• E. A. Poe – Lo scarabeo d’oro – testo – III parte

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    «A questo punto delle mie riflessioni, mi sforzai di ricordare, e riuscii a ricordare con estrema chiarezza, ogni incidente che si verificò in quell’occasione. Faceva piuttosto freddo (raro, felicissimo caso!), e il fuoco ardeva nel caminetto. Dopo la lunga camminata, mi sentivo accaldato, e stavo seduto vicino al tavolo. Voi, invece, avevate accostato la poltrona al camino. Proprio mentre vi allungavo la pergamena, e vi accingevate a esaminarla, entrò il mio terranova, Wolf, e vi appoggiò le zampe sulle spalle. Con la sinistra lo accarezzavate e cercavate di allontanarlo, mentre la destra, che teneva la pergamena, vi ciondolava tra le ginocchia, vicinissima al fuoco. A un certo momento, pensai che le fiamme arrivassero a lambirla, e fui lì lì per avvertirvi; ma, prima che potessi parlare, vi eravate tirato indietro ed eravate intento a esaminare la pergamena. Quando considerai tutti questi particolari, non dubitai per un solo istante che fosse stato il calore l’agente che aveva fatto apparire sulla pergamena il teschio che vi vedevo disegnato. Come ben sapete, esistono, e da tempo immemorabile, preparati chimici grazie ai quali è possibile scrivere su carta o pergamena in modo tale che i caratteri siano visibili solo se esposti all’azione del fuoco. Qualche volta si usa l’ossido di cobalto, sciolto nell’acqua regia e diluito con acqua quattro volte il suo peso, dà un color verde. Il cobalto puro, sciolto in spirito di nitro, dà un color rosso. Questi colori scompaiono dopo un tempo più o meno lungo, dopo che il materiale su cui si è scritto si raffredda, ma riappaiono se esposti di nuovo al calore.

     

    «Ora esaminai il teschio con la massima attenzione. I contorni esterni, i più vicini all’orlo della pergamena, erano molto più distinti degli altri. Era chiaro che l’azione del calore era stata imperfetta o ineguale. Accesi immediatamente il fuoco ed esposi la pergamena, in ogni sua parte, all’intenso calore della fiamma. Dapprima il solo effetto fu il rafforzarsi delle linee sbiadite del teschio; ma, insistendo nell’esperimento, nell’angolo del foglio diagonalmente opposto a quello in cui era disegnata la testa di morto, divenne visibile una figura che inizialmente supposi fosse quella di una capra. Un più attento esame, tuttavia, mi convinse che chi l’aveva disegnato aveva voluto raffigurare un capretto».

     

     

     

    «Ah, ah!», dissi io, «certo non ho alcun diritto di ridere di voi: tanto denaro, un milione e mezzo, è una faccenda troppo seria per scherzarci sopra… Ma non mi pare che stiate saldando il terzo anello della catena: non troverete un rapporto che sia uno tra i vostri pirati e una capra; i pirati, sapete, non hanno niente a che fare con le capre. I contadini, se mai …».

     

    «Ma se ho appena detto che non era la figura di una capra!».

     

    «E va bene, era quella di un capretto: la stessa cosa, più o meno».

     

    «Più o meno, ma non del tutto», disse Legrand. «Avrete forse sentito parlare di un certo capitan Kidd. lo interpretai subito il disegno come una specie di firma-rebus o geroglifica: kid, capretto; Kidd, il nome del pirata. Ho detto “firma”, giacché la sua posizione sulla pergamena suggeriva appunto quest’idea. La testa di morto, nell’angolo diagonalmente opposto, aveva, allo stesso modo, l’aria di un bollo, di un sigillo. Ma ero più che sconcertato per l’assenza di tutto il resto: il corpo, intendo, del documento che mi aspettavo. Il suo testo, insomma”.

     

    «Vi aspettavate, suppongo, di trovare una lettera tra il bollo e la firma».

     

    «Qualcosa del genere. Il fatto è che avvertivo, irresistibile, il presentimento di una imminente, straordinaria fortuna. Non saprei dire perché. Forse, dopo tutto, era un desiderio più che una vera convinzione; ma sapete, quelle assurde parole di Jupiter, che lo scarabeo fosse d’oro massiccio, avevano colpito, e profondamente, la mia fantasia. E poi quella serie di accidenti e di coincidenze, talmente straordinarie… Avete notato che tutti si verificarono nel solo giorno dell’anno in cui ha fatto freddo abbastanza da dover accendere il fuoco, e che senza quel fuoco, e senza l’intervento del cane nel momento stesso in cui irruppe nella stanza, non avrei mai notato la testa di morto, e di conseguenza non sarei mai entrato in possesso del tesoro».

     

    «Sì, ma continuate: sono tutto impazienza».

     

     

    «Bene, avrete sentito, naturalmente, delle molte storie che si raccontano, delle mille voci vaghe che corrono a proposito di denaro sepolto da qualche parte sulla costa atlantica da Kidd e dai suoi. Queste voci devono pur avere avuto qualche fondamento nella realtà. E il fatto che tali voci abbiano continuato a diffondersi per tanto tempo, ininterrottamente, si spiegava, a mio parere, con una sola circostanza: il tesoro sepolto era rimasto sepolto. Se Kidd avesse nascosto il suo bottino per qualche tempo, e poi l’avesse recuperato, queste voci non sarebbero arrivate fino a noi nella loro forma attuale, immutata nel tempo. Tenete presente che tutte le storie parlano di cercatori di tesori, non di scopritori di tesori. Se il pirata fosse tornato in possesso del suo denaro, la cosa sarebbe finita li. Pensai che un qualche accidente (la perdita, ad esempio, dell’appunto indicante la sua precisa ubicazione) l’avesse messo nell’impossibilità di recuperarlo, e che questo accidente fosse noto ai suoi compagni, i quali altrimenti non avrebbero mai potuto sapere che un tesoro era stato nascosto; erano stati loro, coi loro tentativi di ritrovarlo – tentativi affannosi ma vani, perché fatti alla cieca – a far nascere e poi a diffondere fino a renderle di pubblico dominio quelle voci ora tanto comuni. Avete mai sentito parlare di qualche grosso tesoro disseppellito lungo la costa?».

     

     

     

    «Mai».

     

    «Eppure è noto che Kidd aveva accumulato enormi ricchezze; perciò diedi per scontato che la terra le custodisse ancora, e forse non vi farà meraviglia se vi dico che sentivo in me una speranza, quasi una certezza, che quella pergamena così stranamente rinvenuta contenesse un appunto smarrito indicante il luogo in cui il tesoro era stato riposto».

     

    «Ma come avete proceduto?».

     

    «Attizzai il fuoco, ed esposi di nuovo la pergamena all’azione del calore; ma non apparve nulla. Pensai allora che forse lo strato di sudiciume che la rivestiva avesse qualcosa a che fare col mio insuccesso; così ripulii accuratamente la pergamena versandovi sopra dell’acqua calda. Fatto ciò, la posi in un tegame di stagno, con il teschio voltato in giù, e misi il tegame su un fornello acceso. Dopo pochi minuti, quando il recipiente si fu completamente riscaldato al fuoco della carbonella, tolsi il foglio, e con indicibile gioia lo trovai macchiato in parecchi punti da quelle che sembravano cifre ordinatamente disposte su righe. Riposi il foglio nel tegame, e ve lo lasciai un altro minuto. Quando lo tolsi di nuovo, si presentava così come potete vedere ora».

     

    E qui Legrand, dopo avere un’altra volta riscaldato la pergamena, la sottopose al mio esame. Fra il teschio e il disegno della capra, erano tracciati, in rosso, i seguenti segni:

     

    53‡‡†305))6*;4826)4‡.)4‡;806*;48†8960))85;1‡(;:‡*8†83(88)5*†;46 (;88*96*?;8)*‡(;485);5*†2: *‡(;4956*2 (5*-4)898*;40692 85);)6†8)4‡‡;1(‡9,48081;8:8‡1;48t85;4)485†528806*81 (‡9;4 8;(88;4 (‡?34;48)4‡;161;:188;‡?;

     

     

    «Ma», dissi io, restituendogli il foglio, «sono più all’oscuro; che mai. Se per la soluzione dell’enigma mi offrissero tutti i tesori di Golconda, sono certo che non riuscirei a guadagnarmeli».

     

    «Eppure», disse Legrand, «la soluzione non è per nulla difficile come la prima, frettolosa occhiata a questi segni potrebbe indurvi a credere. Questi segni, come ognuno può facilmente arguire, costituiscono un crittogramma: vale a dire, hanno un senso. Ma in base a quello che sapevo di Kidd, non me lo figuravo capace di costruire un crittogramma troppo astruso. Pertanto conclusi subito che questo doveva essere di una specie semplice, ma tale che il rozzo intelletto di un marinaio avrebbe giudicato assolutamente insolubile per chi ne ignorasse la chiave».

     

    «E voi l’avete risolto?».

     

    «Rapidamente; ne ho risolti altri diecimila volte più astrusi. Le circostanze, e una certa predisposizione mentale, mi hanno portato a interessarmi di indovinelli del genere, e dubito che l’ingegnosità umana possa costruire un enigma che l’ingegnosità umana, applicandosi a fondo, non possa risolvere. In effetti, una volta stabilita una serie di segni connessi e leggibili, la difficoltà di ricavarne il significato non mi preoccupava che molto relativamente.

     

    «Nel caso in questione, anzi, in tutti i casi di scrittura segreta, Il primo problema riguarda la lingua del cifrato, poiché i criteri della soluzione, specie per quanto riguarda le cifre più semplici, dipendono dal genio del particolare idioma e variano a seconda di esso. In genere non vi sono alternative; occorre solo sperimentare, basandosi sul calcolo delle probabilità, ogni lingua nota a colui che tenta la soluzione, finché venga trovata quella giusta. Ma, per quanto riguarda il nostro cifrato, la firma risolve ogni difficoltà. Il gioco di parole basato su Kidd non ha senso in nessuna lingua, tranne l’inglese. Non fosse stabilito per questa considerazione, avrei iniziato i miei tentativi con lo spagnolo e il francese, cioè dalle lingue in cui era più naturale che un pirata dei mari spagnoli avesse trascritto un segreto del genere. Stando così le cose, conclusi che il crittogramma fosse in inglese.

     

    «Come potete osservare, non ci sono divisioni tra parola e parola. Se ce ne fossero state, il compito sarebbe stato relativamente facile. In tal caso, avrei cominciato con il confronto e l’analisi delle parole più brevi e, se fosse capitata una parola di una sola lettera, come è più che probabile (a o I, per esempio), avrei considerato la soluzione come certa. Ma, mancando una divisione, mio primo passo fu di accertare quali lettere ricorressero con maggiore frequenza e quali con minore frequenza. Fatti i conti, compilai la seguente tabella:

     

    Il carattere 8 ricorre 33 volte

    » » ; » 26 »

    » » 4 » 19 »

    » » ‡ » 16 »

    » » ) » 16 »

    » » * » 13 »

    » » 5 » 12 »

    » » 6 » 11 »

    » » † » 8 »

    » » 1 » 8 »

    » » 0 » 6 »

    » » 9 » 5 »

    » » 2 » 5 »

    » » : » 4 »

    » » 3 » 4 »

    » » 3″ » 4 »

    » » ? » 3 »

    » » q » 2 »

    » » – » 1 »

    » » . » 1 »

     

    «Ora, in inglese la lettera che ricorre più frequentemente è la e. Seguono nell’ordine a o i d h n r s t u y c f g l m w b k p q x z. In ogni caso, la e predomina a tal punto, che è raro trovare una frase, di qualsiasi lunghezza, in cui essa non sia la lettera più frequente.

     

    «Già all’inizio, dunque, abbiamo il fondamento di qualcosa di più di una semplice congettura. È chiaro l’uso generale che si può fare della tabella, ma per quel che riguarda il nostro crittogramma, ci varremo solo in parte del suo ausilio. Poiché il segno predominante è 8, presupporremo, tanto per cominciare, che corrisponda alla e dell’alfabeto. Per verificare tale presupposto, vediamo se 8 si trova spesso in coppia, giacché in inglese le coppie di e sono assai frequenti, come per esempio nelle parole meet, fleet, speed, seen, been, agree ecc. In questo caso, lo ritroviamo raddoppiato ben cinque volte, sebbene il crittogramma sia breve.

     

    «Prendiamo dunque 8 come e. Ora, fra tutte le parole della lingua inglese, l’articolo the è la più frequente; vediamo perciò se non si presenti la ripetizione di tre caratteri, nello stesso ordine, l’ultimo dei quali sia 8. Se scopriamo tali ripetizioni, così ordinate, molto probabilmente rappresentano la parola the. Ora, se esaminiamo il cifrato, troviamo non meno di sette volte la serie ;48. Pertanto possiamo supporre che il segno ; rappresenti la lettera t, 4 la lettera h, e 8 la lettera e. Conferma, quest’ultima, della nostra ipotesi: e con ciò abbiamo fatto un gran passo avanti.

     

    «Ma avendo stabilito una parola, siamo in grado di stabilire un punto di estrema importanza: vale a dire, la fine e l’inizio di parecchie altre parole. Prendiamo, ad esempio, il penultimo caso in cui si presenta la serie ;48, non lontano dalla fine del testo. Noi sappiamo che il segno ; che segue immediatamente è l’inizio di una parola, e dei sei segni che seguono questo ;48 ne conosciamo cinque. Trascriviamo questi segni così, con le lettere che sappiamo li rappresentano, lasciando uno spazio vuoto per la lettera incognita:

     

    t eeth.

     

    «Qui possiamo scartare subito il th che non fa parte della parola che incomincia con la prima t; giacché, provando con tutto l’alfabeto alla ricerca di una lettera che possa colmare la lacuna, ci accorgiamo che è impossibile comporre una parola di cui questo th faccia parte. Dovremo dunque limitarci a:

     

    t ee,

     

    e, ripassando l’alfabeto, se necessario, come già abbiamo fatto, arriviamo alla parola tree (“albero”) come unica versione possibile. In tal modo otteniamo un’altra lettera, r, rappresentata da più due parole giustapposte: the tree.

     

    «Se guardiamo un po’ più avanti, dopo queste parole, ritroviamo la combinazione ;48, che usiamo come terminazione di quanto immediatamente precede. Ne risulta, in quest’ordine:

     

    the tree;4(‡?34 the

     

    o, sostituendo le lettere rispettive quando esse ci siano note:

     

    the tree thr…‡? 3h the.

     

    «Ora, se al posto dei segni che non conosciamo, lasciamo degli spazi vuoti, o mettiamo dei puntini, leggiamo:

     

    the tree thr… h the,

     

    da cui risulta evidente la parola through (“attraverso”). Ma questa scoperta ci fornisce tre nuove lettere: o, u, e g, rappresentate da ‡, ?, e 3.

     

    «Se ora esaminiamo attentamente il testo, in cerca di combinazioni di segni già noti, troviamo, non molto dopo l’inizio, questa serie:

     

    83(88, cioè egree,

     

    che è, ovviamente, la terminazione della parola degree (“grado” e che ci dà un’altra lettera, d, rappresentata da t.

     

    «Quattro lettere dopo la parola degree, troviamo la serie

     

    ;46(;88.

     

    Traducendo i segni noti, e rappresentando i segni ignoti con puntini, come in precedenza, leggiamo:

     

    th. rtee.,

     

    serie che immediatamente ci suggerisce la parola thirteen (“tredici”) e che ci fornisce altre due lettere, i e n, rappresentate da 6 e da *.

     

    «Riportandoci ora all’inizio del crittogramma, troviamo la combinazione

     

    53 ‡‡†

     

    Traducendo come prima, otteniamo

     

    good (“buono”),

     

    che ci dà la certezza che la prima lettera è a, e che le due prime parole sono A good (“Un buon”).

     

    «Ad evitare confusioni, dobbiamo ora disporre per ordine in una tabella tutte le “chiavi” finora trovate. E la tabella è questa:

     

    5 rappresenta a

     

    † » d

    8 » e

    3 » g

    4 » h

    6 » i

    * » n

    ‡ » o

    ( » r

    ; » t

    ? » u

     

    «Vi troviamo rappresentate non meno di undici delle lettere più importanti; mi sembra perciò superfluo, per quanto riguarda la soluzione, entrare in altri dettagli. Ho detto abbastanza per convincer-vi che crittogrammi di questa natura sono di agevole soluzione, e per darvi un’idea del carattere razionale del procedimento. Ma tenete presente che il crittogramma che abbiamo davanti appartiene alla specie più semplice. Non mi resta ora che darvi la traduzione completa del testo della pergamena, come l’ho decifrato. Eccolo:

     

    («”A good glass in the bishop’s hostel in the devil’s seat twenty-one degrees and thirteen minutes northeast and by north main branch seventb limb east side shoot from the left eye of the death’s head a beeline from the tree through the shot fifty feet out” (“Un buon vetro nell’ostello del vescovo sulla sedia del diavolo ventun gradi e tredici minuti nord-est quarta di nord tronco principale settimo ramo lato est calare dall’occhio sinistro della testa di morto una linea d’ape dall’albero attraverso la palla cinquanta piedi in là”)».

     

    «Ma», dissi io, «l’enigma mi sembra ancora più oscuro che mai. Come è possibile ricavare un significato da questo gergo assurdo a base di “sedia del diavolo” e “testa di morto” e “ostello del vescovo”?».

     

    «Ammetto», rispose Legrand, «che se esaminata superficialmente, la faccenda può sembrare ancora alquanto confusa. Il mio primo tentativo fu quello di ridare al periodo le divisioni primitive, secondo le intenzioni del crittografo».

     

    «Volete dire, dargli una punteggiatura?».

     

    «Qualcosa del genere».

     

    «Ma come ci siete riuscito?».

     

    «Ho riflettuto che il crittografo aveva scritto intenzionalmente le parole senza divisioni, per renderne più difficile la soluzione. Ora, un uomo di ingegno non troppo sottile nel far ciò avrebbe quasi sicuramente esagerato. Quando, scrivendo, fosse arrivato la dove fosse stata necessaria una pausa, o un punto, sarebbe stato irresistibilmente portato a giustapporre i caratteri più fittamente del consueto. Se, alla luce di questo presupposto, osservate il manoscritto, troverete facilmente cinque casi del genere, in cui le lettere sono anormalmente accostate. In base a questo indizio, ho apportato le seguenti divisioni:

     

    «”A good glass in the bishop’s hostel in the devil’s seat – fortyone degrees and thirteen minutes – northeast and by north – main branch seventh limb east side – shoot from the left eye of the death’s head – a bee-line from the tree through the shot fifty feet out” (“Un buon vetro nell’ostello del vescovo sulla sedia del diavolo – quarantun gradi e tredici minuti – nord-est quarta di nord – tronco principale settimo ramo lato est – calare dall’occhio sinistro della testa di morto – una linea d’ape dall’albero attraverso la palla cinquanta piedi in là”)».

     

    «Anche questa divisione», dissi, «continua a lasciarmi all’oscuro».

     

    «Lasciò anche me all’oscuro», replicò Legrand, «per qualche giorno; nel frattempo feci diligente ricerca, nei pressi dell’Isola di Sullivan, di un qualche edificio noto col nome di “castello del vescovo”, poiché, naturalmente, l’altro termine, “ostello” era ormai desueto. Non avendo raccolto alcuna informazione in proposito, stavo per estendere il raggio delle mie ricerche e procedere in modo più sistematico, quando, una mattina, mi balenò l’idea che questo “ostello del vescovo” potesse avere qualche rapporto con una vecchia famiglia di nome Bessop che, in tempi andati, aveva posseduto un antico maniero, circa a quattro miglia a nord dell’isola. Mi recai pertanto alla piantagione e ripresi le mie indagini tra i negri più vecchi del posto.

     

    Finalmente una delle donne più anziane disse di aver sentito nominare un luogo chiamato Bessop’s Castle (“Castello dei Bessop) e che forse mi ci poteva guidare lei stessa; solo non era un castello, né una locanda o ostello, ma un’alta rupe.

     

     

    «Mi offrii di ricompensarla lautamente per il suo disturbo, e dopo qualche esitazione acconsentì ad accompagnarmi sul posto. Lo trovammo senza difficoltà; poi, congedata la donna, presi ad esaminare la località. Il “castello” consisteva di un ammasso irregolare di picchi e rocce, una delle quali spiccava sia per la sua altezza sia per la sua collocazione isolata e un che di “artificiale” nell’aspetto. Mi arrampicai fino alla cima e mi ci soffermai, più che mai perplesso sul da farsi.

     

    «Mentre ero immerso nelle mie riflessioni, l’occhio mi cadde su di una stretta sporgenza sul lato orientale della roccia, forse una yarda al di sotto della sommità su cui stavo. La sporgenza era di circa diciotto pollici e non era più larga di un piede; una nicchia, nella roccia sovrastante, la faceva vagamente rassomigliare a una di quelle sedie a schienale ricurvo, quali usavano i nostri antenati. Non ebbi il minimo dubbio: quella era la “sedia del diavolo” cui si alludeva nel manoscritto, e mi parve ormai d’aver colto il segreto dell’enigma.

     

    «II “buon vetro”, lo sapevo, non poteva riferirsi che a un cannocchiale; poiché il termine glass (“vetro”) di rado è usato in un altro senso dagli uomini di mare. Ora, capii subito, si doveva usare un cannocchiale, usarlo da un preciso angolo visivo che non ammetteva la minima variazione. Né esitai a credere che le frasi “quarantun gradi e tredici minuti” e “nord-est quarta di nord” indicassero la direzione in cui puntare il cannocchiale. Tutto eccitato per queste scoperte, mi precipitai a casa, mi procurai un cannocchiale e tornai alla roccia.

     

    «Mi calai sulla sporgenza, e mi accorsi subito che era impossibile starvi seduti se non in un’unica, particolare posizione, il che veniva a confermare la mia ipotesi. Ricorsi allora al cannocchiale. Naturalmente i “quarantun gradi e tredici minuti” potevano indicare solo l’elevazione al di sopra dell’orizzonte visibile, giacché la direzione orizzontale era data chiaramente dalle parole “nord-est quarta di nord”. Con una bussola tascabile stabilii subito quest’ultima posizione; poi, puntando il cannocchiale a un angolo il più vicino possibile ai quarantun gradi di elevazione, calcolati approssimativamente, lo spostai cautamente ora in su ora in giù finché la mia attenzione non fu attirata da uno squarcio o apertura circolare nel fogliame di un grande albero che in lontananza sovrastava tutti gli altri. Nel centro dell’apertura scorsi una macchia bianca, ma dapprima non potei distinguere di che si trattasse. Misi a fuoco il cannocchiale, guardai di nuovo, e allora capii che si trattava di un teschio umano.

     

    «A questa scoperta, mi sentii così fiducioso che conclusi di avere ormai risolto l’enigma; poiché la frase “tronco principale settimo ramo lato est” poteva riferirsi solo alla posizione del teschio sull’albero, mentre “calare dall’occhio sinistro della testa di morto” ammetteva anch’essa una sola interpretazione, se riferita alla ricerca di un tesoro sepolto. Capii che bisognava lasciar cadere o calare una palla di fucile attraverso l’occhio sinistro del teschio, e che una “linea d’ape”, cioè una linea retta, tracciata dal punto più vicino del tronco attraverso la “palla”, vale a dire dove la palla di fucile fosse caduta, e di qui prolungata per cinquanta piedi, avrebbe indicato un punto preciso; e al di sotto di questo punto, pensavo, era almeno possibile che giacesse sepolto un prezioso bottino”.

     

    «Tutto ciò», dissi, «è chiarissimo, e sebbene ingegnoso, è anche semplice ed evidente. E dopo che lasciaste l’ostello del vescovo?».

     

    «Be’, dopo aver preso accuratamente nota della posizione dell’albero, me ne tornai a casa. Ma nell’istante stesso in cui lasciai la “sedia del diavolo”, l’apertura circolare scomparve, né poi riuscii più a scorgerne traccia, da qualunque parte mi voltassi. Era questa, a mio avviso, la massima sottigliezza di tutto quanto il piano: il fatto (poiché ripetute prove mi hanno convinto che si tratta di un fatto) che l’apertura circolare in questione non sia visibile da alcun altro angolo visivo che non sia quello consentito dall’angusta sporgenza della parete rocciosa.

     

    «In questa spedizione all’ostello del vescovo ero stato accompagnato da Jupiter, che senza dubbio da qualche settimana teneva d’occhio il mio contegno assorto e distratto e faceva di tutto per non lasciarmi solo. Ma il giorno dopo mi levai di buon’ora e, elusa la sua sorveglianza, andai alle colline in cerca dell’albero. Faticai molto a trovarlo, ma infine ci riuscii. Quando a notte rientrai a casa, il mio servitore voleva prendermi a legnate. Quanto al resto dell’avventura, credo che lo conosciate quanto me”.

     

    «Suppongo», dissi, «che al nostro primo tentativo di scavo non siate riuscito a localizzare il punto a causa dello sciocco errore di Jupiter, che lasciò cadere lo scarabeo dall’occhio destro del teschio invece che dal sinistro».

     

    «Proprio così. L’errore comportava una differenza di circa due pollici e mezzo nella “palla”, vale a dire nella posizione del piolo più vicino all’albero. Ora, se il tesoro fosse stato proprio sotto la “palla”, l’errore sarebbe stato trascurabile; ma tanto la palla” che il punto più vicino all’albero erano solo due punti per stabilire una linea di direzione, e naturalmente l’errore, minimo all’inizio, cresceva col prolungarsi della linea, per cui, arrivati a cinquanta piedi, eravamo completamente fuori strada.

     

    Se non fosse stato per quella mia idea fissa che il tesoro doveva trovarsi veramente sepolto lì vicino, tutte le nostre fatiche sarebbero state vane”.

     

    «Ma la vostra magniloquenza, quel vostro modo di far roteare lo scarabeo… che bizzarria! Ero certo che foste impazzito. E perché poi avete insistito a far calare lo scarabeo, anziché una pallottola?».

    «Ecco, a esser franco, ero alquanto seccato dal vostri più che palesi sospetti sulla mia sanità mentale, e così decisi di punirvi senza chiasso a modo mio, con un pizzico di calcolatissima mistificazione. Per questa ragione feci roteare lo scarabeo, per questa ragione lo feci calare dall’albero. Foste voi a darmene l’idea con la vostra osservazione sul singolare peso dell’insetto».

     

    «Capisco. Ma c’è un ultimo punto che ancora mi lascia perplesso. Come spiegare il fatto degli scheletri trovati nella buca?».

     

    «È un problema, questo, cui non saprei rispondere più di voi. Forse c’è un modo plausibile, uno solo, di spiegarlo… e tuttavia e terribile pensare a tanta atrocità, quella che la mia ,ipotesi presuppone. È chiaro che Kidd (se fu Kidd a nascondere il tesoro, cosa di cui non dubito) deve essersi avvalso, in quel lavoro, dell’aiuto di qualcuno. Ma terminata la fase più faticosa, Può aver giudicato opportuno eliminare quanti erano al corrente del suo segreto. Forse bastarono un paio di colpi di vanga, mentre i suoi aiutanti erano ancora intenti al lavoro dentro la fossa; forse ne occorsero una dozzina. Chi potrà mai dirlo?».

     

    F I N E

     

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