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MAGÜTA *
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Loretta Emiri **
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Provenienti dal disegno che sto ammirando, colori e forme mi vengono incontro; in un baleno, alberi e animali mi circondano; “bentornata in foresta”, gracidano pappagalli in stormo! Mi trovo nell’ambasciata del Brasile, a Roma, dove è stata allestita la mostra “Le Scuole della Foresta”. Mi turbano i disegni dei maestri ticuna, tanto sono animati: sospetto che gli autori abbiano chiesto agli spiriti della foresta di introdurvisi. Per cercare di rendere l’idea di ciò che si può provare contemplando simili opere d’arte, riporto un brano degli stessi ticuna: “Se la si guarda dall’alto, tutto sembra immobile. Ma dal di dentro è differente. La foresta è sempre in movimento. Al suo interno c’è una vita che si trasforma senza sosta. Viene il vento. Viene la pioggia. Cadono le foglie. E foglie nuove nascono. Dai fiori escono i frutti. E i frutti sono cibo. Gli uccelli lasciano cadere i semi. Dai semi nascono gli alberi. E viene la notte. Viene la luna. E vengono le ombre, che moltiplicano gli alberi. Le luci delle lucciole sono stelle sulla terra. E con il sole viene il giorno. Esso scalda la foresta. Illumina le foglie. Tutto ha colore e movimento”.¹ Se osservati superficialmente, gli scenari disegnati dai maestri ticuna possono sembrare immobili; uno sguardo più intimo ci rivela che al loro interno, dalle forme al colore, tutto è vivo e in movimento. Contemplo a lungo le opere esposte. Ogni dettaglio etnografico simboleggia tutto un insieme di relazioni; per cui, oltre che capolavori di arte indigena, di un magico e fantastico realismo, di sbalorditiva forza comunicativa, i disegni ticuna sono vere e proprie sintesi etnologiche. Non meno didattici e poetici mi appaiono i testi inseriti nella mostra: prodotti collettivamente, anch’essi riproducono le concezioni ticuna del reale e dell’immaginario, in un linguaggio in cui confluiscono ispirazione, mitologia e conoscenze. La mostra è completata da belle foto che documentano il processo di educazione in atto, nelle sue varie fasi e attività.
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Si autodefiniscono indianisti, alleati, amici; sono persone che si sono innamorate degli indios; ognuna a suo modo cerca di manifestare e alimentare il suo amore. C’è chi effettua ricerche e produce saggi; chi denuncia situazioni e raccoglie firme; chi sensibilizza con mostre, conferenze, dibattiti. Sono gli eroi mitologici della questione indigena: infaticabili, vulcanici, onnipresenti. La loro stessa dedizione li trasforma in semidei; di umano conservano solo l’astio con cui si criticano e calunniano a vicenda. Subendone ancora il magico influsso, raccontavo di aver visitato la mostra. Ancor prima di poter verbalizzare una qualsiasi considerazione personale, mi franavano addosso quelle degli altri: “una mostra nell’ambasciata quando il responsabile della situazione degli indios è proprio il governo brasiliano?”; “da dove viene, dove vuole arrivare colei che si nasconde dietro la sigla cui è attribuita l’organizzazione dell’evento?”; “non deve mai aver operato in area indigena e si appropria del lavoro altrui”; “potrebbe almeno aprire uno spazio affinché la mia associazione consegni all’ambasciatore denunce e firme raccolte”; “potrebbe almeno chiedere agli ospiti indigeni di prestarsi per qualche attività nel mio dipartimento”. Mentre la valanga delle maldicenze e pretese aumentava, io e il mio pensiero scappavamo lontano.
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Realizzando un salto di sei anni a ritroso nel tempo, mi ritrovavo a Belém, la capitale simbolica dell’Amazzonia brasiliana. Si stava svolgendo un seminario nazionale, il primo che vedeva coinvolto il Ministero dell’Educazione dopo che le leggi derivanti dalla nuova costituzione gli avevano attribuito il compito di coordinare le azioni relative all’educazione scolastica indigena. I lavori vennero aperti con la presentazione di un opuscolo dall’artistica copertina rossa plastificata, su cui spiccava un artistico disegno. La pubblicazione riuniva le direttrici della politica nazionale di educazione scolastica indigena, tracciate da esperti all’uopo convocati dal ministero. Sotto la voce “Storia”, leggemmo: “Questa disciplina includerà anche la valorizzazione delle espressioni artistiche, estetiche e cognitive (miti, musica, danza, pittura…) che fanno parte del repertorio culturale di qualsiasi popolazione. La comprensione del significato di ogni manifestazione culturale della comunità deve essere elucidata agli alunni come ciò che chiamiamo Arte. La Storia, che introduce i gruppi indigeni anche alla conoscenza di altri popoli, permetterà di capire in che forma le loro manifestazioni culturali, in quanto linguaggio artistico, sono valorizzate dalla società nazionale. Questo abbordaggio consente di sopprimere la disciplina “Educazione Artistica” dai curricoli delle scuole indigene”(sic).² Presi la parola, così come altre persone che operavano con gli indios, per suggerire che la soppressione doveva essere ripensata. Oltre che gratuita, la scelta ci appariva discriminatoria, e riduttiva nei confronti delle manifestazioni artistiche indigene, sia sociali che individuali. Mettemmo in discussione anche l’invito, implicitamente rivolto agli alunni indigeni, a capire in che forma le manifestazioni culturali dei loro popoli sono valorizzate dalla società nazionale. Per cinquecento anni i bianchi hanno massacrato fisicamente e culturalmente i nativi, alimentando nei loro confronti ogni sorta di preconcetto che giustificasse il genocidio e l’etnocidio, appunto. Quanti secoli ci vorranno perché gli occidentali prendano coscienza del fatto che certe manifestazioni non sono altro che espressioni artistiche di società solo differenti, in niente inferiori alla loro? Perché gli indios dovrebbero capire ciò che la società nazionale pensa delle loro espressioni artistiche? Esse sono, anche e soprattutto, affermazioni di identità culturale; nelle scuole indigene vanno semplicemente valorizzate; la valorizzazione, di per sé, porta ad incentivarle. Gli esperti presenti non si limitarono a ponderare le nostre argomentazioni; interpretandole come attacchi alle loro persone, ce le respinsero in gola con veemenza e arroganza degne di uomini, non certo di semidei.
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Passeggiando lungo portici e giardini che mettevano in comunicazione le varie costruzioni del complesso che ci ospitava, nelle pause di lavoro noi diretti interessati approfondimmo la discussione. Abitata dalle etnie numericamente più popolose e culturalmente più preservate, nella regione Nord del Brasile stavano realizzandosi le esperienze di educazione scolastica indigena più significative e innovatrici, al passo che proliferavano organizzazioni indigene e associazioni di maestri. Ci si rese conto che mancava solo promuovere una necessaria, urgente articolazione a livello amazzonico. La prassi e la riflessione degli indios, e dei loro consulenti legati a oscure università del nord, dovevano entrare a far parte dei materiali da usare nella costruzione della politica nazionale di educazione indigena; educazione che, cessando di essere trampolino di lancio di accademici esibizionisti legati a brillanti università del sud, si sarebbe trasformata in solida base di appoggio per il futuro dei popoli indigeni. Servendosi di diapositive, un giovane ticuna proiettò una luce di originalità sull’incontro. Ci parlò del museo allestito grazie all’impegno profuso dal Magüta – Centro di Documentazione e Ricerca dell’Alto Solimões. Stupende immagini di maschere cerimoniali, cesti, sculture, ceramiche e le semplici, a tratti impacciate parole del giovane, ci schiusero le porte dell’universo ticuna. Il contributo provocò un ammirato silenzio, subito interrotto dagli autori dell’opuscolo rosso presenti in sala. Nulla potendo obiettare al progetto di lavoro, con sofisticate, a tratti spudorate parole, gli istrionici accademici sferrarono attacchi personali contro l’artista che si cela dietro le porte del museo e del Centro Magüta, una donna bianca che da anni, fedelmente, visceralmente, e con lungimiranza, coadiuva i ticuna. Gli attacchi furono così virulenti che fecero star male non solo l’interessata, ma molti di noi. Due mesi dopo la realizzazione del seminario, presi visione di un documento con cui l’organizzazione dei maestri ticuna confutava insinuazioni messe per iscritto da una commissione di maestri indigeni degli Stati dell’Amazonas, Acre e Roraima. Talmente pacchiane, le insinuazioni stesse denunciavano il ruolo avuto, nella loro formulazione, dai soliti consulenti bianchi.
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Provenienti da cinque municipi e riuniti in assemblea annuale, centonovantasette maestri ticuna sottoscrivevano il documento in cui, fra l’altro, si legge che il Centro Magüta non ha mai cercato di dividere i maestri, anzi ha sempre stimolato l’unione del popolo ticuna e la sua articolazione con enti, istituzioni, associazioni indigene e non-indigene; che ha sempre operato d’accordo con le necessità indicate dalle organizzazioni interne ticuna e mai interferito nelle loro decisioni; che ogni progetto promosso nell’area dell’educazione è il risultato di lunghe e dettagliate discussioni con le organizzazioni indigene stesse; che loro, i maestri, avevano potuto qualificare l’insegnamento e si erano meglio organizzati proprio grazie al sostegno ricevuto dal Magüta, con ciò riuscendo a fronteggiare, uniti, problemi e pressioni sempre in agguato nel loro lavoro.
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Prima di accingermi a scrivere questo brano, ho estratto dall’archivio un bollettino del Museo Magüta. È un opuscolo molto sobrio: non è stato stampato in tipografia; non ha la copertina plastificata; non è stato redatto da semidei; fotocopiate in bianco e nero, le sue pagine sprizzano arte e vita da tutti i pori. Si situa a metà strada fra il seminario di Belém e la mostra di Roma. Vi è scritto che vuole essere memoria del museo e del progetto di educazione, le cui attività sono portate avanti in forma integrata. L’organizzazione dei maestri ticuna, OGPTB, è stata creata nel dicembre del 1986, e cioè sette mesi dopo la fondazione del Centro Magüta. Il museo è parte integrante del Centro; prima di aprirlo al pubblico, ci sono voluti tre anni per raccogliere materiali, documenti e allestire l’esposizione. L’OGPTB ha firmato un accordo con il Centro Magüta e l’Università dell’Amazonas, con sede in Manaus, per la realizzazione di un corso che abiliti i ticuna all’esercizio del magistero. Il corso è stato suddiviso in tappe, durante le quali parte dei libri della biblioteca del museo viene trasferita nel luogo dove le tappe stesse si realizzano. Le lezioni di Storia dell’Arte hanno abbracciato anche nozioni di Archeologia, che hanno messo i maestri in condizione di percepire l’importanza di oggetti ritrovati nei villaggi e dintorni; ad esempio, in un solco aperto per far scorrere l’acqua in un giorno di molta pioggia, alunni della scuola di Betânia hanno ritrovato uno stupendo vaso policromo, subito messo in bella mostra, e al sicuro, nel museo; tali rinvenimenti hanno motivato nuove lezioni di Archeologia, arricchite da video e diapositive. In seguito, una museologa sarebbe tornata sull’argomento focalizzando tanto il valore del patrimonio culturale ticuna, la sua registrazione, preservazione e valorizzazione, quanto l’importanza di sviluppare questi temi nelle scuole. In una successiva tappa del corso di abilitazione, i maestri avrebbero partecipato ai lavori di organizzazione di una mostra itinerante, preparando anche attività ed esercizi da svolgersi con gli alunni a partire dal tema stesso della mostra; arricchita da testi e musiche rituali, e allestita nelle scuole, l’esposizione doveva percorrere i villaggi esibendo fotografie antiche dei ticuna e riproduzioni di rari, preziosi oggetti, oggi in disuso, conservati in musei brasiliani e stranieri.
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Sempre nel bollettino del museo Magüta si legge che, al fine di completare una esposizione di sculture ticuna, i maestri hanno prodotto una serie di illustrazioni rappresentanti la foresta, fiumi ed animali; riconoscendo alle minoranze etniche il diritto di accedere a spazi culturali urbani di prestigio per la società nazionale, il Museo Amazzonico di Manaus, che ha ospitato la mostra, ha contribuito a istillare, nel trattamento della questione indigena, dignità e valori imprescindibili. Durante una tappa del corso di abilitazione, un conservatore ticuna del Museo Magüta ha mostrato ai maestri gli aspetti più interessanti, da lui stesso filmati, di un viaggio all’estero; viaggio durante il quale, a Parigi, ha parlato con l’ambasciatore del Brasile e avuto contatti con l’UNESCO, mentre in Norvegia ha partecipato alla XVII Conferenza Generale dell’ICOM – Consiglio Internazionale di Musei. Il progetto di autofinanziamento del museo prevede la vendita di artigianato, che i ticuna già producono per fini commerciali; l’iniziativa è utilizzata anche per raggiungere un altro obiettivo: quello di incentivare il mantenimento dei criteri estetici e tecnici tradizionali; infatti gli indios che lavorano nel museo acquistano solo pezzi che rispondono a detti criteri e in tal senso orientano gli artigiani. Fra i programmi speciali portati avanti, uno in particolare ha richiamato la mia attenzione: rivolto alla rete delle scuole comunali e statali della città di Benjamin Constant, dove il museo ha sede, tende ad avvicinare le nuove generazioni alla storia e cultura dei ticuna in modo che nella regione, gradualmente, si instaurino relazioni più equilibrate fra la popolazione bianca e quella indigena. Nel 1995 il museo aveva già ottenuto due importanti riconoscimenti: il comitato brasiliano del Consiglio Internazionale di Musei gli ha concesso il premio “Museo Simbolo” per il pionierismo e il suo carattere di museo comunitario, che permette al popolo ticuna di utilizzarlo come strumento di resistenza e affermazione della propria identità culturale; l’Istituto del Patrimonio Storico e Artistico Nazionale, legato al Ministero della Cultura, in occasione del “Premio Rodrigo Melo Franco de Andrade”, lo ha dichiarato vincitore nella categoria “Educazione Integrata al Lavoro Comunitario di Valorizzazione della Memoria Nazionale”, indicando le seguenti motivazioni: per il processo partecipativo della sua creazione; per l’integrazione esemplare con la comunità; per servire come scuola e referenziale di resistenza del popolo ticuna; per contribuire alla preservazione e divulgazione della cultura indigena brasiliana; per essere strumento di aggregazione fra la popolazione indigena e non-indigena.
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Con una popolazione di circa ventottomila individui, i ticuna occupano una regione di frontiera fra Brasile, Perù e Colombia. Con gli oltre ventimila membri che vi si localizzano, sono uno dei maggiori gruppi indigeni del Brasile. Hanno un lungo contatto con l’uomo bianco che li ha storicamente e violentemente discriminati e oppressi. La gravità della situazione fondiaria indusse i leader ticuna a mobilitarsi ed escogitare nuove forme di organizzazione interna, che alla fine del 1982 portarono alla creazione del CGTT – Consiglio Generale della Tribù Ticuna. Quando il processo di difesa del diritto alla terra raggiunse il suo culmine, gli indios ripresero ad autodefinirsi magüta, rifiutando il termine ticuna che, in bocca ai bianchi della regione, assume connotati dispregiativi. La parola magüta indica il popolo pescato dall’eroe culturale Yöi nel corso d’acqua chiamato Évare. È un giorno di molta pioggia. L’acqua produce un solco nella mia mente. Affiora un doloroso ricordo policromo. È passato alla storia come il “Massacro del Capacete”. Il 28 marzo 1988, una ventina di uomini bianchi, armati fino ai denti, ferirono ventitré pacifici ticuna e ne uccisero quattordici, di cui quattro erano bambini. Il rosso del ricordo è il loro sangue versato. L’ocra rievoca che la carneficina si inserisce nella lotta per la terra, intrapresa per il riconoscimento di un territorio che risponda a necessità di sussistenza, ma incorpori anche i santuari mitologici ticuna. Il colore azzurro registra la riscoperta e affermazione dell’identità etnica del popolo pescato da Yöi. Un esile tratto di un verde intenso percorre il ricordo a simboleggiare che, nonostante la crudezza del momento, all’epoca dell’eccidio i ticuna ancora speravano nel futuro.
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A differenza di ciò che accade ad altri popoli indigeni in Brasile, i magüta hanno ottenuto la regolarizzazione fondiaria della quasi totalità delle loro terre; ciò significa che lo stato ha riconosciuto agli indios il diritto di continuare a vivere nei territori tradizionalmente occupati; in questo momento, la preoccupazione maggiore dei magüta è proteggere ciò che, anche giuridicamente, appartiene loro. Se il governo brasiliano fosse davvero il responsabile della situazione degli indios, i primi a dover essere sensibilizzati non sono proprio i suoi rappresentanti, ambasciatori o impiegatucci che siano? Se il capitale internazionale si serve di politici e oligarchie locali per saccheggiare le risorse naturali presenti nei territori finora protetti dai popoli indigeni, non è a livello regionale che gli indios hanno più bisogno di alleati? “Eva ha visto l’uva”, è scritto in un abbecedario usato in tutto il Brasile per alfabetizzare anche chi l’uva non la vedrà mai, perché mai avrà i soldi per comprare frutta proveniente da altre regioni del suo continentale paese. La scuola aiuta i più poveri e miserabili fra i brasiliani a rivendicare i propri diritti, così come in questi ultimi anni alcuni gruppi indigeni riescono a fare anche grazie alle loro scuole specifiche e differenziate? Testi e disegni dei maestri magüta rivelano un singolare intendimento dei fenomeni biologici, tanto che ogni opera si presenta come un ecosistema in cui ispirazione, mitologia e conoscenze interagiscono fattivamente. Escludendo la disciplina “Educazione Artistica” dai curricoli delle scuole indigene, e diluendo l’arte nella storia, gli esperti convocati dal Ministero dell’Educazione hanno messo in bella mostra la loro singolare ottusità. Fortunatamente, i magüta hanno avuto il buongusto di ripescare la cultura nell’Évare, insegnandoci che è con essa che la storia si scrive.
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¹ O livro das árvores, Ticuna, OGPTB – Organização Geral dos Professores Ticuna Bilíngües, 1997, traduzione dell’autrice.
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² Diretrizes para a política nacional de educação escolar indígena, Cadernos Educação Básica, Série Institucional, vol. 2, MEC, Brasília, 1993:16, traduzione dell’autrice.
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* Il brano “Magüta” è uno dei capitoli del libro Amazzone in tempo reale.
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** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i libri di racconti Amazzonia portatile, Amazzone in tempo reale (premio speciale della giuria per la Saggistica, del Premio Franz Kafka Italia 2013) e A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito Romanzo indigenista, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, AMAZZONIA – fratelli indios, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, La bottega del Barbieri, Pressenza, Euterpe.
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