• Loretta Emiri – La grande lingua madre e l’abbecedario dei tapirapé

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    TAPIRAPÉ *

    Loretta Emiri **

     Nel 1900 la popolazione tapirapé era di circa millecinquecento individui. Nel 1952, quando le Piccole Sorelle di Gesù arrivarono in mezzo a loro, erano ridotti a cinquanta persone. Ci fu chi pensò che questo popolo sarebbe scomparso, ma l’abnegazione  delle religiose non lo permise. La missione ha operato in due direzioni: in campo sanitario ha offerto prevenzione e cure; a livello sociale ha stimolato il gruppo a fortificarsi per poter affrontare i problemi legati al devastante contatto con il mondo dei bianchi. È ovvio che, in qualsiasi gruppo etnico gli anziani sono depositari di maggior sapere culturale, mentre i giovani assorbono facilmente quanto la società occidentale propone. Fra i sopravvissuti tapirapé, pochi erano gli anziani e più numerosi i giovani. Molte conoscenze si persero. Non disponendo del necessario numero di partecipanti, per lunghi anni alcuni riti non potettero essere realizzati. Partendo dalla valorizzazione della cultura indigena, la missione ha aiutato il popolo tapirapé a ricostruire il suo bagaglio culturale, a identificarne gli insiti valori, a guardare con occhi critici ciò che il mondo occidentale propina, a far valere i propri diritti.

     

    Rivelando un abbordaggio e uno stile bel differenti da quelli cui eravamo abituati, negli anni ottanta iniziano ad essere pubblicati in Brasile abbecedari e libri di lettura prodotti dagli stessi indios. Le attività economiche, l’organizzazione sociale, le cerimonie, la simbologia mitologica cominciano ad essere raccontate dal di dentro, in modo così appropriato ed originale che nemmeno gli etnografi possono ottenere. Disegni e testi fanno emergere una vasta gamma di informazioni, ma soprattutto aprono nuovi squarci sul modo di vedere e sentire indigeno.

    Per il contenuto e l’accurata veste grafica, l’abbecedario tapirapé è fra i lavori più belli e rappresentativi prodotti in quegli anni. Ricordo ancora l’emozione che mi pervase quando ne strinsi un esemplare fra le mani. Alcuni anni dopo ebbi il piacere di conoscere due giovani uomini e una ragazza tapirapé che avevano collaborato alla stesura del libro. Fu molto piacevole conversare con loro. Mi raccontarono come da alunni si erano trasformati in maestri; che il loro popolo era ormai intorno alle trecento persone, di cui centosei frequentavano la scuola del  villaggio; che fra le pareti scolastiche si poteva modellare, trasmettere contenuti attraverso il teatro dei burattini, dibattere la problematica relativa alla difesa del territorio e dei diritti indigeni.  Ero al corrente del fatto che un’équipe interdisciplinare di professori dell’Università di Campinas stava orientandoli nella definizione della programmazione didattica.  Volli saperne di più. Mi dissero che, partendo dal sapere indigeno, il curricolo aveva l’obiettivo di offrire agli alunni una conoscenza adeguata alla delicata situazione imposta dal contatto con l’uomo bianco.

     

    Da alcuni anni realizzavano calendari in cui, con disegni e testi, registravano gli eventi più significativi di ogni mese, e relativi a flora, fauna, agricoltura, clima, astronomia, malattie, avvenimenti sociali. Comparandoli, avevano iniziato ad analizzare i fenomeni ciclici. Ciò stava servendo loro per avere una visione più globale degli eventi stessi ma, soprattutto, per stabilire quali dei cambiamenti in atto erano attribuibili al processo di colonizzazione della regione. Intitolata “Laboratorio della Natura”, la proposta pedagogica aveva inoltre il merito di presentare le varie materie sotto forma di unità didattiche interdisciplinari; mentre negli alunni suscitava interesse per l’osservazione, la ricerca, l’elaborazione dei dati raccolti. Quasi a voler sottolineare quanto intima fosse la relazione fra scuola e manutenzione della cultura indigena, i maestri tapirapé si congedarono comunicandomi che quell’anno ben sette ragazzi erano passati attraverso i riti di iniziazione.

     

    A distanza di anni dagli avvenimenti descritti, aggiungo solo che il metodo educativo avviato fra i tapirapé non è servito semplicemente a trasmettere la tecnica del leggere e scrivere, ma a ridare loro la voglia di vivere. La caparbia esperienza di questi indios si è trasformata in speranza per altre minuscole società indigene. Contenuti, metodi e materiali didattici da loro prodotti hanno orientato e sostenuto oscuri e sperduti operatori sociali che, in altre regioni, in mezzo ad altri gruppi, stavano dando il loro contributo affinché la  scuola in area indigena cessasse di essere strumento di dominazione e si trasformasse in mezzo privilegiato attraverso cui riscoprire identità e conquistare diritti.

    * Il brano “Tapirapé” è uno dei capitoli del libro Amazzone in tempo reale.

     

    ** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i libri di racconti Amazzonia portatile, Amazzone in tempo reale (premio speciale della giuria per la Saggistica, del Premio Franz Kafka Italia 2013) e A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito Romanzo indigenista, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, AMAZZONIA – fratelli indios, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, La bottega del Barbieri, Pressenza, Euterpe.

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