coniò la locuzione che appare come un ossimoro, “Magischer Realismus”, ovvero Realismo Magico.

    Le caratteristiche estetiche di questa poetica artistica, scriveva Massimo Bontempelli nel 1928, erano «Precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta…»

    Comincerei però subito dal titolo che abbiamo scelto per questo incontro : “Realismo magico… fuga dalla realtà o ricerca di una realtà più reale? ”

    Ovvero qual è il vero significato di Realismo magico, del Real Maravilloso, del Magical Realism in letteratura?

    Sfatiamo subito la vulgata per la quale il realismo magico sarebbe una reazione al neorealismo, per il semplice fatto che i precursori, furono, in ordine cronologico,  E.A. Poe, Guy de Maupassant e Kafka.

    Ma prima di parlare delle opere di questi autori è meglio individuare le caratteristiche presenti in questa poetica.

    Come scriveva in un suo saggio su Alejo Carpentier, González Echevarría affermava che nel “real maràvilloso”: «(…) la fantasia cessa di essere incongruente rispetto al mondo reale per diventare un mondo chiuso e completo, sferico, senza crepe o scissioni ironiche».

    Il Real Maràvilloso sudamericano ha senza dubbio – tranne che per Cortázar che è vissuto quasi sempre in Europa – tratti particolari e questo per una cultura in cui il magico è la cifra quotidiana in cui spesso si incardinano le narrazioni inter personali.

    I confini che delimitano questa forma letteraria non sono netti:  quindi per semplificare si potrebbe dire che le caratteristiche principali sono essenzialmente due: a) l’irruzione del magico sulla scena, ovvero quando un elemento soprannaturale emerge insospettato nelle pieghe della vita di tutti i giorni divenendo quotidiano; b) l’atmosfera magica che permea i luoghi delle narrazioni. 

    Per letteratura appartenente al Realismo magico si intende quindi una narrazione in cui il fantastico, l’assurdo, l’inconcepibile, il miracoloso, il prodigioso, cessano di essere tali rispetto al mondo reale: ovvero quando elementi di realtà ed elementi di irrealtà coesistono senza che il primo “infastidisca”  il secondo e viceversa. L’elemento magico presente nella narrazione può essere intuito ma non è mai reso didascalico in termini logici né tantomeno razionali.

    Per esempio, nel “Il viaggio al seme” di Alejo Carpentier, precursore assoluto del Real Maravilloso sudamericano, accadimenti irreali come la vita del protagonista vissuta all’incontrario, ovvero dall’agonia al concepimento – semen in spagnolo significa sperma –  reggono in quanto il racconto è composto da attimi di realtà all’interno di un contesto concreto. Attimi di realtà che però scorrono in senso antistorico: nell’attimo cruciale in cui il protagonista sta al confine tra vita e la morte, il suo tempo scorre ritroso.

    «Don Marcial, Marchese di Capellanías, giaceva nel suo letto di morte, scortato da quattro ceri con lunghe barbe di cera  smoccolata. I ceri crebbero lentamente, perdendo sudore. Quando recuperarono la loro misura, li spense la monaca, allontanando una luce. (…)  Quando il medico scosse il capo sconsolato, il malato si sentì meglio. Dormì alcune ore e si svegliò sotto lo sguardo cigliuto di Padre Anastasio. Da sincera, dettagliata, popolata di peccati, la confessione si fece reticente, penosa, piena di nascondigli. E che diritto aveva, in fondo, quel carmelitano, di intromettersi nella sua vita? Don Marcial si ritrovò, all’improvviso, steso in mezzo all’appartamento. Alleggerito da un peso alle tempie si alzò con sorprendente velocità. La donna nuda che si stiracchiava sul broccato del letto cercò sottovesti e corpetti, portandosi via, poco dopo, i suoi rumori fruscianti di seta e il suo profumo. (…) Una notte, dopo aver bevuto molto ed essersi ubriacato con i vapori di tabacco freddo lasciati dai suoi amici, Marcial ebbe la sensazione strana che gli orologi della casa battessero le cinque, poi le quattro e mezza, poi le quattro, poi le tre e mezza… Era come la percezione remota di altre possibilità. Come quando si pensa, nello snervamento dell’insonnia, che si può camminare sul soffitto avendo il pavimento per soffitto, tra mobili fermamente collocati tra le travi del tetto. Fu una sensazione fugace, che non lasciò nessuna impronta nel suo spirito, poco portato, ora, alla meditazione.» poi arriviamo alla fine «Fame, sete, caldo, dolore, freddo. Appena Marcial ridusse la sua percezione a quella di queste realtà essenziali, rinunciò alla luce che ormai gli era accessoria. Ignorava il suo nome. Ritirato dal battesimo, con il suo sale sgradevole, non volle più l’olfatto, né l’udito e nemmeno la vista. Le sue mani sfioravano forme placentarie. Era un essere totalmente sensibile e tattile. L’universo gli entrava da tutti i pori. Allora chiuse gli occhi che riuscivano a vedere soltanto giganti nebulosi e penetrò in un corpo caldo, umido, pieno di tenebre, che moriva. Il corpo, sentendolo nascondersi nella propria sostanza, scivolò verso la vita (…) Ma adesso il tempo corse più in fretta, assottigliando le sue ultime ore. I minuti sembravano un sfarfallio di carte sotto il pollice di un giocatore. Gli uccelli tornarono nell’uovo in un turbine di piume. I pesci riempirono le uova, le palme piegarono le foglie, scomparendo nella terra come ventagli chiusi. I tronchi inghiottivano le loro foglie e la terra attirava a sé tutto ciò che le apparteneva.»

    Questi paragrafi sono colti dalla raccolta narrativa Guerra del Tiempo tres relatos y una novela di Alejo Carpentier il capostipite del real maràvilloso sudamericano. Il testo è del 1958. Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez  è del 1967. Alejo Carpentier è stato così importante per la cultura latino americana che Marquez, dopo aver scritto buona parte della prima stesura del romanzo che gli valse il Nobel per la letteratura, dopo aver letto El siglo de la luces, gettò nell’immondizia il primo manoscritto e ricominciò da capo.

    Come dicevo nel Realismo Magico c’è una sovversione della realtà all’interno di un contesto reale e concreto. Lo strano, il meraviglioso, il magico – in questo caso l’inversione del tempo – si innestano nella realtà quotidiana senza che i personaggi della narrazione ne avvertano coscientemente la presenza, senza che cerchino la ragione di questa incongruenza col reale, senza che avvertano lucidamente lo strappo tra realtà e irrealtà. Oppure, nel “migliore dei casi” la “stranezza” o viene “telefonata” brevemente” come per dare un segnale che solo il lettore più attento coglie – vedi nel Il viaggio al seme quando il protagonista si accorge che gli orologi si muovono in senso antiorario o quando nel William Wilson di Poe la voce narrante dice che nessuno si accorgeva dell’esistenza del sosia buono del protagonista – oppure il perturbante viene ad essere subito integrato di nuovo nella realtà. Vedremo poi questo in Landolfi.

    Nei racconti lo straniamento nei personaggi non c’è o se c’è dura poco: nel romanzo La Metamorfosi di Kafka, la famiglia di Gregor Samsa dopo i primi turbamenti riprende la routine quotidiana… padre, madre e sorella continuano a pranzare e a trattenere ospiti nella stanza da pranzo contigua a quella in cui giace il loro congiunto che si è trasformato in un “enorme insetto immondo”.  A volte, raramente, lo straniamento in un primo momento lo avverte il lettore ma non i personaggi delle narrazioni. Poi anche il lettore, inconsapevolmente, si adegua alla “stranezza” sospendendo l’incredulità. Ovvero si adegua a quella “stranezza”  in cui un enorme insetto si preoccupa per il suo lavoro:

    «Gregor Samsa, destandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato nel suo letto in un enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo scorse il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta del letto, ormai prossima a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà rispetto alla sua normale corporatura, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinnanzi ai suoi occhi. Che cosa mi è capitato? pensò. Non era un sogno. (…) O dio, pensava, che professione faticosa ho scelto! Ogni giorno su e giù in treno. L’affanno per gli affari è molto più intenso che in un vero e proprio ufficio, e v’è per giunta quella piaga del viaggiare, la preoccupazione per le coincidenze dei treni, la nutrizione irregolare e cattiva; le relazioni con gli uomini poi cambiano ad ogni momento, e non possono mai diventare durature né cordiali. Al diavolo ogni cosa!»

    Qui ci dovremmo chiedere : “cosa accade al lettore?” non si rende conto che è irreale pensare che un essere umano che si trasforma in un insetto anziché pensare alla sua assurda metamorfosi pensi invece ai problemi di lavoro? E invece accade che una volta accettato inconsciamente la realtà di questa condizione assurda, il lettore accetti l’assurdo tout court. Il lettore vive ciò che legge come in un sogno. Ovvero il lettore inconsciamente azzera le difese poste a difesa del verosimile e accetta che l’inverosimile diventi quotidiano.  È questa una specie di complicità inconsapevole che si instaura tra autore e lettore. Già ne parlava Platone che, parlando di rappresentazione teatrale, fa dire a Gorgia «Con i suoi miti e le sue passioni la tragedia produce quell’inganno in rapporto al quale chi inganna è più onesto di chi non inganna e chi è ingannato è più saggio di chi non si fa ingannare ». Ovvero c’è un ingannatore e un ingannato ma questo inganno è funzionale alla rappresentazione perché permette di andare al di là dei cinque sensi, al di là della percezione e della ragione permettendo di avvertire i contenuti immateriali della realtà.

    E già qui potremmo tentare di capire cosa emergeva dal sottosuolo della realtà immateriale di Kafka. Qui torniamo alla domanda iniziale: Kafka fuggiva dalla realtà o il suo scrivere era un ricercare una realtà più reale?  George Bataille, nella sua postfazione  alla Lettera al padre, confermerebbe la fuga dalla realtà:

    «In una parola, volle (Kafka) che l’esistenza di un mondo irrazionale, i cui significati non si compongono in un ordine, rimanesse l’esistenza sovrana». E anche «Si comportava (Kafka) semplicemente in modo da rendersi insopportabile all’ambiente dell’attività utilitaria, industriale e commerciale; voleva restare nell’infantilità del sogno».

    Non sono molto d’accordo con questa interpretazione. Nella sua Lettera al padre, che mai spedì, vediamo che il padre di Kafka, cercava in ogni modo di fargli il vuoto intorno denigrando sempre, con ferocia sadica, i suoi affetti più cari:

    «Persone innocenti e ingenue come l’attore l’ebreo Löwy furono vittime di questo tuo atteggiamento. Senza conoscerlo, tu lo paragonasti ad un ‘insetto immondo’, e quante volte, riguardo a persone che mi erano care, citasti automaticamente il proverbio del cane e delle pulci: ‘chi si corica con i cani si sveglia con le pulci’».

    Quindi, più o meno consciamente,  Kafka nel romanzo innesta il proprio vissuto affettivo, il proprio rifiuto verso quel padre opprimente. Ma Kafka salvò la propria fantasia inconscia da questo padre che voleva annientarlo. Kafka scrisse altri racconti che appartengono a questa prima categoria in cui elementi di realtà e di irrealtà convivono senza intralciarsi. Tra questi c’è Una relazione per un’accademia. Quest’opera letteraria, portata sulle scene da grandi attori come Vittorio Gassman, narra le disavventure di uno scimpanzé, Rotpeter (Pietro il Posso), che catturato nelle foreste africane riesce, con un sorprendente quanto improbabile spirito di adattamento, a evolvere verso la specie umana in brevissimo tempo sino a poter tenere una relazione in un’Accademia gremita di illustri cattedratici.  È un dilemma amletico quello di Rotpeter: «Rimanere ostinatamente attaccati alle propria origine? O imitare gli uomini?». Ma in realtà per lo scimpanzé l’unica via d’uscita dalla sua situazione è quella di aderire alla normalità umana. Infatti viste chiuse tutte le vie di fuga egli dice:

    «Io, scimmia libera, mi sottoposi a questo giogo.(…) «Era così facile imitare la gente. A sputare, imparai fin dai primi giorni. Ci sputavamo in faccia a vicenda; l’unica differenza era che dopo io mi leccavo la faccia per pulirla, loro no. (…) La fatica maggiore me la procurò la bottiglia di grappa. L’odore mi ripugnava; mi costrinsi con tutte le forze; ma ci vollero settimane perché riuscissi a vincermi. Queste lotte interiori, sorprendentemente,  furono dall’equipaggio prese sul serio più di ogni altra cosa».

    Poi dopo pochi mesi eccolo lì sul pulpito dell’accademia delle scienze a raccontare della sua prodigiosa evoluzione con una punta polemica ai docenti accademici.

    «Ultimamente, nel lavoro di uno dei diecimila fanfaroni che straparlano di me sui giornali, ho letto che la mia natura di scimmia non sarebbe ancora del tutto soppressa, e lo dimostrerebbe il fatto che provo piacere a togliermi i pantaloni davanti ai visitatori per mostrare il foro d’entrata di quel colpo, cioè la ferita d’ama da fuoco ricevuta durante la cattura. A questo bel tomo bisognerebbe far saltare ogni singolo ditino della mano con cui scrive.»

    Anche La pietra lunare di Tommaso Landolfi appartiene a questo filone letterario: nel romanzo, Giovancarlo, il protagonista, si trova improvvisamente a tu per tu con una bellissima ragazza… con i piedi di capra:

    «Il giovane seguì con viva soddisfazione la linea delle cosce affusolate, cui la stoffa aderiva strettamente, lasciò scivolare lo sguardo sul tornito ginocchio, e s’aspettava ora di scoprire una caviglia esile, un piccolo piede. Invece… Il sangue gli si gelò nelle vene e quasi nel medesimo istante gli rifluì tutto con violenza alla bocca dello stomaco. In luogo della caviglia sottile e del leggiadro piede, dalla gonna si vedevano sbucare due piedi forcuti di capra, di linea elegante, a vero dire, eppure stecchiti e ritirati sotto la seggiola. E il curioso era che queste zampe, a guardarci bene, parevano la logica continuazione di quelle cosce affusolate; né alcuni lunghi ciuffi di né pelame ruvido bastavano a stabilire un’ideale soluzione fra l’agile corpo e le sue mostruose appendici»

    Il giorno Giovancarlo dopo si convince che era stato un sogno o un’allucinazione

    «Così pressa poco pensava Giovancarlo quella mattina, volgendosi disgustato da non so quale finestra. Erano passati ormai parecchi giorni dalla sua bizzarra avventura; dopo molto riflettere e aver escogitate le spiegazioni più inverosimili, aveva finito prima col concludere che era stato vittima di una terribile allucinazione, e poi più semplicemente d’aver sognato. A interrogare qualcuno sulle zampe di capra non ci pensava neppure, si sarebbe coperto di ridicolo;»

    Il tutto confermato poi dal suo incontro con la ragazza che al posto dei piedi di capra aveva invece due caviglie tornite.

    «L’occhio del giovane corse subito alle sue gambe e dové constatare, non senza una punta di delusione, che di sotto la veste lunghetta spuntavano un paio di tornite caviglie, eppoi due scarpette modeste ma lustre.»

    La seconda delle caratteristiche principali del realismo magico sono le atmosfere, “gremite di intenzionalità”, capaci di condizionare fortemente le percezioni dei personaggi e quindi i loro comportamenti. Posso citareLa caduta della Casa degli Usher di E.A. Poe, Horla di Guy de Maupassant, Il processo e Il Castellodi Kafka, Il Deserto dei Tartari di Buzzati, Beloved di Toni Morrison, Omnibus di Cortázar e molti, molti altri. Ma anche film esemplari come Blow-Up, tratto dal racconto Le bave del diavolo di Julio Cortázar, Giulietta degli Spiriti di Fellini, e il recentissimo film Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh.

    Scelgo Julio Cortázar che è un maestro di questo genere: lo scrittore argentino crea un fantastico senza fantasmi in cui la realtà si popola di entità impalpabili, di solito minacciose, di realtà immateriali, senza nome, che creano tensioni insopportabili:  si può dire che “nessuno” scacci i due fratelli dalla Casa occupata; che “nessuno” realmente minacci i due giovani passeggeri dell’Omnibus, eppure i protagonisti fuggono da quei luoghi terrorizzati da una sensazione di oppressione da cui si sentono minacciati. Nei racconti Bestiario e Lettera a una signorina di Parigi, l’elemento magico – la tigre che si aggira per le stanze di casa come se fosse una normalità in Bestiario, e i coniglietti bianchi che il protagonista estrae dalla gola descritti nella lettera – si dispiega all’interno di una quotidianità che viene tanto insistita da diventare essa stessa l’elemento perturbante e non viceversa: la visione non si focalizza più su un perturbante che irrompe, ma è la totale mancanza di un elemento “magico”, avvertito ma non percepito, che genera un’atmosfera minacciosa come accade nella derealizzazione psicotica.

    Nel racconto L’autostrada del sud invece a creare spaesamento è una strana sospensione del tempo. Qui un normale ingorgo crea in una dimensione fantastica: nel tempo fermo, evidenziato solo dalle macchine immobili, accadono vissuti erotici, innamoramenti, rapporti umani bellissimi, poi come d’incanto il tutto si scioglie, le macchine ricominciano a scorrere verso Parigi e tutto ricomincia come se quel periodo temporale non fosse mai esistito… e il lettore rimane attonito con una sensazione di tristezza per un tempo che aveva ripreso il sapore dell’umano, un tempo umanamente irrazionale che sa di aver vissuto e che forse non sarà più vivibile, raggiungibile.

    Anche romanzo Il deserto dei tartari di Buzzati l’atmosfera è alterata dalla sospensione del tempo, che qui assume altre forme che sono quelle dell’abitudine,  «Abitudine era diventato per lui il turno di guardia, che le prime volte pareva insopportabile peso; a poco a poco aveva imparato bene le regole, i modi di dire, le manie dei superiori, la topografia delle ridotte, i posti delle sentinelle, gli angoli dove non tirava vento, il linguaggio delle trombe. Dalla padronanza del servizio ricavava uno speciale piacere, valutando la crescente stima dei soldati e dei sottufficiali»

    Vi è la sensazione, da parte del protagonista, che il tempo sfugga senza che accada nulla di sensazionale, di eroico, egli avverte una «irreparabile fuga del tempo» in cui «gli orologi corrono inutilmente».  Una fuga del tempo che rende vana la sua esistenza. Solo prossimo alla morte:

    «Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente. La strada di Drogo era finita; eccolo ora sulla solitaria riva di un mare grigio e uniforme.»

    Tutto ciò nel romanzo accade per una malia impalpabile che incombe sulla Fortezza Bastiani da cui Giovanni Drogo all’inizio del romanzo si sente immune:

    «Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l’avventura, l’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita. Non si erano adattati alla esistenza comune, alle gioie della solita gente, al medio destino; fianco a fianco vivevano con la uguale speranza, senza mai farne parola, perché non se ne rendevano conto o semplicemente perché erano soldati, col geloso pudore della propria anima. (…) Drogo aveva capito il loro facile segreto e con sollievo pensò di esserne fuori, spettatore incontaminato. Fra quattro mesi, grazie a Dio, egli li avrebbe lasciati per sempre. Gli oscuri fascini della vecchia bicocca si erano ridicolmente dissolti. Così pensava.»

    Ma alla fine da quella malia verrà travolto.

    Oggi ho cercato di indicare quali siano le caratteristiche di questa poetica  artistica, pittorica e letteraria definita con il nome di “Realismo magico”. Questi autori hanno cercato di descrivere fughe dalla realtà oppure hanno indicato una strada per definire una realtà più vera in cui il meraviglioso non è un elemento patologico da folli ma una poetica per mostrare, senza indicarle, le porte d’oro per accedere all’invisibile?

    Molti ritengono i romanzi e i racconti appartenenti a questo filone letterario siano difficili, poco comprensibili, non so se sia vero, so che sono affascinanti, che rimangono nella mente… certamente questi racconti sono come macchine volanti a cui serve una benzina speciale… e questa benzina la deve mettere il lettore… sennò non si parte per nessun viaggio magico…  

    Bibliografia essenziale: Shakespeare: La Tempesta;  Hoffmann Il Mago della sabbia; E.A. Poe William Wilson, Wilson, La caduta della Casa degli Usher, ecc.; Horla di Guy de Maupassant; La Metamorfosi, La Condanna e Il Castello F. Kafka; Donna Flor e i suoi due mariti Jorge Amado; Maestro e margherita Bulgakov; Le bave del diavolo Cortazár; I figli della mezzanotte Salman Rushdie; Il Deserto dei Tartari Buzzati; Beloved Toni Morrison; le raccolte di racconti Bestiario,  Tutti i fuochi il fuoco e altri racconti di Julio Cortázar eccetera.

    Filmografia essenzialissima: Blow-Up di Antonioni tratto dal racconto Le bave del diavolo di Julio Cortázar, A tre passi dal delirio tre episodi tratti dai Racconti del terrore di E.A.Poe, Giulietta degli Spiriti di Fellini la cui filmografia è spesso immersa nel “real maravìlloso”, e il recentissimo film Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh.


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