• Interviste storiche: Lester Bangs intervista Lou Reed

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    “Tu te lo sei fottuto?” Lou Reed e Lester Bangs

    Ieri Lou Reed è morto.

    Non esiste un paradiso rock’n’roll. Ma se esistesse, appena congedato il ragazzo dell’ascensore, Reed avrebbe trovato ad accoglierlo il rompiscatole di sempre. Lester Bangs. Eccola, la celebre (la moneta vera e falsa del rock tradurrebbe: leggendaria) intervista uscita su «Creem» nel 1975 e pubblicata da minimum fax in Guida ragionevole al frastuono più atroce.

     

    La traduzione è di Anna Mioni. In neretto le risposte di Lou Reed.

     

    Lou ha cominciato con un complimento sarcastico che a metà strada si è trasformato in un insulto complimentoso: “Sai che sostanzialmente mi stai simpatico, anche se non vorrei. Il buonsenso mi porta a credere che tu sia un idiota, ma chissà come le uscite epistemologiche che fai ogni tanto tradiscono il fatto che sei un po’ onomatopeico, in modo viscido e sotterraneo”.

     

    LB “Dio Bono Lou, sembri proprio Allen Ginsberg!”. Ho detto io entusiasta.

     

     LR “E tu sembri proprio suo padre. Dovresti fare come Peter Orlovsky e andare a fare l’elettroshock. Non ne capisci niente di più di quando hai iniziato. Sei come un cane che si morde la coda”.

     

    Accidenti, ha messo a segno il primo gancio sinistro prima di me.

     

    “Stavo per dirti la stessa cosa! Non ti senti mai una caricatura di te stesso?”

     

     “No. Mi ci sentirei se dessi retta a voi stronzi. Siete dei fumetti”.

     

    “Va bene, non mi dà fastidio essere un fumetto”, esclamo io, sorpreso, perdendo terreno sempre di più, “TRANSFORMER era un fumetto che ha superato se stesso”.

     

    Mi ha detto di chiudere il becco e ce ne siamo stati lì seduti a fissarci come due vecchiacci davanti a una sputacchiera.

     

    Ho chiamato a raccolta la mia spacconeria e gli ho detto: “Ok, ora decidiamo se vogliamo parlare di te o di me”.

     

     “Di te”.

     

    “Va Bene. Comincia tu”.

     

     “Ok… mmm… secondo te chi vince il campionato di baseball?”

     

    Io non so un cazzo di sport. “Ho visto Bowie l’altra sera”, ho detto.

     

     “Buon per te. Io credo sia una cosa penosa”.

     

    “Ovviamente ti ha fregato tutti i riff”.

     

    Speravo che questo scatenasse la competizione, anche se in realtà volevo dire ben di più di quello che ho detto. Andate a prendere la vostra copia di ROCK DREAMS e lo vedrete proprio là, il Mito: Lou Reed che sembra più giovane, innocente, che si tormenta il labbro con gli occhi sgranati immerso nelle nebbie del Quaalude, mentre Bowie sta appostato dietro di lui, in puro stile Lugosi, con gli occhi lucidi pronto a colpire.

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    Lou non ha abboccato: “Tutti fregano i riff. Anche tu li freghi. David ha scritto canzoni bellissime”.

    “Ma daai”, ho gridato io con tutto il fiato che avevo in corpo, “sono capaci tutti di scrivere canzoni bellissime! Sam The Sham scriveva delle canzoni bellissime! David ha mai scritto niente di meglio di ‘Wooly Bully?’”

     

     “Hai mai sentito THE BEWLAY BROTHERS testa di cazzo?”

     

    “Sì, stronzo, li ho ascoltati quei cazzo di testi, bastardo”.

     

     “Citami un pezzo del testo di quella canzone”.

     

    “Non l’ho ascoltata l’ho solo sentita… ma quello che vorremmo sapere di Bowie io e milioni di fan in tutto il mondo è: prima te, poi Jagger, poi Iggy. Ma cosa diavolo ha di speciale?”

     

     “Jagger e Iggy?”

     

    “Sì lo sai che si fotte tutti nel giro del rock. È una groupie più scatenata di Jann Wenner!”

     

    Lui resta impassibile. “Ma è lui che si fa fottere”.

     

    “Tu te lo sei fottuto?”

     

    Tutta spacconeria. Ma è come fare una corrida su un campo da pallamano.

     

     “Lui si sta fottendo con le sue stesse mani. Ma non lo sa”.

     

    Pari e patta. Un sordo ronzio vibrante.

     

    Ho pensato che forse era meglio cambiare argomento. Dietro il letto di Lou c’era un registratore da cui usciva un flusso incessante di quella musicaccia funky noiosa a base di sintetizzatori che fa Herbie Hancock.

     

    “Ehi Lou, perché non spegni quella robaccia jazz?”

     

     “Non è robaccia jazz, e comunque tu non ci capisci niente”.

     

    “Ti dico che…”

     

     “Non lo sai non l’hai mai ascoltata”.

     

    “…che Bowie”, e qui mi sono messo a cantare con forte voce baritonale alla Ezio Pinza, “ha fregato tutta la sua roba decente a voi, a te e a Iggy!”

     

     “E Iggy cosa c’entra?”

     

    “Eravate voi gli originali!”

     

     “Quali originali?”

     

    Ho continuato con Iggy e Bowie, e lui mi ha sorpreso con una critica a Pop del tutto inaspettata:

     

    “David ha cercato di aiutarlo. David ha talento e Iggy è… stupido. È dolcissimo ma è stupidissimo. Se avesse dato retta a me o a David, se ci avesse chiesto consigli qualche volta… Gli avrei detto: ‘Basta che fai un passaggio di prima-quinta e il resto te lo metto su io. Puoi prenderti tutto il merito. È semplicissimo, ma se lo fai come adesso fai la figura dell’idiota. E succederà sempre più spesso’. Non gli riesce bene neanche di imitare Jim Morrison al suo peggio, e già lui non era proprio un granché…”

     

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    Iggy un idiota. Detto dall’uomo che ha fatto ridere i polli in due interi continenti per due anni con TRANSFORMER e BERLIN.

     

    Ho deciso che ne avevo abbastanza di quelle cazzate, così ho continuato come un bulldozer: “Ti sei fatto una pera di anfetamine stasera prima di salire sul palco?”

     

    Lui ha finto di essere sinceramente sorpreso…

     

    “Se mi sono fatto una pera di anfetamine? No. Le anfetamine ti uccidono. Non mi faccio di anfetamine”.

     

    E questo ha scatenato sostanzialmente lo stesso discorso che Lou mi ha fatto una volta con i Velvet al Whisky nel 1969… ma ora è passato ai dettagli clinici.

     

    “Sarebbe meglio se definissi i termini che usi. Che tipo di anfetamina ti fai: metedrina idrocloride, anfetamina idrocloride, quanti milligrammi…?”

     

    Il predicozzo farmaceutico aveva preso l’abbrivio, e io potevo solo ridacchiare, sarcastico.

     

    “Cazzo, amico, io mi facevo le pere di Obetrol!”

     

    “Col cazzo che ti facevi le pere di Obetrol!”

     

    Lou ora stava andando su di giri, si stava infervorando su quell’argomento. Voleva sferrare il colpo decisivo. Ora ti smaschero pischello che non sei altro.

     

    “Saresti morto, ti saresti ucciso. Forse come un deficiente non le hai nemmeno fatte passare attraverso il cotone. Potevi beccarti una cancrena in quel modo…”

     

    Poi mi ha incalzato di nuovo, giocando sporco: “Cos’è un Obetrol?”

     

    E io mi sono incazzato di nuovo: “È tipo il Desoxyn, o giu’ di là. Sai benissimo cos’è un Obetrol, bugiardo sacco di merda! È la quarta volta che ti intervisto e ogni volta hai mentito! La prima volta…”

     

    “Cos’è il Desoxyn?”

     

    L’aveva appena ripetuto, nello stesso modo monotono, per la quindicesima volta. E durante la mia tirata mi aveva interrotto ogni due parole, freddo e insistente, sicuro di sé, col tono viscido e definitivo di un tecnico di laboratorio che conosce il suo territorio a occhi chiusi.

     

    Ma io ho mantenuto la calma: “È un derivato della metedrina”.

     

    A colpo sicuro: “Sono 15 milligrammi di pura metanfetamina idrocloride con dell’impasto per tenerli insieme”.

     

    Come un vecchio schedario che si chiude d’un colpo: “Se prendi davvero le anfetamine, sei un buon esempio del perché chi si fa di anfetamina ha una cattiva reputazione. Ci sono quelli fatti di anfetamine e ci sono quelli che abusano di anfetamine…

     

    Il Desoxyn è 15 milligrammi di pura metanfetamina idrocloride tenuti insieme da un impasto, l’Obetrol è 15 milligrammi di…”

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    “Ehi Lou, hai qualcosa da bere?”

     

    “No… non sai il fatto tuo, non hai fatto ricerche. Fai un piacere a tutti noi togliendo la merdaccia dal mercato. E poi sei povero. E anche se non fossi povero, non sapresti comunque quello che compri. Non sapresti come dosarla, non conosci il tuo metabolismo, non conosci il tuo quoziente di sonno, non sai quando mangiare e quando no, non sai niente dell’elettricità…”

     

    “Le cose essenziali sono i soldi, il potere, l’ego”, ho detto citando chissà perché una vecchia rubrica di R.J.Gleason. Mi stavo annebbiando un po’.

     

    “No, sta tutto nell’elettricità e nella natura della cellula…”

     

    Ho deciso di mutare di nuovo di rotta: “Lou, dobbiamo fare le cose per bene. Io mi tolgo gli occhiali da sole se te li togli anche tu”.

     

    Se li è tolti. L’ho fatto anch’io.

     

    Zoom su un corpo avvizzito stravaccato sul letto di fronte a me con “La Cosa” ( Rachel) dietro di lui che guardava gli alveari sulla luna; la pelle giallastra di Lou era di un giallo biancastro quasi uguale ai suoi capelli, il viso e il corpo erano così straordinariamente emaciati che sembrava davvero un insetto. Aveva gli occhi scoloriti, come due monete di rame rimaste sotto il sole tutto il giorno nella sabbia del deserto con dei fili del telefono che gli ronzavano sopra, ma mi guardava dritto negli occhi. Forse mi vedeva attraverso. Ad ogni modo, forse era in giornata buona. L’ultima volta che l’avevo visto, la pupilla sinistra continuava a cadergli da un lato, e non era un trucchetto da salotto.

     

    Comunque, ero pronto a fargli la mia Domandona, quella su cui rimuginavo da mesi.

     

    “Ti capita mai di avercela con la gente per come tu, per interposta persona, hai messo in atto al posto loro, nella tua musica o nella tua vita, quello che forse vedono come il lato oscuro della loro vita?”

     

    Sembrava che non avesse la piu’ pallida idea di quello che stavo dicendo, ha scosso la testa.

     

    “Per esempio”, ho insistito,”se ascolto i tuoi dischi, ecco qua: pere di eroina, pere di anfetamine, suicidi…”

     

    “È il tre per cento su cento canzoni”.

     

    “E poi tutta la faccenda della decadenza e del glam, se non fosse per te non sarebbe mai venuta fuori, eppure mi chiedo se tu…”

     

    “Io non ho avuto nulla a che fare con quello”.

     

    “Cazzate, sei stato tu a farlo cominciare, cantando di eroina, di travestiti e via dicendo”.

     

    “E cosa c’è di decadente in tutto questo?”

     

    “Ok, definiamo la decadenza. Dimmi cosa credi che sia la decadenza?”

     

    “Tu. Perché una volta sapevi scrivere e ora dici solo stronzate. Non stai dietro alla musica, non hai il controllo di quello che succede, non conosci i musicisti e chi fa cosa. Sono tutte chiacchere, stai diventando molto egocentrico”.

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    Ho lasciato correre. Il vero artista non si abbassa a rispondere pari pari alle frecciate di un vecchio imbroglione. E poi aveva ragione, almeno a metà. Ma non riuscivo proprio a credere che potesse sconfessare con tanta noncuranza tutto quello che aveva divulgato, anzi no, tutto quello che aveva rappresentato e sfruttato per tutti quegli anni. Era come vedere un dinosauro che si ritirava in una caverna di ghiaccio. L’aveva già fatto altre volte. Nell’ultima intervista aveva semplicemente negato ogni legame con il movimento gay, col quele davvero non ha nulla a cche fare. Ma ora, dopo Sally Can’t Dance e apparentemente pronto a ripulire l’esoscheletro della sua esibizione da tutto quello che serviva a sfondare sul serio, lui liquidava tutto quanto con un gesto, come la forfora dalla sua maglietta nera da bullo di strada.

     

    “La decadenza l’ho liquidata quando ho fatto The Murder Mystery”.

     

    Affermazioni ambiziose e radicali come questa sono le cazzate a cui è particolarmente incline questo divo del pop. Come tutti gli altri credo.

     

    “Cazzate amico, quando hai fatto TRANSFORMER suonavi per una pseudodecadenza, per un pubblico che voleva comprare una forma rielaborata di decadenza”.

     

    Barbara ci ha interrotti: ” LOU… SI FA TARDI!”

     

    Improvvisamente il tono di tutta la scena era cambiata. Lui era un bambino capriccioso, che era rimasto alzato dopo l’ora di andare a letto, non proprio piagniucoloso ma sempre con l’aria da insetto, ma anche viziato, blandito, curato, tenuto al guinzaglio, accudito, controllato in modo palese, finché non decideva di fare una scenata e forse di perdere la calma.

     

    “Ma è divertente discutere con Lester”.

     

    “SI, PERO’ DOMATTINA TI DEVI ALZARE PER ANDARE A DAYTON”, ha insistito lei.

     

    “Ah, sopravviverò”.

     

    E poi aveva altre idee per la testa. Voleva farmi ascoltare dei dischi. L’Artista voleva davvero sottoporre qualcosa a me, il Critico, perché la considerassi ed emettessi un verdetto! Ero onorato. E allora cosa voleva sottopormi? Il disco solista di Ron Wood.

     

    Cristo. Se c’è una cosa che odio sentire dai musicisti sono i discorsi sulla musica. È la cosa piu’ noiosa del mondo. Specialmente perché, se avessi dovuto dire quale fosse l’unico album più insignificante di quella roba di Herbie Hancock che avevamo sentito prima, mi veniva in mente proprio quello di Ron Wood. Insipido come pochi.

     

    Gli ho gridato di spegnerlo: “Ma io l’ho già sentita ‘sta cacata!”

     

    Ma lui era già ripartito in quarta, con un altro argomento che interessava “a lui”, quel bastardo egoista, e non mi ascoltava proprio.

     

     “Quel George Benson anni fa suonava il basso e inventò l’amplificatore Benson, del tutto privo di distorsione, un suono totalmente puro e pulito. È interessante quello che sta facendo Hancock con l’Arp”.

     

    Si metteva male. Lui era stato paziente con me, ma io cominciavo ad avere visioni di dischi futuri di Lou Reed: gli incrollabili Andy Newmark e Willie Weeks, che ultimamente sono comparsi in tutti i dischi di tutti i divi del pop dimenticati, a suonare con Lou Reed, così il seguito di Sally Can’t Dance suonerà come il disco di Ron Wood come DARK HORSE di George Harrison come tutti quegli altri Lp anonimi col merdoso trucchetto dei turnisti tecnicamente impeccabili. E per soprammercato un Moog Funky di Herbie Hancock che sgambetta qua e la’ come un ragno, e davanti c’è Lou che borbotta le sue solite cose con quella voce farfugliata e sostanzialmente aritmica:”Siete tuuuutti fottuti… Faccio quello che mi pare… stroncatura,stroncatura… anfetamine, anfetamine, New York, New York…”

     

    “Odio Herbie Hancock” ho detto io.

     

     “Ho qualcosa qui, è questa la roba che voglio fare, parlavo di questo quando parlavo di Heavy Metal. Ho dovuto aspettare un paio di anni per procurarmi i macchinari, ora ce li ho e l’ho finito. Avrei potuto venderlo come musica classica elettronica, ma quello che ho finito ora è heavy metal, c’è poco da scherzare”.

     

    Ero troppo ubriaco per essere in grado di ascoltarlo, ma poco male, perché lui ha riacceso il registratore ed era… il disco di Ron Wood!

     

    Gliel’ho fatto spegnere e lui ha continuato: “Io Hendrix l’avrei potuto stendere. Hendrix era uno dei chitarristi più grandi, ma io sono stato più bravo. Ma è solo perché volevo fare una certa cosa e la cosa che volevo fare, che lo mandava fuori di testa, è quella cosa che finalmente ho finito e che uscirà per la RCA quando avrò sistemato la roba Rock. La gente è in grado di sopportarne al massimo cinque minuti”.

     

    Sembrava promettente, ma a me interessava di più parlare di opinioni che non di musica, e poi Lou è un bugiardo fatto e finito da tanto di quel tempo che l’ho interrotto: “Secondo me la maggior parte della gente crede che sei morto. Perché li hai incoraggiati a farlo”.

     

    Non gli interessava.

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    Mi sono ricordato della sera che ho comprato BERLIN (lo portai al compleanno di un amico e chiunque arrivava voleva ascoltarlo, così finimmo per sentirlo tutto una venticinquina di volte in una sera. La festa si concluse con una stanza piena di sconosciuti che si dicevano cattiverie l’un l’altro. Ma di quel disco avevamo riso tutti, quindi…) e gli ho chiesto:

     

    “Quando hai inciso BERLIN, pensavi che la gente avrebbe riso di quel disco?”

     

    Lou si è afferrato il naso e poi ha preso una noce di cocco…

     

     “Me ne strafrego”.

     

    “Sai Lou una cosa che mi ha un po’ offeso a proposito di BERLIN è che non dai mai il punto di vista della donna. Era un disco molto egocentrico”.

     

    “Ti picchio, stronza”. “Sei morta,stronza”.

     

     “Se la faceva con uno spacciatore”.

     

    Sperando di estorcere a Lou qualche lurido dettaglio autobiografico (di cui consta buona parte di BERLIN), gli ho chiesto di Betty, la sua ex moglie, e ho ricevuto una risposta tipicamente esuberante:

     

    “Mi ha fatto da segretaria, all’epoca me ne serviva una”.

     

    Era una bambinaia, ma, d’altra parte, pare che molta gente vicina a Lou si ritrovi a svolgere quel ruolo. Abbiamo discusso un po’ sul contenuto autobiografico delle sue canzoni e Lou ha affermato, guarda caso, che le sue non erano canzoni autobiografiche ma esistevano in una zona tutta loro e inoltre potevano essere comprese solo da un determinato pubblico di élite. Gli ho detto che a mio avviso la maggior parte dei suoi lavori solisti risentivano di una certa ovvietà, che tutta la sottigliezza era sparita secoli prima e che lui era solo un vecchio guitto che si allevava un aspide in seno; gli ho chiesto, se tutte le sue canzoni avevano significati elitari, di spiegarmi per favore il significato segreto di di Animal Language ( su Sally), altimenti nota come la Canzone del Bau Bau (un cane morto incontra un gatto, cercano di scopare, non ci riescono, si fanno una pera col sudore di un ciccione… un esempio delle putrefazione cerebrale al suo meglio direi).

     

    “Animal Language non è ovvia. Chi credi siano gli animali? Credi siano un cane e un gatto? Quale cane, quale gatto, quale animale è talmente suonato da doversi fare una pera col sudore di qualcuno per eccitarsi?”

     

    Non lo so Lou, sei tu che devi dirmelo. Ci sono otto milioni di persone nella Città Nuda…

     

    “Una cosa che mi piace di te”, ho esclamato, “è che non hai paura di umiliarti. Per esempio, New York Stars. Credevo ti stessi umiliando a schizzare il tuo malumore da battitore libero su tutta quella gente come i Dolls e altri gruppettini stupidi, ma poi ho capito che erano anni che ti umiliavi”.

     

    La sua stoccata di ritorno: “Sei davvero uno stronzo. Anzi, hai oltrepassato la zona degli stronzi per arrivare a una specie di tratto urinario. La prossima volta che riesci a trovare una frase bella come CURTAINS LACED WITH DIAMONDS DEAR FOR YOU invece di tutte quelle cazzate di Detroit fammelo sapere”.

     

    “Naturalmente quello che ora vendi a nome tuo è decadenza pastorizzata. Ai vecchi tempi eri veramente cazzuto, Lou, ma ora è tutto pastorizzato”.

     

    Mi ha detto che ero un dissoluto.

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    “Ti sei costruito una carriera sulla tua degenerazione”, ho detto, “e dovresti confessarlo. Non ti sei distinto come musicista eccelso; anche se hai tirato fuori dei riff fantastici, e non so perché continui a volermi far sentire quella stronzata di musica high-tech, dato che sostanzialmente sei uno sballato. Nei tuoi momenti peggiori ti si potrebbe considerare una cattiva imitazione di Tennessee Williams”.

     

     “È come dire che nei tuoi peggiori momenti ti si potrebbe considerare una cattiva imitazione di te stesso”.

     

    “Non ti senti mai vittima di te stesso?”

     

     “No”

     

    Barbara mi ha sussurrato: “CREDI DAVVERO CHE LE COSE MIGLIORERANNO?”

     

    “Certo”, le ho risposto, e mi sono rivolto a Lou: “in che modo pensi che il senso di colpa manifestato nella maggior parte delle tue canzoni abbia a che fare con il fatto che sei ebreo?”

     

     “Non conosco nessum ebreo”.

     

    Barbara ha comiciato a fare pressione sul serio: “LOU, SONO LE TRE E MEZZO”.

     

    “Si, è vero, sono le tre e mezzo. E con questo? Cosa vorresti che facessi, che chiudessi la porta, mi appendessi a testa in giù dal soffitto e ascoltassi mezzo canale del mio stereo?”

     

    “Sì”, ha detto lei.

     

     “Il tipo vuole parlare”, ha borbottato Lou, “Secondo me hai torto. Dennis ha detto che se volevo, potevo parlarci. Io ho detto d’accordo. Ordini superiori. Dai, telefonagli pure. Telefonagli”.

     

    Barbara ha detto di no, brontolando. Non riuscivo a credere che quell’uomo stesse davvero chiedendo a quella donna di telefonare al suo manager e tirarlo giù dal letto alle tre e mezzo di notte per chiedergli se poteva stare alzato un altro po’ a parlare con me. E naturalmente la cosa non aveva niente a che fare con me. Si trattava di un bambino capriccioso, ma d’altra parte una grossa fetta del fascino mitico di Lou Reed è sempre stata il suo completo infantilismo. Ora era pronto a parlare tutta la notte, anche se nessuno di noi due aveva ascoltato per niente l’altro:

     

    “Secondo me siete stati troppo severi con questo ragazzo. Ti dico, davvero, mi interessano alcune cose che ha da dire, anche se penso che sia un idiota”.

     

    “Abbiamo la stessa opinione l’uno dell’altro”, ho suggerito.

     

    Mi stavo scocciando.

     

     “È volgare e credo che ci si debba godere la volgarità finché si può”.

     

    “MA LO STAI FACENDO DA QUASI DUE ORE”, ha insistito Barbara.

     

    “Be’, me ne voglio sorbire ancora un po’. C’è della roba che voglio fargli sentire, contro la sua volontà”.

     

    Si è girato verso di me.

     

    “Quel George Benson ha inventato il basso elettrico hollow body che non andava mai in distorsione…”

     

    “Senti Lou, Barbara ha ragione. Anche noi dobbiamo andare. Se no potremmo andare avanti in eterno”.

     

    Ho raccolto le mie cose e mi sono avviato verso la porta. Mentre uscivo sentivo la sua voce alle mie spalle, un basso sordo, battutine stronze e trite che svolazzavano polverizzandosi:

     

    “Voi di Seattle siete tutti uguali… a 200… cornflakes…”

     

    Non mi è mai capitato che, dopo averlo conosciuto, un eroe non mi piacesse. Ma d’altra parte, non ho mai conosciuto un eroe. Ma d’altra parte, forse non ero alla ricerca di un eroe.

    di Nicola Lagioia pubblicato lunedì, 28 ottobre 2013

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