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di Gian Carlo Zanon
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«Ho sognato che sul mio volto scendevano lacrime che diventavano perle»
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Questo è il sogno, sintomo di una guarigione di Maia una paziente in cura psicoterapeuta, incastonato come un prezioso diamante nel libro Depressione, quando non è solo tristezza redatto a tre mani dalle psicoterapeute Cecilia Di Agostino, Marzia Fabi, Maria Sneider.
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Devo confessare che il racconto di questo sogno tocca corde profonde della mia realtà interiore. Ogni volta che leggo queste parole, umori fisici scorrono nel mio corpo dal cuore agli occhi passando sotto la pelle delle braccia e raccogliendosi in forma liquida e salata tra le pupille e le palpebre… e a volta gli umori traboccano.
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Ma non è dei miei “femminei” umori che voglio parlare ma di un’amica, che spero leggerà quanto scrivo, e del suo persecutore.
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«…veniva come fanno tutti e così via. Poi invece cominciai a distinguerla. Era così mingherlina, bionda, di statura un po’ superiore alla media; con me era sempre un po’ goffa, come se si confondesse (credo che con tutti gli estranei si comportasse così e io, si capisce, per lei ero una persona come tutte le altre, ossia se mi si considera come una persona, e non come un usuraio). Non appena aveva ricevuto il denaro si voltava e se ne andava. E senza dire una parola. Gli altri discutono, pregano, mercanteggiano per farsi dare di più; quella no, quel che le si dava prendeva…»
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In questo paragrafo Fëdor Dostoevskij narra – per bocca dell’usuraio protagonista del racconto La mite (leggi qui) – l’incontro tra il persecutore psicotico e la ragazza che per le sue caratteristiche caratteriali è una preda perfetta per un ragno schifoso che già inizia a tessere la sua telaraña.
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La tipologia psichiatrica, l’identità umana compromessa dell’usuraio e la dinamica che si instaura tra schizoide/depressa, viene ben descritta nel libro citato “La depressione”: «.(…) vi sono persone che avendo perso completamente gli affetti, (…) per evitare di essere coinvolti nei rapporti interumani, cercano sempre di mantenere una distanza emotiva dagli altri. Hanno un comportamento ineccepibile, sono anche brillanti, rispettano sempre gli orari, non commettono irregolarità di sorta. Sembrano avere un sano rapporto con la realtà che li circonda, basato però sul calcolo e sulla convenienza che possono ricavare dalla relazione con gli altri. Sono individui che difficilmente vanno in psicoterapia dato che si sentono ‘perfetti’ e spesso sono considerati sani da parenti ed amici. A volte sono riconoscibili per i malesseri apparentemente inspiegabili che riescono a provocare negli altri, per cui a volte accade che sono questi ultimi, partner o parenti, a rivolgersi allo psicoterapeuta per chiedere una cura a causa dei sintomi psichici o fisici di cui non sanno dare una spiegazione.(…) queste persone fondamentalmente anaffettive riescono a spacciarsi per sane nel momento in cui arrivano a determinare uno stato di malessere in chi è accanto a loro. Così facendo, trovano il modo di sostenere che il malato è sempre l’altro».
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Questi persecutori sono dei parassiti che vivono, senza evidenti squilibri psichici, solo se possono alienare la propria malattia mentale nell’altro da sé. Nel momento in cui l’altro prova a staccare la spina da questa tipologia di rapporto simbiotico e psicotico, il persecutore, per non impazzire cerca nuove strategie. La vittima deve essere tenuta sotto stretto controllo e per farlo devono distruggere pezzo per pezzo la sua identità umana, minando giorno per giorno ogni certezza identitaria della “Mite” di turno.
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Lo schizoide del racconto dostoevskijano inizia con le sue trappole inducendo nella Mite anche il sentimento di inferiorità intellettuale. «“Vedete», replicai subito con un tono a metà tra il faceto e il misterioso.“Io sono una parte di quella parte del tutto che vuole fare il male e compie il bene…” Ella mi guardò rapidamente e con una grande curiosità, nella quale, d’altronde, c’era molto di infantile. “Aspettate… Che pensiero è questo? Da dove è tratto? L’ho già letto da qualche parte…”. “Non state a rompervi il capo, è Mefistofele che si presenta in questi termini a Faust. L’avete letto il Faust?”. “Non… non attentamente».
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Leggendo accuratamente il racconto di Dostoevskij, narrato in prima persona, si può avvertire l’intenzionalità del parassita che, come fanno le formiche con le pulci delle piante, addomestica la sua vittima alla quale succhia giorno per giorno tutta l’energia vitale: «(…) perché lei stessa era tutto per me, tutta la speranza di un futuro per me nei miei sogni! Lei era l’unico essere umano che io stavo preparando per me, né me ne occorreva nessun altro, ed ecco che lei l’aveva saputo. (…) Mi alzai dal letto: avevo vinto e lei era stata sconfitta in eterno!» .
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Ma a volte anche le miti riescono a mantenere in sé, nascondendolo, quel briciolo di bellezza interiore tenuto nel profondo di se stesse… ma guai se lo psicotico si accorge che la tela di ragno con cui aveva avvolto la Mite non è abbastanza solida e se la vittima conserva ancora un po’ di vitalità: «Ed ecco, un mese dopo, verso le cinque del pomeriggio, in aprile, in una giornata chiara e soleggiata, ero seduto al banco e stavo facendo i conti, quando, a un tratto, sentii che lei, nella nostra stanza, seduta al suo tavolo, intenta al lavoro, si era messa piano-piano a cantare… Questa novità produsse su di me un effetto sconvolgente che ancora adesso non riesco a comprendere. Fino ad allora non l’avevo sentita quasi mai cantare, se non nei primi giorni, fui invaso all’improvviso dallo stupore e da un terribile imbarazzo: un imbarazzo terribile e strano, morboso e quasi vendicativo: “Ma come, canta, e in mia presenza! Si è forse dimenticata di me?”. Completamente sconvolto rimanevo lì immobile, poi a un tratto mi alzai, presi il cappello e mi accinsi a uscire quasi senza rendermi conto di quel che facevo. Per lo meno non so perché e dove andassi. Luker’ja mi porse il cappotto.
“Canta?”, le chiesi involontariamente. Luker’ja non mi capiva e mi guardava continuando a non capire; d’altronde ero davvero incomprensibile.
“È la prima volta che canta?”.
“No; qualche volta canta quando voi non ci siete”, rispose Luker’ja.»
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Non vi dico nulla sulla fine di questo romanzo ottocentesco… ma ora siamo nel 2018 alcune Miti, grazie soprattutto a ricerche sull’eziopatogenesi e la cura della depressione come quella delle tre psicoterapeute citate, riescono a sfuggire dalla tela di ragno del persecutore, che non si darà pace finché non riuscirà a riportare la sua vittima nella cella psicotica in cui imprigionano le loro vittime che “sentono ma non vedono”: «Un aspetto che abbiamo voluto evidenziare – scrivono le psicoterapeute Di Agostino, Fabi e Sneider – è il rifiuto circa l’origine organica della depressione, anche delle forme più gravi, perché la causa va rintracciata all’interno di rapporti interumani deludenti a partire dai primi anni di vita;» .
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Questa ricerca che parte dalla Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli riconosce senza ombra di dubbio «l’influenza delle relazioni umane sulla salute della persona». Conseguentemente per le autrici l’eziopatogenesi della depressione è da ricercare nella «realtà non cosciente» e nelle «complesse dinamiche del rapporto interumano»
Coerentemente la cura si svolgerà solo ed unicamente attraverso il rapporto con esseri umani che sanno di queste dinamiche interumane patologiche, che ne conoscono la causa e la cura, e soprattutto che non deludono mai.
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Castiglione delle Stiviere – 8 agosto 2018