• L’incontro tra Jean-Paul Sartre e Andreas Baader – Una pagina inedita del terrorismo tedesco

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    Pubblichiamo l’articolo di Andrea Tarquini in cui si narra dell’incontro che Sartre ebbe con il terrorista della RAF Andreas Baader. Il racconto di Tarquini a mio giudizio è foderato di imprecisioni, omissioni e interpretazioni dei fatti storici che lasciano quantomeno allibiti. C’è in questo articolo l’ennesimo tentativo di mitizzare l’immagine di Sartre, e una visione acritica sulla morte di alcuni  componenti dalla banda Baader-Meinhof.

     

    I miei commenti a fine articolo.

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    Giulia De Baudi

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     Andreas Baader (25) und Gudrun Ensslin in der Anklagebank vor der Urteilsverkuendung im Brandstifter-Prozess in Frankfurt am 31. Oktober 1968. Die zwei Angeklagten erhielten je Drei Jahre Zuchthaus.  (AP-Photo) 31.10.1968

     Una pagina sconosciuta della storia degli anni Settanta.

    di Andrea Tarquini

    E Sartre disse a Baader “Basta con il terrorismo”

    Già anziano e pieno di dubbi, ma carico di prestigio, il grande intellettuale critico della gauche tentò di fermare il partito armato, e di redimere l’artefice degli Anni di piombo. Andò apposta a trovarlo nel carcere di massima sicurezza di Stammheim presso Stoccarda, ma non riuscì a fargli cambiare idea.

    Ripartì celando dietro dichiarazioni ufficiali contro la repressione la sua delusione profonda, e tenendosi dentro il senso di sconfitta. Sembra un film, invece è una storia vera, top secret fino a ieri. L’eroe sconfitto e l’antieroe caparbio, si chiamavano Jean-Paul Sartre e Andreas Baader.

    Accadde il 4 dicembre 1974. Quasi quarant’anni dopo, i protocolli segreti di quel colloquio in carcere sono stati resi pubblici. Sono un documento storico, rivelato da Der Spiegel, che ha ottenuto dalle autorità la trascrizione pressoché integrale del colloquio, stilata con diligenza e persino con precise annotazioni sugli umori dei due, da parte dei poliziotti presenti.
    «Le masse, guardiamo alle masse», esordì l’autore de La nausea, Critica della ragione dialettica, Situazioni e di tanti testi-chiave della cultura contemporanea. «La Rote Armee Fraktion ha intrapreso azioni con cui il popolo non era d’accordo». Un j’accuse e un monito chiaro, contro la scelta della lotta armata e del terrorismo in una democrazia. Baader rispose arrogante e impassibile: «È stato constatato che il venti per cento della popolazione simpatizza con noi».
    L’idea dell’incontro era venuta a Ulrike Meinhof, la pasionaria delle Br tedesche. Sperava che il grande Sartre, già prigioniero della Wehrmacht e resistente*, vedesse nella Repubblica federale uno Stato-erede del Reich e nei terroristi quasi una reincarnazione dei partigiani. Ma il muro dell’incomprensione si levò subito tra i due. «So di quelle statistiche», replicò Sartre, «sono state pubblicate ad Amburgo». Baader s’illuse di averlo convinto, e partì alla carica: «La situazione in Germania dipende da piccoli gruppi, nella legalità e nell’illegalità».

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    Immediata, dura e chiarissima venne la risposta di Sartre: «Queste azioni sono giustificabili in Brasile (dove allora era al potere una brutale dittatura militare, ndr), ma non in Germania». Perché mai?, chiese Baader infastidito e sorpreso. «In Brasile », rispose il premio Nobel, «singole azioni sono state necessarie per cambiare la situazione, quelle azioni sì che furono il necessario lavoro di base».

    Baader, annotarono i poliziotti, appariva sempre più irritato. Perché qui è diverso?, domandò. «Qui non c’è il tipo di condizione del proletariato che c’è in Brasile», tentò di convincerlo Sartre. Il terrorista allora divenne ostile. Ricordò (nelle comode celle d’isolamento lui e gli altri avevano radio e tv) che Sartre aveva appena definito “un crimine” l’assassinio di un giudice a Berlino da parte dei terroristi. «Pensavo che lei fosse venuto come amico, non come giudice ».«Voglio discutere con lei dei vostri princìpi», tentò ancora Sartre, «Difficile», ribatté il terrorista. Poi, annotarono i poliziotti, prese a leggere più volte frasi fatte di un suo comunicato di tre pagine dattiloscritto. «Il processo obiettivo attraversa contraddizioni… nell’offensiva la sinistra in Germania è accerchiata e isolata, la annienteranno… lo stato d’emergenza è in preparazione, l’offensiva contro di noi non è visibile, gli strumenti del capitalismo sembrano naturali; la politica del nemico di classe…».

    A quel punto Sartre lo interruppe, con un soprassalto: «Scusi, non riesco capire, che vuol dire “la politica del nemico di classe?”». Tentativo inutile. Baader tornò a leggere, parlò di «due linee, la frazione del Capitale e quella del debole riformismo… noi vediamo la possibilità di una dittatura strisciante, ecco la speciale situazione tedesca, il capitalismo Usa impone la sua politica». Nello scarno locale per i colloqui strettamente sorvegliati a Stammheim, si respirava sempre più un’atmosfera di dialogo tra sordi. Sartre ripeté con la massima chiarezza: «Guardi, le azioni della Rote Armee Fraktion non raccolgono nessuna eco nella Repubblica federale. Attacchi armati sono certamente giusti in paesi come il Guatemala, ma non qui».

    Baader rispose con una provocazione, gli suggerì di creare gruppi armati in Francia. «Eh no, non credo proprio che il terrorismo sarebbe una cosa buona per la Francia», replicò Sartre. Baader, annotarono i poliziotti, si mostrò deluso, aveva sperato in un appoggio di Sartre al partito armato.

    Il visitatore da Parigi se ne andò in silenzio, alla conferenza stampa si limitò a criticare la “inumana” detenzione in isolamento di Baader e degli altri terroristi. La stampa tedesca sparò a zero su di lui. Baader, Gudrun Ensslin e gli altri capi storici della Raf morirono suicidi in cella il 18 ottobre 1977 dopo il blitz antiterrorismo contro il jet Lufthansa dirottato a Mogadiscio per ottenere la loro liberazione.

    L’ultrasinistra parlò di omicidio, ma i loro avvocati — disse l’inchiesta — avevano procurato loro le armi per uccidersi. Sartre scomparve tre anni più tardi, all’apice della gloria, senza mai narrare a nessuno quel suo disperato tentativo di risparmiare all’Europa gli anni di piombo del partito armato.

    (da: La Repubblica del 4 febbraio 2013)

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    Commento all’articolo di Giulia De Baudi

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    «…il grande Sartre, già prigioniero della Wehrmacht e resistente»: dal modo in cui delinea la “storia” del filosofo francese, appare evidente che Andrea Tarquini è pronto a giurare sull’immaginetta votiva di San Sartre Martire posizionata sul cruscotto del proprio immaginario.

    Ma non è tutta colpa sua visto che l’agiografia dell’autore de La nausea, a tutt’oggi, dipinge Sartre come il modello dell’intellettuale resistente. In realtà il suo atteggiamento durante la Resistenza rimane ancora oscuro e ambiguo. Incarcerato dai tedeschi ma liberato in circostanze tutte da chiarire, al suo ritorno dalla prigionia nella Parigi occupata dai nazisti, Sartre fonda insieme ad altri artisti ed intellettuali il gruppo Socialismo e libertà. Questa associazione si limita ad un diafano impegno politico che si svolge esclusivamente in un ristrettissimo ambiente intellettuale. Come dire che se la cantavano e se la suonavano da soli.

    Accanto a questa evanescente presa di posizione , altri episodi ci danno un bilancio piuttosto modesto, e in ogni caso controverso, della sua cosiddetta Resistenza: la sua pièce Le mosche, viene accettata dalla censura nazista e messa in scena nel 1943 alla presenza di militari tedeschi, in un teatro il cui nome è stato “arianizzato”. L’intento della messa in scena era , solo secondo Sartre, quello di spingere alla resistenza i parigini. Nessuno però se ne rese conto, forse il messaggio fu poco chiaro!!!

    Il sospetto di qualunquismo da parte di Sartre negli anni della Resistenza è molto forte. L’unico suo interesse fu per la carriera, tant’è che nel 1941 accetta la cattedra di letteratura al posto di un professore ebreo espulso dall’Università.

    Paragonata alla Resistenza armata di altri filosofi come Canguilhem, rimasto ferito, Cavaillès, fucilato, o al suo stesso amico Nizan, ucciso anch’esso, o alla Resistenza decisamente più attiva e rischiosa di Albert Camus, l’impegno politico di Sartre contro l’occupazione appare ridicolo.

    Quegli anni puzzano di collaborazionismo ma, all’indomani della Liberazione, Sartre fu lesto a salire sul carro dei vincitori tanto da venire celebrato come un eroe della Resistenza francese.

    La vita privata di Sartre è ancor più desolante del suo engagement e ed è più vicina all’immagine di uno squallido collaborazionista.

    Basti pensare che nel 1977 fece parte di un folto gruppo di “intellettuali” francesi  che  firmarono un famoso manifesto in cui – in nome della «liberazione sessuale» — esigevano la depenalizzazione dei rapporti con minori, bambini compresi. Oltre a Sartre i firmatari più famosi furono Simone de Beauvoir, Michel Foucault, Jack Lang; Louis Aragon, Roland Barthes.

    Il rapporto di Sartre con la De Beauvoir fu quantomeno perverso: Sartre era solito deflorare le vergini che la Bella Simone sceglieva tra le sue allieve del liceo, seduceva safficamente e poi le passava all’idolo dell’esistenzialismo francese. La storia tragica di una di queste ragazze la potete leggere QUI.

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    Ulrike Meinhof in un’immagine del 1964

    Un’altra inesattezza storica, in odore di negazionismo, che Andrea Tarquini compie in questo articolo è quella sul “suicidio” di Ulrike Meinhof, Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe. Scrive Tarquini «L’ultrasinistra parlò di omicidio, ma i loro avvocati — disse l’inchiesta — avevano procurato loro le armi per uccidersi». Certo il giornalista di repubblica si trincera dietro l’informazione ufficiale senza dire che era impossibile far entrare in quel carcere anche una sola pagliuzza di fieno.

    Irmgard Möller l’unica che, che nonostante alcune ferite di arma da taglio, sopravvisse all’eccidio, è autrice di un libro nel quale smentisce la versione di Stato sul “suicidio collettivo”.

    Chiarite queste due mancanze possiamo dire a Tarquini che probabilmente  per lui è più facile credere ai dogmi della Ragion di Stato che dubitare e cercare più a fondo.

    11 febbraio 2013

    18 maggio 2016

    Aggiungo un brano tratto da un’intervista di Ron Augustin alla sorella di Ulrike Meinhof , Wienke, pubblicata sul Il manifesto il 10.5.16, che conferma le mie intuizioni di 3 anni fa.

    (…) Ulrike mi aveva detto chiaramente, quando ancora si trovava a Colonia-Ossendorf: «Se muoio in carcere, vuol dire che mi hanno uccisa; io non mi ammazzerò mai».(…) Le conclusioni della Commissione internazionale d’inchiesta, presentate in una conferenza stampa a Parigi nel 1979, avevano rivelato tali contraddizioni all’interno dei rapporti ufficiali per cui ogni sforzo risultava orientato a occultare la vicenda. Non voglio entrare nei dettagli per l’ennesima volta, ma Ulrike si sarebbe impiccata alle sbarre di una finestra che si trovavano dietro una spessa lastra metallica. Le foto della polizia mostrano che il suo piede sinistro era ancora appoggiato su una sedia quando fu trovata. La corda alla quale era appesa era così fragile e lunga che avrebbe dovuto rompersi, o la testa avrebbe dovuto scivolare fuori nel salto. L’assenza di sanguinamento e altri indizi sembravano indicare un intervento esterno, e la Commissione internazionale di inchiesta concluse che mia sorella doveva già essere morta quando fu impiccata. Posso fare ipotesi. Ma c’era una scala di soccorso del tutto indipendente dal circuito carcerario, che dall’esterno portava vicino alla sua cella, al settimo piano. Chiunque avrebbe potuto arrivarci.
    Come sei venuta a sapere della sua morte? Hai potuto vederla ancora?
    Il 9 maggio alle 9 del mattino i mezzi di informazione riferivano che Ulrike si era suicidata. Con l’avvocato Axel Azzola mi precipitai a Stammhein. Al nostro arrivo il corpo era già stato portato via. Gudrun Ensslin avrebbe voluto vederla, ma il procuratore federale non glielo permise. Io dovetti identificarla prima dell’autopsia, ma a parte questo non ci fu un’altra occasione.(…)

    Nelle foto potete vedere alcuni esponenti della RAF (Rote Armee Fraktion) e le loro gesta criminali compiute con assoluta anaffettività.

    • Ahhhhhhhhhhh respiro.Ho scoperto per caso questa pagina mentre cercavo articoli su Ulrike. Finalmente qualcuno che la pensa come me su Sartre! Grazie!

      • Già, proprio un bel tipo se vuoi altre notizie su di lui , vai su Google scrive -I giorni e le notti Sartre – e ne vedrai delle belle

        Grazie
        Giulia D.B.

    • A me piace la filosofia di Sartre e quelle ragazze non erano obbligate ad andarci a letto, lo facevano perché gli piaceva il carisma del filosofo.

    • Un autore si contsta sulla filosofia, non sulla sua vita privata. Le critiche si fanno a “L’esistenzialismo è un umanismo”, “L’Essere e il nulla”, ecc. non su “Sartre e le minorenni”.

      • Non sono d’accordo: vedi caso Heidegger

        G.C.Z.

        • Heidegger si giudica su quello che ha scritto, non su quello che ha fatto o non fatto. Come anche Céline. Uno scrittore (o un autore) può essere anche un ripugnante essere umano, ma di lui contano le opere. Definire “feccia dell’umanità” due filosofi in base alla loro vita privata o presunte idee politiche non è intellettualmente giusto.
          Si può criticare la vita di uno scrittore, ad esempio Céline era un filo-nazista, ma non si può usarla per demolirne l’opera in toto.

          • ripeto non sono d’accordo sulla scissione tra identità umana e opera letteraria soprattutto se filosofica . Ho letto Celine non mi piace ho letto Heidegger mi fa orrore: questa idea dell’essere per la morte è un’antica idea cristiana . Poi adesso dopo la pubblicazione dei Quaderni Neri …se vuoi sapere come la penso su Heideggere leggi qui http://www.igiornielenotti.it/?p=27037

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