• Loretta Emiri : Venezuela … sogni e incubi …

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    Via Caracas

    Loretta Emiri *

     

     

    La versione originale di questo racconto è stata scritta nell’agosto del 1997 in portoghese, con il titolo “Pela Venezuela”. Pur essendo trascorsi vent’anni  dalla stesura, alcune considerazioni del testo possono aiutarci a capire cosa si nasconde dietro all’attuale caos venezuelano

    “Chi lascia la strada vecchia per quella nuova, male si ritrova”. Che saggio proverbio! Quanti riusciti viaggi fra Brasile e Italia ho realizzato nel corso di tanti anni! Dato che questa volta non avrei viaggiato da sola, ma accompagnata dal recentemente-acquisito-marito, cominciai ad accarezzare l’idea di arrivare in Roraima via Caracas. Un viaggio senza dubbio più avventuroso, ma che ci avrebbe dato la possibilità di conoscere suggestivi luoghi e di risparmiare soldi: ciò sostenevano quanti già avevano fatto l’esperienza, fra cui i potenziali acquirenti della mia casa in Boa Vista, che si erano impegnati a viaggiare con noi e ai quali mentalmente avevo affidato il ruolo di guide. L’infallibile piano da loro suggerito per economizzare prevedeva anche l’acquisto in loco dei biglietti aerei relativi all’attraversamento del Venezuela.

    Mandai un fax alla compagnia di bandiera del Venezuela a Roma, ma non ho mai ricevuto risposta. Quando andai a comprare i biglietti, l’impiegato dell’agenzia di viaggi mi spiegò che la Viasa era fallita e che una compagnia statunitense stava negoziandone l’incorporazione (Galeano mostrerebbe che non è una coincidenza). Finii per comprare biglietti della compagnia di bandiera spagnola, non tanto per essere più economici quanto perché era l’unica ad avere ancora posti liberi per il mese di luglio. Con i biglietti mi venne consegnato un torbido, viscerale presentimento.

    I potenziali acquirenti della casa non viaggiarono più con noi. Nell’aeroporto di Caracas, la nostra aria smarrita subito attrasse il facchino Antonio, del quale non riuscimmo più a liberarci. Dopo aver parlato con due impiegate della compagnia aerea, che non è escluso fossero sue complici, ci fece credere che, non avendo noi fatto le riserve, la sua intermediazione ci rendeva possibile ottenere posto sull’ultimo volo per Porto Ordaz. Io personalmente avevo tentato di farlo smammare; non essendoci riuscita, cercai almeno di negoziare il furto, ma la breccia gli fu offerta proprio dal mio puro-marito, incapace di pensare che il facchino potesse agire in mala fede, incapace di dare meno di quanto richiesto, dato che “poverino, lui ne ha bisogno!”. Sborsammo il, notevole per noi, corrispettivo di venti dollari. In aereo fu molto più rapido contare i posti occupati che quelli liberi.

    Durante lo scalo in Maturin, l’apparecchio venne dichiarato in panne. I funzionari della compagnia ebbero bisogno di sole tre ore per decidere il destino dei passeggeri. Venimmo avviati alla benevola suite di un albergo. Non riuscimmo a dormire solo a causa del televisore acceso in una stanza vicina e del ronzio di un non identificato motore, che ci cullarono per tutta la notte. Da una passeggera venezuelana apprendemmo che la fallita compagnia aerea con la quale stavamo viaggiando era stata da poco acquistata da stranieri del cortile vicino; la donna aggiunse che preoccupazione dei nuovi proprietari era quella di aumentare le rotte attraverso cui piazzare droga, e non certo di offrire un buon servizio ai passeggeri o dare manutenzione alla flotta.

    Stanchi e irritati con storie di riserve, facchini, avarie, notti in bianco, compagnie aeree fallite, eccetera, arrivati a Porto Ordaz decidemmo di comprare subito i biglietti di ritorno, scegliendo il percorso più corto e rapido che, secondo noi, meno si sarebbe prestato al verificarsi di sgradevoli sorprese. Fu così che l’impiegata dell’Avensa/Servivensa ci rubò centotrentanove dollari, dato che, come scoprimmo solo in seguito naturalmente, applicò una tariffa frazionata al percorso diretto Santa Elena/Caracas da noi richiesto.

    Essendo arrivati in ritardo a Porto Ordaz, perdemmo la coincidenza. Restammo nella stazione dodici ore aspettando il pullman successivo, protetti da militari che si alternavano ostentando pistole con tale insolita, lunga canna che concludemmo essere archibugetti risalenti alle guerre di liberazione dell’onnipresente Simón Bolívar. Quando ci stancavamo di leggere libri di autori latinoamericani provvidenzialmente portati con noi, guardavamo verso i tassì parcheggiati davanti alla stazione. Così vecchi e precari, gli enormi veicoli americani hanno smesso di essere pretenziosi per divenire patetici. Così patetici i venezuelani che consegnano il loro prezioso petrolio agli americani in cambio di chincaglieria. Così patetico il mito di Simón Bolívar: nel paese in cui tutto è chiamato ‘Bolívar’ manca proprio l’autonomia che El Libertador voleva.

    Ci dissero che il pullman avrebbe raggiunto direttamente Boa Vista, impiegando dieci ore. L’incredibile numero di fermate intermedie effettuate elasticizzò il viaggio, che durò quindici ore. A un controllo militare effettuato dentro il pullman, fece seguito il controllo dei passaporti da parte di funzionari venezuelani, poi quello eseguito da funzionari brasiliani, infine avvenne il controllo delle merci che venivano introdotte in Roraima. Quando cominciavamo a pensare che non saremmo più usciti dalle sabbie mobili della burocrazia, mettemmo piede nella millenaria terraferma roraimense.

    Il soggiorno a Boa Vista venne macchiato da quello che aveva cessato di essere torbido, viscerale presentimento e si era trasformato in terrore di affrontare il viaggio di ritorno. Per avere il tempo di neutralizzare gli inconvenienti che, a questo punto eravamo sicuri, avremmo affrontato durante l’attraversamento del Venezuela, decidemmo di anticipare la partenza da Roraima. Affinché, forse, mi costasse meno lasciare la casetta in riva al fiume Rio Branco, che nel frattempo avevo venduto, quel venerdì in cui partimmo da Boa Vista le onde alienanti del giradischi della vicina ci aggredirono brutalmente a partire dalle sei del mattino.

    In pullman sopportammo le urla di passeggeri che, non trovando posti a sedere, litigavano fra di loro e con il controllore; il fatto è che erano stati venduti più biglietti del dovuto. Il mio altruista-marito viaggiò in piedi offrendo il suo posto prima a un vecchietto, poi a una ragazza, quindi a un maestro indigeno. A ritmo di pianto di bimbi, tambureggiare di giovani, spettegolare dei restanti passeggeri arrivammo a Santa Elena, venendo abbandonati sul melmoso, accidentato tratto di strada affettuosamente chiamato “stazione dei pullman”.

     

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    Lasciate le valige, uscimmo alla ricerca di cibo. Con mal di testa per tanto rumore sopportato fin dal mattino presto, camminammo abbastanza prima di trovare un locale che non avesse un giradischi col volume alto. La veranda “Da Rosa” sembrò essere il luogo tranquillo e discreto che stavamo cercando. Avevamo appena ordinato la cena quando arrivò un’auto piena di fracasso. Le persone scesero lasciando le porte aperte per meglio ascoltare l’assordante musica. Il mio educato-marito andò a dire loro: “Per favore, per gentilezza, abbiano la finezza di abbassare il volume”. Uno degli uomini soddisfece la richiesta, ma la donna che sembrò essere la femmina dominante del branco saltò in macchina e aumentò ancor più il volume, gridando con voce maschile: “Non siamo in Italia, qui in Brasile è così”. L’istintiva frase rivelò la nazionalità della delicata signora, così furiosa a causa della nostra barbara pretesa che stava dimenticando di essere lei stessa ospite nella venezuelana terra di Santa Elena. L’accaduto ci portò a formulare un’ovvia ponderazione: educazione non è appannaggio di Stati nazionali, educazione è valore universale. Tentammo di sfuggire alle onde alienanti rifugiandoci all’interno della trattoriola, ma fu inutile: finimmo di cenare seduti proprio di fronte alla televisione accesa.

    Nell’albergo “Los Castanõs”, indicato da persone che vi avevano pernottato, venimmo svegliati alle cinque del mattino, quando altri ospiti cominciarono a scaldare i motori dei loro veicoli e a caricare bagagli, merci e pappagalli. Porte sbattute, genitori che urlavano ordini ai figli, adulti che formulavano strategie: nel giro di due ore il patio tornò a dormire tranquillo. Nel frattempo noi avevamo potuto meglio ammirare i fili elettrici a vista del ventilatore e dell’interruttore del ventilatore da soffitto, la sedia a pezzi, l’acqua che le tubature del bagno non riuscivano a portar via e che stava raggiungendo la camera. Ci assalì pure il dubbio che anche pulci avessero dormito con noi nel cigolante letto. Impiegammo tre minuti e sei secondi per fare le valigie. Gli affascinanti, magnetici occhi del taciturno albergatore ancora una volta fecero sì che il mio pensiero corresse al Che, ma non mi astrassi dalla realtà al punto da non percepire che non ebbe argomenti per giustificare il fatto di esigere da noi quattordici real, quando è risaputo che chiunque lì ne paga solo dieci.

    L’apparentemente affabile receptionist dell’albergo “Frontera” ci riservò l’unica disponibile, una modesta camera in fondo al patio; annotò i nostri dati e gentilmente propose che, se si fosse liberata, ci avrebbe fatto trasferire in una stanza migliore. Quando poco dopo riapparimmo con armi e bagagli, ermeticamente e freddamente, la faccia-di-bronzo ebbe il coraggio di dirci che avevamo capito male, che non c’era nessuna camera libera.

    Con sollievo lasciammo il sudicio, puzzolente, rumoroso, mercenario centro di Santa Elena. Ci istallammo in un accogliente e finalmente tranquillo villaggio turistico, con tanto di orchidee, ristorante stile abitazione indigena, cibo per far avvicinare gli uccellini, famigliola che ci serviva in modo che di essa ci sentissimo parte. E ce ne sentimmo parte, tanto è che alla presentazione del conto non avemmo il coraggio di chiedere a papà Luis perché ci addebitasse il doppio per le polarmente gelate birrette bevute. Il contatto con la natura ci riconciliò con gli uomini e fu così che, in pace, andammo a dormire. Verso mezzanotte venimmo attaccati da aerei nemici. Volavano così bassi che il fragore era assordante. Bombe esplodevano nelle nostre teste. Le pareti vibravano. Catapultati dal letto, quando riuscimmo a passare dal terrificante sogno alla realtà, scoprimmo che quest’ultima era più terrificante del sogno stesso: una vicina discoteca ci bombardò fino alle quattro del mattino. Il pensiero che di buonora avremmo preso l’aereo per continuare il viaggio lenì un poco le ferite provocate da tale brutale attacco.

    Nell’agenzia dell’Avensa/Servivensa in Santa Elena, la gravida e dolce Velitze aveva garantito le nostre riserve comunicando con l’aeroporto attraverso radiofonia: il suo uso in epoca di computer mi aveva spaventata, anticipando visioni di quanto ci aspettava. Arrivando nell’impolverata e squallidamente equipaggiata pista chiamata “aeroporto”, venimmo a sapere che alcuni voli nazionali erano stati sospesi. Ciò significava che, se fossimo partiti da Santa Elena lo stesso giorno del volo internazionale, quest’ultimo lo avremmo senz’altro perso. Ci inorgoglimmo per essere stati così provvidenzialmente previdenti. Il solito militare prese nota dei dati dei passeggeri. Non fu possibile pagare la tassa d’imbarco perché l’impiegato addetto non comparve per aprire il suo sportello. Ben due volte facemmo notare che la nostra valigia non veniva imbarcata; percependo che sarebbe proprio rimasta a terra, il mio finalmente-preoccupato-marito la caricava lui stesso nel bagagliaio. Una volta dentro il piccolo aereo, cercai di aprire la mensolina che avevo davanti, ma era rotta. Andai in bagno e non riuscii a entrare; candidamente l’hostess mi spiegò che non poteva essere usato dato che, probabilmente, alcune merci in esso stipate avevano finito per bloccarne l’accesso. Il mio viso-pallido-marito divenne ancor più pallido vedendo lunghe fiammate uscire da sotto un’ala, ma ciò felicemente avvenne quando già stavamo atterrando.

    La vista della foresta millenaria, dei sinuosi fiumi, delle possenti pareti di roccia, del maestoso Salto Angel, dell’incantevole baia di Canaima ci aiutò a neutralizzare lo spavento preso per aver viaggiato in così rattoppato piccolo aereo. Mentre aspettavamo di imbarcarci in un aereo più grande, avemmo persino la sorte di vedere i tradizionali abitanti dell’area, gli indigeni. Diventati facchini, camerieri, addetti alle pulizie, inservienti, sono lì che servono umilmente e sorridono tristemente ai nuovi padroni dell’area, gli snob turisti internazionali.

     

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    Nel secondo aereo, pur essendo ora di pranzo, ci furono offerte porche, scusate volevo dire parche, patatine fritte. Arrivando a Caracas, uscimmo frettolosamente dal fabbricato dove sono disciplinati i voli nazionali per raggiungere quello degli internazionali. È proprio così: bisogna trasferirsi da una struttura all’altra camminando per circa quattrocento metri, dovendo affrontare un vento fortissimo, eventuale pioggia e i voraci facchini. Pur costatando che aveva dimensioni orribili, entrammo nella fila per la lista di attesa, dato che lasciare il Venezuela con antecedenza rispetto alle riserve fatte era divenuta una questione d’onore. Non riuscimmo a viaggiare. Non riuscimmo nemmeno a confermare le riserve, dato che gli impiegati degli sportelli Iberia si dissero impossibilitati a farlo. Infuriati passeggeri ci avrebbero poi raccontato che per quel pomeriggio la compagnia aveva venduto settanta (sic) biglietti in più. Fu così che non riuscirono a viaggiare nemmeno passeggeri con riserve fatte; i quali, per giunta, si sentirono ritorcere contro il pretesto che non le avevano confermate.

    Prima che mi rendessi conto di ciò che voleva fare, il mio sprovveduto-marito andò a chiedere informazioni a un militare. Quest’ultimo chiamò l’autista di un ferrovecchio, che ci portò all’albergo “Santiago”, di proprietà di fratelli spagnoli, nella vicina Macuto. Durante il tragitto l’uomo ne cantò le lodi: suite con televisione e aria condizionata, spiaggia riservata, ristorante annesso; ideale, secondo lui, per una coppia che volesse trascorrere due giorni tranquilli. Quando vide la faccia che feci sentendo che voleva diecimila bolívar per la corsa, subito scese a settemila. Sentii ancor più rabbia e cercai di farmi spiegare la ragione del cambiamento di prezzo. Più tardi considerammo che, probabilmente, nemmeno avremmo dovuto pagare niente, non essendo egli un tassista, ma autista dell’albergo stesso. Cercai di togliermi il dubbio con il portabagagli che ci accompagnò in camera, il quale, naturalmente, spergiurò che avevamo pagato un prezzo giusto.

    Il ronzio del solito non identificato motore spadroneggiava nella stanza. Il mio incauto-marito subito adoperò il bidè e non riuscì più a chiuderne il rubinetto. Chiedemmo di poterci trasferire in una camera meno rumorosa e dove non corressimo il rischio di morire affogati. Il ronzare del non identificato motore ci perseguitò anche nella nuova stanza. Dalla doccia, senza più cipolla, uscì solo acqua fredda. Sulla spalliera del letto trovammo stratificazioni millenarie di polvere. La puzza di pesce fritto, di cui l’intero fabbricato era impregnato, ci fece ricordare che non avevamo pranzato e andammo a cena. Avventatamente, scegliemmo calamari e sentimmo nausea: dell’olio nei quali furono fritti doveva essere stato fatto un uso decennale. Il ristorante funzionava dall’altro lato della strada, di fronte all’oceano. Costatammo così che la spiaggia riservata dell’albergo altro non era che un’impervia scarpata, costellata di massi e sporcizia. Per digerire i calamari andammo a fare due passi. Percorrendo immonde e abbandonate strade ci tornarono in mente immagini analoghe colte nella città di Boa Vista, ormai in balìa del neosindaco Ottomar. Incrociammo un giovane drogato con la cerniera dei calzoni aperta. Prudentemente e rapidamente tornammo in camera.

    Decidemmo di spegnere il condizionatore, tanto superfluo quanto generatore di un rumore violento. Il mio ingegnoso-marito tentò a lungo senza riuscirci. Arrivò a togliere il pannello esterno deciso a slacciare i fili elettrici. Senza successo usò tutti gli strumenti di cui disponeva: forbici, penne, monete. Il mostro tacque solo alle quattro del mattino, quando concludemmo che il suo funzionamento doveva essere centralizzato. Nel distendersi, il mio frustrato-dall’insuccesso-marito percepì che il cuscino era alto, scomodo per lui. Con il citofono chiamò il personale di servizio, ma nessuno rispose. Uscì sul corridoio dove un dipendente, comodamente e tranquillamente seduto, gli disse che doveva recarsi lui stesso nella reception: indossando pigiama e rassegnazione la raggiunse e si fece cambiare il cuscino.

    Al mattino l’odore di pesce fresco olezzava per tutto l’albergo. Cominciai a telefonare all’Iberia per confermare le riserve. Tentai per circa mezz’ora. Più tardi, altri passeggeri avrebbero raccontato che anche loro avevano cercato inutilmente di entrare in contatto telefonico con la compagnia aerea che, a causa della confusione generatasi con la vendita dei settanta biglietti in più, semplicemente ritenne più opportuno non rispondere. Con la testa che ci pulsava per aver dormito così poco e male, decidemmo di andare subito all’aeroporto. Quando chiesi il conto, vidi che vi erano stati addebitati settecentocinquanta bolívar per l’uso del telefono. Spiegai che non avevo parlato con nessuno, che nessuno aveva risposto alle mie chiamate; imperturbabile, la gerente continuò a esigere l’importo per “aver mantenuto la linea occupata”. Il mio finalmente-furioso-marito esplose e durante alcuni interminabili secondi le dette una lezione d’italiano, insegnandole tutte le parolacce possibili e non immaginabili.

    Vedendoci con le valigie, uno dei mafiosi dipendenti dell’albergo ci corse dietro e si offrì di portarci in aeroporto per la modica somma di ottomila bolívar, e addirittura scese a seimila. Per liberarsene il mio generoso-marito gliene offrì tremila: considerata indecente, naturalmente la proposta non venne accettata. Fermammo un tassì e, prima di salire, chiedemmo quale era la tariffa per l’aeroporto. Sentendo dire “duemila bolívar”, pensammo di non aver capito bene e chiedemmo di nuovo. Quando, per la terza volta, il paziente signore ribadì che voleva solo duemila bolívar, ci decidemmo a salire nel tassì che, fra l’altro, questa volta non era il solito, fradicio, preistorico macchinone americano, ma era una macchinetta nuova di zecca, carina e pulita.

    Arrivando in aeroporto, il modo di fare del mio ancora-furioso-marito richiamò l’attenzione di un militare che volle subito controllare i bagagli. Mentre avveniva la perquisizione, il mio incosciente-marito si sfogava prendendosela con il soldato che ci aveva orientati nel pomeriggio del giorno prima. A questo punto mi spaventai proprio: il mio intellettuale-marito-italiano poteva aver letto qualcosa a rispetto dei militari latinoamericani; ma della brutalità di cui erano capaci io avevo raccolto testimonianze dirette di amici indigeni, brasiliani e argentini. Visualizzai che saremmo stati sbattuti in prigione. Presi a parlare pacatamente, a sorridere idiotamente: cercavo di convincere il militare che andava tutto bene, che tutto era a posto, che non avevamo rimostranze da fare. Durante l’intera permanenza in Venezuela avevo notato che, mentre io capivo abbastanza il castigliano, la maggior parte delle persone con le quali avevo cercato di comunicare non solo mostrava di non comprendere niente del mio portoghese pazientemente scandito ma, addirittura, dava segni d’impazienza e interrompeva bruscamente i miei tentativi. Nello spasmodico desiderio di essere capita, in questo caso raddoppiai gli sforzi; allo stesso tempo sperando che non fossero state decifrate le esternazioni del mio imprudente-marito. Riuscii nell’intento. Il militare si scusò per il disagio provocatoci, aggiungendo che era suo dovere effettuare i controlli, che stava circolando molta droga, che si augurava capissimo le sue ragioni.

    Dato che avremmo dovuto aspettare varie ore prima che gli sportelli dell’Iberia aprissero, cercammo un carrello per le valigie, ma in quel settore dell’aeroporto internazionale di Caracas non c’erano, a meno che non fossero quelli dei voraci facchini riuniti in consorzio. Cercammo il deposito bagagli, ma in quel settore dell’aeroporto internazionale di Caracas non c´era. Cercammo posti a sedere, ma in quel settore dell’aeroporto internazionale di Caracas non ve n’erano. Ci tornò in mente la frase virtuale inserita nella guida turistica acquistata prima del viaggio, asserente che quello di Caracas è “un modernissimo e attrezzatissimo aeroporto internazionale”. Caricando valigie e malumore peregrinammo da ristoranti a bar per consumare posti a sedere e aspettare che il tempo passasse.

    Finalmente arrivò l’ora di mettersi in fila. I nostri nomi vennero inseriti nella lista d’attesa. Correndo andammo a comprare bolívar, dato che non accettarono dollari per pagare la multa applicata per il cambio di riserva. Quando andammo a pagare le tasse d’imbarco non accettarono bolívar avanzati e dollari, sostenendo che il pagamento doveva essere fatto in una sola moneta. Volammo a cambiare di nuovo danaro: persino l’impiegata a cui ci dirigemmo si sorprese della pretesa della collega. Quando, senza fiato, raggiungemmo il cancello d’imbarco, scoprimmo che l’aereo sarebbe decollato con mezz’ora di ritardo. In quel settore dell’aeroporto perlomeno c’era dove sedere, ma non c’era il bagno: il mio bisognoso-marito fu autorizzato a tornare indietro per raggiungerne uno solo dopo che ebbe consegnato un documento d’identità e la carta d’imbarco. Mentre aspettavamo, turisti italiani, francesi, spagnoli e israeliani condivisero le loro personali esperienze di voli Iberia e Avensa e soggiorni in Venezuela, e concludemmo che erano state decisamente più terrificanti delle nostre. Quando chiamarono per l’imbarco, venne ordinato che uomini e donne si disponessero in file differenti, così un poliziotto di sesso apparentemente maschile accarezzò i passeggeri e un poliziotto di sesso apparentemente femminile palpeggiò le donne.

    In aereo, cominciò a prendere consistenza l’idea di mettere per iscritto queste peripezie. Allo stesso tempo, essendo alquanto sgradevoli, mi chiedevo se non era meglio lasciarle nella memoria, che si sarebbe incaricata di gettarle in breve tempo nel dimenticatoio. Ho finito per scriverle per farti sorridere lettore, o per stuzzicarti a mettere in discussione situazioni. Computando il saldo finale, aggiungo che materialmente abbiamo speso quattrocento sette dollari in più che se fossimo arrivati nello stato di Roraima risalendo il Brasile; che stanchezza fisica e psicologica non hanno prezzo; che inestimabile è stata la perdita subita per non aver rivisto amici brasiliani del sud e del centro del paese, cosa che l’altra rotta ci avrebbe preziosamente consentito di fare. Venezuela mai più, via Caracas.

    * Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i libri di racconti Amazzonia portatile, Amazzone in tempo reale (premio speciale della giuria per la Saggistica, del Premio Franz Kafka Italia 2013), A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta ­(la cui presentazione è entrata nel programma ufficiale del Salone Internazionale del Libro di Torino 2017), il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito Romanzo indigenista, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, AMAZZONIA – fratelli indios, Euterpe, Pressenza, La bottega del Barbieri.

     

     

     

     

     

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