• Oscar Wilde – Il delitto di Lord Arthur Savile – Racconto

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    Saggio sul dovere

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    I capitolo

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    Lady Windermere dava l’ultimo ricevimento di quaresima e la Bentick House era più affollata del solito. Erano arrivati sei ministri in carica, usciti poco prima da una seduta straordinaria indetta dal rappresentante dei Comuni, con tutti i loro nastri e le decorazioni: le belle della città sfoggiavano sfarzosi abiti da sera, e nell’angolo estremo della pinacoteca era seduta la principessa Sofia di Carlsrühe, una robusta e massiccia dama dall’aspetto tartaro, con due minuscoli occhi neri e meravigliosi smeraldi, la quale parlava a voce altissima in un pessimo francese e rideva smodatamente a ogni frase che le veniva rivolta.

    Era davvero una straordinaria accozzaglia di gente. Splendide nobildonne chiacchieravano affabilmente con violenti radicali, predicatori celebri sfioravano con le loro code di rondine quelle di eminenti filosofi scettici, un vero codazzo di vescovi inseguiva di sala in sala una formosa primadonna, sulle scale erano radunati vari accademici reali travestiti da artisti, e a un certo momento si disse che il salone dei rinfreschi fosse letteralmente zeppo di geni.

     

    Insomma era una delle serate meglio riuscite di lady Windermere, e la principessa vi si trattenne fin quasi alle undici e mezzo.

    Non appena Sua Altezza fu partita, lady Windermere ritornò nella pinacoteca dove un economista famoso stava pomposamente spiegando una propria teoria scientifica sulla musica ad un giovane ungherese che ascoltava con aria sdegnata, e incominciò a discorrere con la duchessa di Paisley. Lady Windermere appariva meravigliosamente bella; la sua gola d’avorio era superba, stupendi erano i suoi occhi, azzurri come miosotis, e le grevi spire dei suoi aurei capelli. Proprio “or pur”, non di quel pallido color paglierino che al giorno d’oggi usurpa il prezioso nome dell’oro, ma di quell’oro di cui sono intessuti i raggi del sole e che si nasconde nell’ambra pregiata: e le incorniciavano il viso rammentando l’aureola di certe sante, senza toglierle per questo il suo fascino di peccatrice. Lady Windermere rappresentava un curioso studio psicologico: ancora molto giovane aveva scoperto l’essenziale verità che nulla assomiglia all’innocenza quanto l’indiscrezione. Dopo una serie di audaci avventure, metà delle quali assolutamente innocue, si era acquistata tutti i privilegi di ciò che si suole chiamare una personalità. Aveva cambiato marito più d’una volta (a dire il vero Debrett le accolla almeno tre matrimoni) ma poiché non aveva mai cambiato amante, il mondo aveva cessato da un pezzo di gridare allo scandalo sul suo conto.

     

    Aveva in quell’epoca quarant’anni, era senza figli, e possedeva quella smodata sete di piacere che costituisce il segreto per rimanere giovani.

    Ad un certo punto volse il capo attorno alla sala con gesto inquieto, e chiese con la sua chiara voce di contralto: “Dove si sarà cacciato il mio chiromante?”.

    “Il tuo che cosa, Gladys?” esclamò la duchessa, sobbalzando suo malgrado.

    “Il mio chiromante, duchessa. Non posso vivere senza di lui, in questo momento”.

    “Oh, Dio mio, Gladys, sei sempre talmente originale” mormorò la duchessa, che non riusciva a ricordare cosa fosse in realtà un chiromante, e augurandosi in cuor suo che non si trattasse in definitiva di un semplice pedicure.

    “Mi viene a leggere la mano regolarmente due volte la settimana” proseguì lady Windermere. “E’ una cosa interessantissima, sa?”.

    “Bontà divina!” pensò la duchessa. “Si tratta proprio di una specie di pedicure, dunque. Che orrore. Speriamo almeno che sia straniero: la cosa sarebbe un po’ meno grave”.

    “Bisogna assolutamente che glielo presenti”.

    “Presentarmelo?” gridò la duchessa: “Non vorrai mica farmi credere che si trovi qui?”. E così dicendo prese a cercare affannosamente il suo piccolo ventaglio di tartaruga e un logoro scialletto di pizzo, onde essere pronta ad andarsene al momento opportuno.

    “Si capisce che è qui. Non mi sognerei nemmeno di dare un ricevimento senza di lui. Dice che ho una mano prettamente psichica, e che se il mio pollice fosse stato solo un tantino più corto sarei diventata una pessimista senza rimedio e mi sarei rinchiusa in convento”.

    “Ah, capisco” esclamò la duchessa alquanto sollevata. “E’ uno che predice la fortuna, non è così?”.

    “E la sfortuna, anche” rispose lady Windermere. “Sfortune di ogni genere. L’anno prossimo, per esempio, io mi troverò in estremo pericolo, sia in terra che in mare, perciò ho deciso di andare ad abitare su un pallone, e mi farò mandar su la cena ogni sera in un cestino. E’ scritto tutto sul mio mignolo, o sul palmo della mano, non ricordo bene”.

    “Ma, cara figliola, questo si chiama tentare la Provvidenza”.

    “Duchessa, stia tranquilla, che la Provvidenza, ormai, è in grado di resistere a qualunque tentazione. Io trovo che tutti dovrebbero farsi leggere la mano almeno una volta al mese, in modo da sapere ciò che non si deve fare. Naturalmente, poi, lo si fa lo stesso, ma è talmente bello essere preavvertiti! Be’, se ora qualcuno non mi va a cercare il signor Podgers dovrò andare io stessa”.

    “Permettete che ci vada io, lady Windermere” disse un bel giovane alto che era rimasto in un angolo ad ascoltare la conversazione con un sorriso divertito.

    “Grazie infinite, lord Arthur, ma temo che lei non saprebbe individuarlo”.

    “Se è così straordinario come lei dice, sono certo che saprò riconoscerlo senza esitare. Mi spieghi press’a poco che aspetto ha e glielo porterò qui seduta stante”.

    “Oh, non ha affatto l’aria di un chiromante: non è né misterioso, né esoterico, né romantico. E’ un ometto grasso con una buffissima testa pelata e porta un paio di grossi occhiali cerchiati d’oro:

    una via di mezzo tra il medico di famiglia e il magistrato di provincia. E’ spiacevole, lo so, ma non è colpa mia: la gente è così sconcertante. Tutti i miei pianisti hanno esattamente l’aria di poeti, mentre tutti i miei poeti assomigliano a pianisti.

     

    Ricordo di avere invitato a pranzo l’anno scorso un terribile cospiratore, un uomo che aveva fatto saltare in aria non so più quante persone, e che indossava giorno e notte un giustacuore d’acciaio e portava costantemente un pugnale sotto il braccio: ebbene, sa che quando me lo vidi comparire davanti avrei giurato che fosse un bravo curato di campagna, e non fece che scherzare e raccontare barzellette tutta la serata? Era molto divertente, certo, ma io ne rimasi terribilmente delusa, e quando gli chiesi del giustacuore d’acciaio si mise a ridere e mi spiegò che era troppo freddo per indossarlo in Inghilterra. Ah, ecco il signor Podgers. Presto, signor Podgers, voglio che legga subito la mano alla duchessa di Paisley. Duchessa, si tolga il guanto, per favore. No, non la mano sinistra, l’altra”.

    “Gladys cara, non credo sia una cosa molto corretta” mormorò la duchessa, sbottonando a malincuore un guanto di capretto alquanto gualcito.

    “E quando mai le cose interessanti sono corrette?” replicò lady Windermere. “Che volete? ‘On a fait le monde ainsi’. Ma permettete che faccia le presentazioni. Duchessa, questo è il signor Podgers, il mio chiromante preferito. E questa, signor Podgers, è la duchessa di Paisley, e se lei le dirà che il suo monte della luna è più sviluppato del mio, non crederò mai più in lei”.

    “Oh, Gladys, non credo che nella mia mano vi sia nulla di simile” osservò seria la duchessa.

    “Vostra Grazia ha perfettamente ragione” disse Podgers fissando la piccola mano grassoccia dalle corte dita quadrate. “Il monte della luna è appena abbozzato. La linea della vita è invece magnifica. Pieghi il polso, per cortesia. Grazie. Tre linee distinte sulla ‘rascette’. Lei vivrà fino a tardissima età, duchessa, e sarà estremamente felice. Ambizione… molto moderata, linea dell’intelletto non eccessiva, linea del cuore…” “Oh, la prego, sia indiscreto, signor Podgers” esclamò lady Windermere.

    “Nulla mi darebbe maggior piacere” rispose Podgers inchinandosi “se Sua Grazia lo fosse mai stata; ma sono dolente di dover dire che io vedo soltanto una grande costanza negli affetti combinata con un alto senso del dovere”.

    “Per favore continui, signor Podgers” disse la duchessa che appariva ora molto soddisfatta.

    “L’economia non è certo la minore tra le virtù che adornano Vostra Grazia” proseguì Podgers, e lady Windermere scoppiò in una risata argentina.

    “L’amore del risparmio è un’ottima qualità” osservò la duchessa con compiacenza. “Quando lo sposai, Paisley possedeva undici castelli, ma non aveva neanche una casa decente in cui abitare”.

    “E adesso ha dodici case ma nemmeno un castello!” rise lady Windermere.

    “Be’, figliola cara,” obiettò la duchessa “a me piacciono…” “Le comodità,” proseguì Podgers” e tutti i ritrovati della tecnica moderna, compresa l’acqua calda corrente in ogni camera. Vostra Grazia ha perfettamente ragione. La sola cosa buona che la nostra civiltà riesca a darci è il COMFORT”.

     

     

     

    “Signor Podgers, ha descritto il carattere della duchessa in modo perfetto, ora però deve leggere la mano anche a lady Flora”. In risposta a un cenno sorridente della padrona di casa, una ragazza alta, dai capelli scozzesi color sabbia e dalle scapole prominenti, avanzò goffamente da dietro la spalliera del divano e stese al chiromante una lunga mano ossuta terminata da dita a spatola.

    “Ah, lei è pianista, è chiaro!” disse Podgers. “Una pianista ottima, direi, ma senza grande talento musicale. Molto riservata e leale, amatissima dagli animali”.

    “Ma è esatto!” esclamò la duchessa volgendosi a lady Windermere.

    “Esattissimo. A Macloskie, Flora ha almeno due dozzine di cani da pastore e sarebbe pronta a trasformare la nostra casa di città in una vera ‘ménagerie’, se suo padre glielo permettesse”.

    “Be’, è quello che faccio io con casa mia ogni giovedì sera!” gridò lady Windermere, e rise.

    “Solo che io, ai cani da pastore, preferisco i leoni da salotto”.

    “Ed è il suo unico torto, lady Windermere” disse Podgers inchinandosi cerimoniosamente.

    “Se una donna non sa rendere affascinanti i propri torti non è che una femmina” fu la risposta. “Ma lei ci deve leggere qualche altra mano, signor Podgers. Andiamo, sir Thomas, gli mostri un po’ la sua”. E si fece innanzi un vecchio gentiluomo dal viso cordiale, in sparato bianco, che tese una mano grossa e ruvida, dal medio innaturalmente lungo.

    “Temperamento avventuroso, quattro lunghi viaggi in passato, un quinto in avvenire. Naufragato tre volte. No, due volte soltanto, ma correrà il pericolo di far naufragio al suo prossimo viaggio.

    Conservatore inveterato, molto preciso, collezionista di curiosità. Lei ha subìto una grave malattia tra i sedici e i diciotto anni. Ha ereditato una grossa fortuna verso i trenta. Nutre un’avversione spiccata per i gatti e i radicali”.

    “Magnifico!” esclamò sir Thomas. “Ora deve leggere anche la mano di mia moglie, per favore!”.

    “Della sua seconda moglie” precisò Podgers senza scomporsi, sempre tenendo la mano di sir Thomas tra le sue. “Sarà un onore per me”.

    Lady Marvel, una creatura dall’aspetto malinconico, bruna di capelli e dalle languide ciglia, si rifiutò nettamente di rendere pubblico il proprio passato e il proprio avvenire, e nessuna preghiera o moìna di lady Windermere valse a indurre l’ambasciatore russo, il signor de Koloff, neppure a togliersi il guanto. In realtà pareva che molti avessero timore di dover affrontare quel buffo omino dal sorriso stereotipato e i suoi occhiali d’oro dietro cui brillavano due pupille minuscole e lucenti come capocchie di spillo: e quando disse alla povera lady Fermor -sfacciatamente, di fronte a tutti -che a lei della musica non importava proprio niente, mentre andava addirittura matta per i musicisti, si ebbe nella sala la netta sensazione che la chiromanzia è una scienza estremamente pericolosa che nessuno dovrebbe incoraggiare, se non in un “tête-à-tête”.

     

    Lord Savile, il quale non sapeva nulla dell’increscioso incidente toccato a lady Fermor, ed era stato ad osservare Podgers con molto interesse, fu preso da una violenta curiosità di farsi leggere a sua volta la mano: tuttavia, poiché provava una certa timidezza a farsi avanti, si diresse verso l’angolo del salone dove lady Windermere teneva circolo e le chiese, arrossendo deliziosamente, se credeva che il signor Podgers si sarebbe seccato.

    “Al contrario. E’ qui per questo” replicò vivacemente lady Windermere. “Tutti i miei ‘lions’ sono bravi come veri leoncini ammaestrati, e pronti a saltare attraverso il cerchio ogni volta che glielo ordino. Ma la devo avvertire in precedenza che poi racconterò tutto a Sybil.

    Verrà domani a colazione da me, poiché dobbiamo discutere di cappellini, e se il signor Podgers scopre che lei ha un brutto carattere, o la tendenza alla gotta, o magari una moglie morganatica che abbia in periferia, stia pur sicuro che glielo spiffererò subito”.

    Lord Savile sorrise e scosse il capo. “Oh, non ho paura” disse.

    “Sybil e io sappiamo ogni cosa l’uno dell’altro”.

    “Oh, mi spiace che lei dica questo. L’elemento basilare di un matrimonio riuscito è l’incomprensione reciproca. No, non sono affatto cinica: ho una certa esperienza, ecco tutto, il che in fondo è la stessa cosa. Signor Podgers, lord Savile muore dalla voglia che lei gli legga la mano. Però non gli dica che è fidanzato con una delle più belle ragazze di Londra, perché questo è già stato stampato sul ‘Morning Post’ un mese fa”.

    “Cara,” gridò la marchesa di Jedburgh “lasciami il signor Podgers ancora per un momento. Mi ha detto proprio ora che dovrei calcare le scene, e la cosa m’interessa enormemente”.

    “Se ti ha detto questo è proprio il caso che te lo porti via immediatamente. Su, venga Podgers, e si spicci a leggere la mano di lord Arthur”.

    “Be'” disse lady Jedburgh alzandosi dal divano con una smorfietta di disappunto “se non mi è concesso di salire sul palcoscenico, mi sarà almeno permesso di far parte del pubblico”.

    “Ma certo: ne faremo parte tutti,” disse lady Windermere “ora la prego, Podgers, ci dica qualcosa di carino. Lord Savile è uno dei miei beniamini”.

    Ma non appena il signor Podgers vide la mano di lord Savile, il volto gli si coprì di uno strano pallore ed egli non disse nulla.

    Il suo corpo fu percorso da un brivido e le folte irsute sopracciglia ebbero un tremito convulso: sempre, le sue sopracciglia tremavano in quella maniera curiosa ed irritante, quando qualcosa lo lasciava perplesso. Improvvisamente, simili a velenosa rugiada, grosse gocce di sudore gli imperlarono la fronte gialliccia e le mani grasse diventarono fredde, vischiose.

    Lord Arthur non poté non avvertire i segni di quella inesplicabile angoscia e, per la prima volta in vita sua, anch’egli ebbe paura. Il suo primo impulso fu di fuggire, ma si controllò. Era meglio conoscere il peggio, di qualunque cosa si trattasse, che essere lasciati in quell’orribile incertezza.

    “Signor Podgers, io aspetto” disse.

    “Tutti aspettiamo” gridò lady Windermere, impulsiva e impaziente come sempre.

    Il chiromante non diede risposta.

    “Ho l’impressione che Arthur finirà sul palcoscenico” osservò lady Jedburgh. “Ma adesso che l’hai sgridato a quel modo il signor Podgers non oserà dirglielo”.

    Bruscamente Podgers lasciò andare la mano destra di lord Arthur e gli afferrò la sinistra, chinandosi tanto per esaminarla, che i cerchi dorati delle sue lenti quasi toccarono la palma del giovane. Per un attimo il suo viso parve tramutarsi in una maschera d’orrore, ma ben presto egli recuperò il suo “sang-froid” e, guardando lady Windermere dritto in faccia, disse con un sorriso forzato: “E’ la mano di un affascinante giovanotto”.

    “Che scoperta” protestò lady Windermere. “Ma sarà anche un marito affascinante? Questo è ciò che mi interessa”.

    “Tutti i giovani brillanti lo sono” osservò Podgers.

    “Secondo me, un marito non dovrebbe mai essere troppo affascinante” disse pensosamente lady Jedburgh. “E’ così pericoloso…”.

    “Oh, cara, invece non lo sono mai abbastanza!” esclamò lady Windermere. “Ma io voglio sapere anche i particolari: essi sono le uniche cose interessanti. Dunque, che succederà a lord Arthur?”.

    “Ecco, tra sei mesi lord Arthur intraprenderà un viaggio…”.

    “Il suo viaggio di nozze, è naturale!”.

    “E perderà un congiunto”.

    “Non sua sorella, spero?” esclamò lady Jedburgh con un tono di voce già di condoglianza.

    “No, sua sorella no di certo” affermò Podgers, facendo con la mano un cenno deprecatorio.

    “Si tratta soltanto di un parente lontano”.

    “Be’, sono veramente delusa” disse lady Windermere. “Domani non potrò raccontare a Sybil proprio un bel nulla. Chi si occupa di parenti lontani, al giorno d’oggi? Sono anni, oramai, che sono andati giù di moda. Comunque, penso sia bene che si faccia fare un vestito nero: caso mai potrà sempre metterselo per andare in chiesa. E ora vi consiglio di andare a cenare. Sono sicura che avranno già spazzato via tutto, però può darsi che un poco di brodo caldo lo troviamo ancora. François fino a qualche tempo addietro mi faceva delle ottime minestre, ma adesso è talmente distratto per via della politica che non si può più contare su di lui. Se almeno il generale Boulanger si decidesse a starsene più tranquillo. Mia cara duchessa, temo che lei sia un po’ stanca”.

    “Affatto, Gladys” replicò la duchessa ancheggiando verso la porta.

    “Mi sono divertita un mondo, e il tuo pedicure, il tuo chiromante, voglio dire, mi ha interessato immensamente. Flora, dove sarà il mio ventaglio di tartaruga? Oh, grazie, sir Thomas, grazie infinite. E il mio scialle di pizzo, Flora? Oh, grazie, sir Thomas, lei è davvero molto gentile”. E la degna creatura riuscì finalmente a scendere le scale senza lasciare cadere la bottiglietta dei sali aromatici più di un paio di volte.

     

     

    Oscar Wilde

     

    Durante tutto questo tempo lord Arthur era rimasto in piedi accanto al camino, con lo stesso senso oppressivo di angoscia e di catastrofe incombente. Sorrise con tristezza a sua sorella che gli passava accanto, al braccio di lord Plymdale, deliziosa in un abito rosa di broccato trapunto di perle, e udì appena lady Windermere che lo invitava a seguirla. Il giovane pensava a Sybil Merton e il solo pensiero che qualcosa potesse frapporsi fra lui e il suo amore gli inumidiva gli occhi di lacrime.

    Se qualcuno lo avesse osservato avrebbe detto che certamente la nemesi doveva aver sottratto lo scudo di Pallade Atena per mostrargli il volto della Gorgona. Pareva tramutato in pietra; il suo viso soffuso di malinconia era come di marmo. Aveva vissuto fino a quel giorno l’esistenza raffinata e dispendiosa di un giovane nobile e ricco, un’esistenza squisita, ricca di fanciullesca spensieratezza, libera dai sordidi inceppi del bisogno: ed ecco che ora, per la prima volta, era consapevole di quel terribile mistero che è il destino, del significato tremendo di ciò che i comuni mortali chiamano la sorte.

     

    Come tutto ciò appariva pazzesco, mostruoso. Era possibile che sulla sua mano, scritto in segni a lui indecifrabili, ma chiarissimi a un altro, fosse impresso il segreto di un orrendo peccato, il marchio sanguigno del delitto? Nessuna via d’uscita era dunque possibile? Non siamo altro che le pedine di un’immensa scacchiera, mosse da un potere invisibile, vasi che l’artigianato foggia a suo piacimento, per la gloria o per l’infamia? La sua ragione si ribellava, e tuttavia egli intuiva che un’ignota tragedia pendeva sul suo capo e che egli era stato improvvisamente chiamato a portare un intollerabile fardello. Come sono fortunati gli attori: possono scegliere come vogliono se rappresentare la tragedia o la farsa, se soffrire o essere felici, se ridere o spargere lacrime.

    Nella vita reale le cose vanno diversamente. La maggioranza degli uomini e delle donne sono costretti a rappresentare parti per le quali non hanno le minime attitudini. I Guildenstern personificano Amleto per noi, e i nostri Amleti devono fare i buffoni come il principe Hal. Il mondo è un palcoscenico, ma le parti sono malamente distribuite.

    Il signor Podgers entrò improvvisamente nella sala. Quando vide lord Arthur trasalì e la sua faccia grassa e volgare si coprì di una specie di pallore gialloverdastro. Gli sguardi dei due uomini si incontrarono, ed entrambi restarono per qualche attimo senza proferire parola.

    “La duchessa ha dimenticato qui un guanto,” disse finalmente Podgers “e mi ha incaricato di venirglielo a cercare. Ah, eccolo lì sul divano. Buona sera”.

    “Signor Podgers, mi vedo costretto ad insistere perché lei dia una risposta soddisfacente a una domanda che sto per rivolgerle”.

    “Un’altra volta, lord Arthur! La duchessa è impaziente. Devo andare”.

    “No, lei non se ne andrà. La duchessa non ha nessuna fretta”.

    “Non bisogna mai far attendere le signore, lord Arthur” disse Podgers con quel suo sorriso sgradevole. “Il bel sesso perde facilmente la pazienza”.

     

    Le labbra finemente cesellate del giovane si incurvarono in una smorfia sdegnosa. Ben poca importanza aveva ai suoi occhi la povera duchessa, in quel momento. Attraversò la sala e si piantò davanti a Podgers tendendogli la mano.

    “Dica quello che ha visto qui” gli ordinò. “Voglio sapere la verità. Devo saperla. Non sono un bambino”.

    Gli occhi di Podgers ammiccarono dietro le lenti cerchiate d’oro, ed egli si dondolò impacciato da un piede all’altro, mentre le sue dita giocherellavano nervosamente con la vistosa catena dell’orologio.

    “Lord Arthur, che cosa le fa ritenere che nella sua mano io abbia letto più di quanto non le ho già detto?”.

    “Ne sono sicuro e insisto perché mi dica la verità. La pagherò: le firmerò un assegno di cento sterline”.

     

     

     

    Gli occhi verdi del chiromante ebbero un guizzo improvviso, ma subito si rifecero opachi. Finalmente Podgers disse con un filo di voce: “Ghinee?”.

    “D’accordo. Gliele farò avere domani. Qual è il suo club?”.

    “Non sono iscritto a nessun club. Voglio dire… non ancora, per il momento. Il mio indirizzo è… ma permetta che le dia il mio biglietto da visita”. Così dicendo Podgers gli porse con un profondo inchino un cartoncino dagli angoli dorati su cui lord Arthur lesse:

     

     

    SEPTIMUS R. PODGERS

    Chiromante autorizzato

    103a West Moon Street

    “Ricevo dalle dieci alle sedici,” proseguì meccanicamente Podgers “e faccio prezzi speciali per famiglie”.

     

    “Faccia presto” gridò lord Arthur, pallidissimo, porgendo la mano. Podgers si guardò attorno inquieto, poi tirò la pesante tenda di velluto che mascherava la porta.

    “Ci vorrà un po’ di tempo, lord Arthur: sarà meglio che si metta a sedere”.

    “Le ho detto di fare presto” ripeté il giovane rabbiosamente, battendo il piede sul pavimento levigato del salone.

    Podgers sorrise e si tolse dal taschino del panciotto una minuscola lente di ingrandimento che pulì accuratamente col fazzoletto.

    “Ecco, sono pronto” disse.

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    II capitolo

     

    Dieci minuti più tardi lord Arthur usciva correndo dalla Bentick House col viso sbiancato dal terrore e lo sguardo angosciato, facendosi largo come un automa tra la calca di valletti impellicciati che si assiepavano sotto un’immensa tenda a strisce: sembrava che non vedesse né udisse nulla. La notte era freddissima, le luci a gas della piazza guizzavano e vacillavano sotto la sferza del vento, ma le mani gli bruciavano di febbre e la sua fronte ardeva. Procedette avanti, sempre avanti, quasi con l’andatura di un ubriaco. Un poliziotto gli lanciò un’occhiata incuriosita, come lo vide passare, e un mendicante, che era sbucato da sotto un arco di porta per chiedergli l’elemosina, si ritrasse sgomento scorgendo una miseria ancora più grande della sua. A un certo momento il giovane si fermò sotto un lampione e si guardò le mani. Gli parve già di notare sopra di esse una macchia di sangue, e un grido soffocato gli sgorgò dalle labbra tremanti.

    Assassinio! Ecco ciò che il chiromante aveva letto nella sua mano.

    Assassinio! Pareva che persino la notte lo sapesse, che persino il vento desolato glielo ululasse nelle orecchie. Gli angoli bui delle vie ne erano pieni: il delitto lo irrideva ghignando dai tetti delle case.

    Giunse dapprima nel parco, il cui cupo paesaggio silvestre parve per un attimo affascinarlo. Si appoggiò stancamente ai cancelli, rinfrescando la fronte contro il metallo umido di pioggia, e ascoltando il tremulo silenzio degli alberi.

    “Assassinio! Assassinio!” mormorava tra sé, come se quella ripetizione ossessiva potesse placare l’orrore della parola. Il suono della sua stessa voce lo fece rabbrividire, e tuttavia egli quasi cercò che Eco lo udisse e risvegliasse dai suoi sogni la città dormiente; improvvisamente fu assalito dal desiderio folle di fermare il primo passante che avesse incontrato e di narrargli ogni cosa.

    Girovagò quindi per la Oxford Street sbucando in angusti, turpi angoli. Due donne dal volto dipinto lanciarono al suo passaggio frizzi volgari. Da un cortile immerso nelle tenebre giunse un rumore di bestemmie e di colpi seguito da grida acute; accucciati su un gradino viscido di umidità scorse i corpi deformi della povertà e della vecchiaia. Una strana pietà s’impadronì di lui. Erano dunque, questi, figli del peccato e della miseria predestinati alla loro sorte, come egli lo era alla sua? Erano dunque anche loro, al pari di lui, semplici marionette di un mostruoso spettacolo?

    Tuttavia non era tanto il mistero, quanto la commedia del dolore che lo colpiva; la sua totale inutilità, la sua grottesca mancanza di un significato. Come ogni cosa gli appariva incoerente, priva di armonia. Lo meravigliava la discordia tra il fatuo ottimismo dei suoi contemporanei e i fatti dell’esistenza reale. Egli era ancora molto giovane.

     

    Dopo qualche tempo si trovò davanti alla chiesa di Marylebone. La strada silenziosa era simile ad un lungo nastro di lucido argento, picchiettato qui e là dai cupi arabeschi delle ombre ondeggianti.

    In lontananza s’incurvava la fila scintillante delle lampade a gas, dinanzi all’ingresso di una piccola casa cintata sostava un calesse solitario, col fiaccheraio addormentato. Si diresse frettolosamente in direzione di Portland Place, guardandosi attorno di quando in quando, quasi temesse di essere inseguito.

    All’angolo di Rich Street vide due uomini fermi, intenti a leggere un piccolo avviso appiccicato su un cartello stradale. Una bizzarra curiosità s’impossessò di lui, ed egli attraversò la strada. Ma, come fu vicino, la parola OMICIDIO stampata in grassetto gli colpì lo sguardo. Sobbalzò, e le sue guance s’imporporarono violentemente. Si trattava di un manifesto in cui veniva offerta una ricompensa a chiunque riuscisse a fornire

    informazioni atte a far arrestare un uomo di statura media, di età fra i trenta e i quaranta, portante un cappello a bombetta, una giacca nera, pantaloni a scacchi, e con una cicatrice sulla guancia destra.

    Rilesse l’avviso più volte e si chiese se il disgraziato sarebbe stato preso, e quale fosse stata la causa della sua cicatrice.

     

    Forse un giorno anche il suo nome sarebbe stato affisso su tutti i muri di Londra; forse un giorno anche sulla sua testa sarebbe stata posta una taglia. Questo pensiero lo fece quasi svenire di terrore. Girò sui tacchi e si rituffò nella notte.

    Non aveva la più pallida idea di dove andasse. In seguito gli restò il ricordo di un girovagare fra un labirinto di case sordide, e l’alba già splendeva quando finalmente si ritrovò in Piccadilly Circus. Mentre si dirigeva verso casa sua in Belgrave Square, incrociò i grossi carri che andavano al mercato di Covent Garden. I carrettieri nei loro camiciotti bianchi, dalle simpatiche facce bruciate dal sole e i ruvidi capelli ricciuti, venivano innanzi goffamente, a lunghi passi, facendo schioccare le fruste e chiamandosi tra loro di quando in quando: sul dorso di un enorme cavallo grigio che capeggiava un tiro tintinnante di sonagli, caracollava un ragazzetto paffuto: aveva appuntato sul cappelluccio a cencio un mazzolino di primule e si teneva aggrappato con le piccole mani alla criniera della bestia e rideva: e le grosse pile di ortaggi sembravano altrettante masse di giada contro il cielo mattutino, masse di verde giada stagliate sui rosei petali di un fiore meraviglioso. Lord

     

    Arthur si sentì inesplicabilmente commosso, non avrebbe saputo dire il perché. Vi era qualcosa nella bellezza delicata dell’aurora che gli appariva di un’inesprimibile dolcezza, e rifletté a tutti i giorni che iniziano radiosi e si concludono in tempesta. E quei villici, con quelle loro voci rozze e bonarie, con quella loro aria indolente, che strana Londra vedevano! Una Londra redenta dai peccati della notte e dal fumo del giorno, una città pallida, spettrale, una desolata città di tombe. Si chiese che cosa ne pensassero quei contadini, e se sapessero nulla dei suoi splendori e delle sue infamie, delle sue gioie frenetiche, colorate di fiamma, e della sua fame insaziabile, di tutto ciò che vi si crea e vi si distrugge nello spazio di una giornata. Per loro probabilmente essa era soltanto un mercato dove portavano la loro frutta da vendere e dove indugiavano al massimo per poche ore, lasciando le strade ancora silenziose, le case ancora addormentate. Gli diede piacere osservarli mentre passavano. Nonostante la loro rudezza e il passo goffo e pesante delle loro scarpe chiodate, essi recavano con sé un ricordo di Arcadia. Sentì che vivevano a contatto diretto della natura e che questa gli aveva insegnato la pace. E li invidiò per tutto quello che ignoravano.

    Quando fu in Belgrave Square, il cielo si era trascolorato in un azzurro pallido e gli uccelli incominciavano a cinguettare nei giardini.

     

     

    III capitolo

     

    Lord Arthur si svegliò alle dodici, quando il sole meridiano già inondava la stanza attraverso i cortinaggi di seta color avorio.

    Il giovane si alzò e guardò fuori dalla finestra. Un indistinto alone di afa pendeva sopra l’immensa città, e i tetti delle case parevano di argento opaco. Tra il verde punteggiato di luce della piazza sottostante, alcuni bambini volteggiavano simili a bianche farfalle e il marciapiede era affollato di gente diretta al Parco.

     

    Mai la vita gli era apparsa più bella, mai le cose del male gli erano sembrate più remote.

    Il maggiordomo gli portò una tazza di cioccolata su un vassoio.

    Bevutala, tirò da un lato una pesante “portière” di felpa color pesca ed entrò nella stanza da bagno. La luce vi scendeva morbida dall’alto, attraverso lastre sottili d’onice trasparente, e l’acqua nella vasca di marmo scintillava come diamante. Vi si immerse rapidamente finché le fresche increspature gli raggiunsero il collo e la schiena, quindi si tuffò con tutta la testa come se volesse cancellare le tracce di un qualche ricordo vergognoso.

     

    Uscendo dal bagno si sentì in pace. Le condizioni fisiche del momento, squisitamente perfette avevano avuto il sopravvento sopra di lui, come spesso accade nelle nature finemente cesellate, giacché i sensi, al pari del fuoco, possono tanto purificare quanto distruggere.

     

    Dopo aver consumato la prima colazione si buttò su un divano e accese una sigaretta. Sul riquadro del caminetto, in una elegante cornice di broccato antico, stava un grande ritratto di Sybil Merton, così come lui l’aveva vista la prima volta al ballo di lady Noel. La testa piccola, meravigliosamente modellata, era dolcemente inclinata da un lato, quasi che il collo sottile come un ligustro stentasse a reggere il peso di tanta bellezza: le labbra semiaperte sembravano fatte per cantare una musica celeste, e gli occhi sognanti rivelavano tutta la tenera purezza di una femminilità virginea. Nella morbida aderente veste di “crêpe-de-chine”, un grande ventaglio a forma di foglia in una mano, sembrava una di quelle fragili statuette che gli archeologi trovano negli oliveti presso Tanagra, e vi era un che di greco nella grazia della sua posa e del suo atteggiamento.

     

    Ciononostante, non era “petite”. Era perfettamente proporzionata, ecco tutto: cosa rara in un’età nella quale troppe donne sono eccessivamente alte, oppure sono insignificanti.

     

    Ora, lord Arthur, mentre ne contemplava l’immagine, si sentiva invadere dalla terribile pietà che nasce dall’amore. Sentiva che se avesse sposato quella fanciulla, con la predestinazione dell’omicidio pendente sul suo capo, avrebbe commesso un tradimento simile a quello di Giuda, un peccato più orrendo di tutti quelli che i Borgia si fossero mai sognati di fare. Quale felicità avrebbero mai gustata insieme, quando egli poteva essere chiamato in ogni istante a compiere la profezia tremenda impressa sulla sua mano? Che vita sarebbe mai stata la loro, mentre il fato teneva in bilico sui piatti della sua bilancia un così pauroso imperativo?

    Doveva rimandare il matrimonio, a qualsiasi costo. Su questo punto era decisissimo. Per quanto amasse ardentemente Sybil e il solo tocco delle sue dita, quando essi sedevano vicini l’uno all’altro, facesse vibrare ogni nervo del suo corpo di un’emozione squisita, il giovane si rendeva perfettamente conto di quale fosse il suo preciso dovere ed era pienamente conscio di non avere alcun diritto di sposarla finché l’assassinio non fosse stato consumato.

    Una volta che avesse ucciso avrebbe potuto stringerla tra le sue braccia, ben sapendo che mai ella avrebbe avuto da arrossire per causa sua, mai avrebbe dovuto nascondersi il volto per vergogna di lui. Ma prima di ogni altra cosa doveva uccidere; e più presto era, tanto meglio per tutti e due.

     

    Nella sua condizione molti uomini avrebbero preferito il roseo fiorito sentiero dell’indugio ai rapidi scalini del dovere; ma lord Arthur era troppo coscienzioso per porre il piacere al di sopra dei princìpi. Il suo amore era più di una semplice passione, e per lui Sybil era il simbolo di tutto ciò che vi sia di puro e di nobile. Per qualche tempo sentì una ripugnanza naturale per ciò che gli era stato prescritto di compiere, ma questa scomparve ben presto. Il cuore gli disse che non si trattava di un crimine, ma di un sacrificio, e la ragione gli rammentò che non aveva altra via di uscita. Era costretto a scegliere tra il vivere per sé e il vivere per gli altri, e per quanto tremendo fosse il compito che gli veniva imposto, capiva non di meno che non doveva permettere all’egoismo di trionfare dell’amore. Presto o tardi, tutti quanti siamo chiamati a decidere intorno alla medesima alternativa; presto o tardi a tutti noi viene rivolta la stessa domanda. A lord Arthur fu posta nel fiore della giovinezza, prima che il suo carattere fosse stato guastato dal cinismo calcolatore dell’età matura, prima che il suo cuore si corrompesse con il superficiale lezioso egocentrismo dei nostri giorni, ed egli non sentiva alcuna esitazione nel compiere il proprio dovere. Inoltre, per fortuna sua, non era né un sognatore né un dilettante ozioso. Se così fosse stato, si sarebbe smarrito nell’incertezza, come Amleto, e avrebbe permesso all’irresoluzione di distruggere i suoi propositi. Lord Arthur era invece fondamentalmente pratico. La vita, per lui, più che pensiero significava azione. E possedeva una dote rarissima sopra tutte le altre: il buon senso.

    In questo frattempo le sensazioni torbide e confuse della notte precedente si erano completamente dileguate, e fu quasi con un senso di vergogna che riandò con la mente al suo folle errare di strada in strada, ai suoi disordinati vaneggiamenti emotivi. La sincerità stessa delle sue sofferenze gliele rendeva ora irreali.

     

    Si chiese con meraviglia come mai aveva potuto essere tanto sciocco da disperarsi e smaniare sull’inevitabile. Il problema che doveva preoccuparlo era uno solo: chi avrebbe tolto di mezzo, perché non era cieco di fronte alla realtà che il delitto, al pari delle religioni del mondo pagano, oltre che un sacerdote richiede una vittima. Dato che non era un genio, non aveva nemici, e d’altronde capiva perfettamente che non era quello il momento d’indulgere a ripicchi e antipatie personali, poiché la missione per la quale si era impegnato era di gran lunga troppo grave e solenne. Compilò dunque su un foglietto di carta una lista di tutti i suoi amici e parenti, e dopo molto riflettere la sua scelta cadde a favore di lady Clementina Beauchamp, una brava vecchia signora che abitava in Curzon Street e che era sua seconda cugina per parte di madre. Aveva sempre voluto bene a lady Clem, come tutti la chiamavano, ed essendo egli stesso ricchissimo per avere ereditato non appena giunto alla maggiore età tutti i beni di lord Rugby, non vi era eventualità alcuna che dalla sua morte gli derivassero volgari vantaggi pecuniari.

    In realtà, più rifletteva alla cosa, e più lady Clem gli sembrava proprio la persona adatta; e poiché comprendeva che ogni ulteriore indugio era un atto di slealtà verso Sybil, decise di agire subito.

    Naturalmente, bisognava innanzitutto sistemare il chiromante: perciò sedette a una graziosa scrivania di stile Sheraton posta accanto alla finestra, e riempì un assegno di centocinque sterline pagabili all’ordine del signor Septimus Podgers: lo chiuse in una busta che consegnò al suo maggiordomo con l’incarico di recapitarla immediatamente in West Moon Street. Telefonò poi in scuderia ordinando il proprio calesse, e si vestì per uscire.

     

     

     

    Mentre stava per lasciare la stanza lanciò un’ultima occhiata al ritratto di Sybil Merton e giurò a se stesso che qualunque cosa fosse accaduta egli non le avrebbe mai detto quello che era ora sul punto di fare per amor suo, ma avrebbe sempre tenuto chiuso nel cuore il segreto del suo grande sacrificio.

    Mentre era diretto al “Buckingam” si fermò da un fiorista e mandò a Sybil un delizioso cesto di narcisi dai delicati candidi petali e dai calici simili a meravigliati occhi di fagiano. Non appena giunto al club entrò difilato in biblioteca, suonò il campanello e ordinò al cameriere di portargli un taglio di limone al seltz e un libro di tossicologia. Aveva deciso che per quella complicata e noiosa impresa il mezzo migliore era il veleno. Tutto ciò che gli rammentava la violenza fisica gli era estremamente disgustoso, e d’altro canto non voleva assolutamente assassinare lady Clem in un modo che potesse attrarre l’attenzione pubblica: inorridiva al solo pensiero di essere “lioneggiato” da lady Windermere in proposito, o di vedere il proprio nome pubblicato nei titoli delle volgari riviste mondane.

    Inoltre doveva pure preoccuparsi dei genitori di Sybil, che erano gente alquanto all’antica, e che probabilmente si sarebbero opposti alle nozze se ci fosse stato uno scandalo; per la verità essi sarebbero stati i primi a comprendere i motivi che lo avevano spinto ad agire in quel senso.

    Aveva dunque tutte le ragioni di propendere per l’impiego del veleno. Era un mezzo sicuro, tranquillo, discreto, ed eliminava la necessità di scene penose per le quali, come ogni buon inglese, lord Arthur nutriva un’innata antipatia.

     

    Sulla scienza dei veleni, tuttavia, non conosceva assolutamente nulla, e poiché il cameriere era stato capace di portargli soltanto la “Ruff’s Guide” e il “Bailey’s Magazine”, decise di consultare direttamente gli scaffali della biblioteca, dove si imbatté infine in un’edizione elegantemente rilegata della FARMACOPEA e in una copia della TOSSICOLOGIA di Erskine, edita da sir Matthew Reid, presidente del Collegio Reale dei Medici e uno tra i soci più anziani del “Buckingam”, dove era stato eletto per errore al posto di un altro: un “contretemps” che aveva reso talmente furibondi quelli della commissione di nomina, che quando si era poi presentato il candidato giusto, lo avevano bocciato all’unanimità. I termini tecnici che andava incontrando in entrambi i volumi lo lasciavano non poco perplesso e già incominciava a pentirsi di non aver prestato una maggiore attenzione alle lezioni che gli erano state impartite a Oxford, quando nel secondo tomo di Erskine trovò una descrizione interessantissima e completa delle proprietà dell’aconitina, redatta in un inglese sufficientemente chiaro. Gli parve che quello dovesse essere giusto il veleno che cercava: era di effetto rapido, anzi quasi immediato, assolutamente indolore, e se somministrato entro una capsula di gelatina, che era il modo specialmente raccomandato da sir Matthew, di gusto tutt’altro che sgradevole. Lord Arthur fece dunque un appunto, sul polsino della camicia, del quantitativo necessario per una dose letale, rimise i libri a posto e si avviò a piedi lungo la Saint James’s Street verso il negozio dei celebri farmacisti Pestle e Humbley. Il signor Pestle, che si occupava personalmente della clientela aristocratica, rimase alquanto sorpreso dell’ordinazione di lord Arthur, e in tono molto deferente mormorò qualcosa circa la necessità di una ricetta medica. Ma non appena lord Arthur gli ebbe spiegato che doveva servire per un grosso mastino norvegese di cui era costretto a sbarazzarsi perché aveva dato segni di idrofobia incipiente, avendo già morsicato per ben due volte il cocchiere ad un polpaccio, il farmacista si mostrò completamente soddisfatto, si complimentò col giovane lord per la sua magnifica competenza in fatto di tossicologia e preparò subito la prescrizione.

    Lord Arthur ripose la capsula in una graziosa “bonbonnière” d’argento che vide in una vetrina di Bond Street, buttò via la brutta scatola di Pestle e Humbley e si fece condurre senza indugio da lady Clementina.

     

    “Dunque, ‘monsieur le mauvais sujet'” gridò la vecchia dama, come lo vide entrare in salotto “si può sapere perché mi ha trascurata durante tutto questo tempo?”.

    “Voglia scusarmi, mia cara lady Clem,” rispose sorridendo il giovane “ma non ho mai un minuto a mia disposizione!” “Immagino che andrai in giro tutto il giorno con Sybil Merton a comprare ‘chiffons’ e a discorrere di sciocchezze. Io non capisco perché la gente fa tante storie quando sta per sposarsi. Ai miei tempi non ci si sognava neppure lontanamente di tubare e sdilinquirsi in pubblico; e neanche in privato, quanto a questo”.

    “Le garantisco, lady Clem, che non vedo Sybil da ventiquattro ore. Per quello che mi è dato di sapere, essa appartiene interamente alle sue modiste”. “Si capisce: ecco l’unica ragione per la quale ti sei deciso a venire a trovare una vecchia bacucca come me. Mi domando perché voi uomini non vi rendiate conto di questo. ‘On a fait des folies pour moi’, e ora eccomi qua, vecchia e artritica, con la parrucca e sempre di cattivo umore. Guai se non ci fosse la cara lady Jansen che mi manda regolarmente tutti i peggiori romanzi francesi che le riesce di trovare: non saprei come arrivare alla fine della giornata. I dottori non servono a niente, se non a riscuotere l’onorario. Non sono neppure capaci di curarmi il mal di cuore”.

    “Le ho poi portato un ottimo rimedio contro questo disturbo, lady Clem” disse gravemente lord Arthur. “Si tratta di un rimedio miracoloso scoperto dagli americani”

    “Non mi piacciono le invenzioni americane, Arthur. Ho letto recentemente alcuni romanzi americani e li ho trovati semplicemente idioti”

    “Ma qui non c’è nessuna idiozia, lady Clem. Le assicuro che si tratta di un rimedio perfetto. Mi deve promettere di provarlo”. E lord Arthur trasse di tasca la minuscola bomboniera e la porse alla vecchia signora.

    “In ogni modo la scatola è deliziosa, Arthur. E’ proprio un regalo? Molto carino da parte tua. E questa sarebbe la medicina meravigliosa? Be’, ha proprio l’aria di un bonbon. Voglio mangiarlo subito”.

    “No, lady Clem” esclamò lord Arthur fermandole la mano. “Non faccia una cosa simile. Si tratta di una cura omeopatica, e se lei la prende mentre non soffre di mal di cuore, potrebbe farle molto male. Aspetti quando avrà un attacco: sarà stupefatta del risultato”.

    “Eppure mi piacerebbe mangiarla adesso” insistette lady Clem, tenendo sollevata verso la luce la minuscola capsula trasparente in cui fluttuava, liquida bubbola, la mortale anicotina. “Sono sicura che deve essere squisita. In realtà, detesto i medici ma adoro le medicine. Comunque, la terrò da conto per il prossimo attacco”.

    “Quando crede che sarà?” chiese ansiosamente lord Arthur.

    “Presto?”.

    “Spero non prima di una settimana. Ne ho avuto uno proprio fortissimo non più tardi di ieri mattina. Ma non si sa mai”.

    “Crede davvero di averne un altro prima della fine del mese, lady Clem?”.

    “Ho paura di sì. Ma come sei premuroso quest’oggi, Arthur. Si vede proprio che Sybil ti ha fatto un gran bene. Adesso ti consiglio di scappare: devo pranzare con gente molto noiosa e che non parla mai di pettegolezzi, e se non mi riposo un po’ adesso, non sarò in grado di rimanere sveglia a tavola. Arrivederci, Arthur, salutami tanto Sybil e grazie infinite per la medicina americana”.

    “Non si scorderà di prenderla vero, lady Clem?” chiese lord Arthur levandosi in piedi.

    “Ma sicuro che non me ne scorderò, scioccone. Trovo che è stato infinitamente gentile da parte tua di aver pensato a me, e ti scriverò nel caso me ne serva dell’altra”.

    Lord Arthur uscì di ottimo umore e con una sensazione di immenso sollievo.

     

    Quella stessa sera ebbe un colloquio con Sybil Merton in cui le spiegò di essersi venuto a trovare in una situazione estremamente difficile dalla quale né il dovere né l’onore gli permettevano di ritirarsi. Perciò il loro matrimonio doveva essere rimandato, dato che finché non avesse spezzato i legami che lo tenevano prigioniero egli non poteva considerarsi un uomo libero. La supplicò di avere fiducia in lui e di non nutrire alcun dubbio per l’avvenire. Tutto si sarebbe aggiustato, ma era necessaria un po’ di pazienza.

    Questa scena accadeva nella serra di casa Merton, in Park Lane, dove lord Arthur aveva pranzato come il solito. Mai Sybil era sembrata più felice e per un attimo lord Arthur fu tentato di agire da codardo, scrivendo cioè a lady Clementina e spiegandole la faccenda delle pillola, lasciando che il matrimonio si celebrasse come se il signor Podgers non fosse mai neppure esistito. Ma il meglio della sua natura ebbe ben presto il sopravvento, e anche quando Sybil gli si gettò piangendo tra le braccia, egli non vacillò. La bellezza che sconvolgeva i sensi aveva toccato anche la sua coscienza, e sentiva che sarebbe stato un errore rovinare una vita così preziosa per il piacere di pochi mesi.

     

    Si intrattenne con Sybil fin quasi alla mezzanotte, consolandola e facendosi consolare a sua volta; quindi, il mattino successivo, partì per tempo alla volta di Venezia dopo avere scritto al padre di Sybil una lettera ferma e virile sulla necessità di differire le nozze.

     

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