• Il senso della vita umana

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    Il tempo umano

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     Intervista allo psichiatra Beniamino Gigli

    di Gian Carlo Zanon

    Saldamente, là dove Notte e Giorno facendosi più vicini

    si parlano l’un l’altro varcando la grande soglia

    di bronzo: l’una scende dentro, l’altro per la porta

    si allontana, né mai all’interno la casa li contiene entrambi,

    ma sempre l’uno uscendo dalle dimore

    percorre la terra, mentre l’altra stando dentro casa

    attende il momento del suo viaggio, finché venga;

    l’uno avendo per i terrestri la luce che molto vede,

    mentre l’altra reca tra le mani Sonno, fratello di Morte,

    Notte funesta, avvolta da una nube di tenebra.

    Esiodo, Teogonia , (748 – 757)

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    Come avevamo promesso ai nostri lettori continuiamo, con l’aiuto dello psichiatra Beniamino Gigli, la nostra ricerca sul “senso della vita”  iniziata con l’articolo apparso il 23 luglio su I giorni e le notti (leggi qui l’articolo precedente)

    Nell’articolo precedente avevamo affrontato una difficile ricerca: capire “il senso della vita umana”.

    La nostra dialettica con Gigli sulla vita umana, e sul senso più profondo dell’umano vivere, ci aveva costretto a scandagliare le profondità della filosofia e della psicologia.

    I nostro discorsi d’estate che si erano fermati alle affermazioni di Gigli sull’oscura religiosità di Heidegger e sui pericolosi risvolti filosofici, contenuti in Essere e tempo, sfociati poi, con Binswanger, nella Daseinanalyse, che, detto molto sinteticamente, risolveva il problema ontologico ed esistenziale, rovesciando il problema escatologicamente : il senso della vita diventava “essere per la morte”.

    “Essere per la morte” che nelle religioni salvifiche, soprattutto in quella cattolica, è il perno esistenziale attorno al quale si svolge la vita del credente. Come ben sappiamo la vita del credente ha significato solo se è un “cammino verso la morte”. La dottrina cristiana insegna ai credenti che la vita umana, essendo finita, ha significato solo in quanto attesa della morte che darà l’infinita beatitudine, o nel caso della dannazione eterna, l’infinita sofferenza. Per il dogma cristiano anche il corpo risorgerà alla fine dei tempi per ricongiungersi con l’anima immortale. Quindi la vita umana è solo una specie di esame di ammissione ad un meraviglioso infinito con tanto di sfarzosa visione della divinità cristiana.

    In questo contesto escatologico “la prima notte di quiete” dovrebbe essere ambita dal credente come massima realizzazione della propria esistenza; “essere per la morte” appunto!.

    Lo psichiatra Beniamino Gigli nel precedente articolo ci ha raccontato che nel 1927  Heidegger pubblica “Essere e Tempo”. L’essere e il tempo, umani, sono al centro del dogma giudaico cristiano. L’essere, per il sistema filosofico cristiano, è l’anima immortale che vive in un tempo infinito. Quando un uomo religioso sceglie l’abito talare o il saio e diviene sacerdote cattolico “esce dal secolo” vale a dire “dal tempo”. Per far questo deve rinunciare al “tempo umano” materiale e finito per consacrarsi totalmente all’infinito. Dato che, come sappiamo, il “tempo umano” ha inizio alla nascita, il sacerdote deve rinunciare alla nascita in quanto essa è ybris, cioè un atto di tracotanza contro il creatore. Infatti fino al Concilio vaticano II il prete era obbligato a rinunciare al proprio nome avuto con il battesimo che è, delirantemente, un rito religioso che conferma la nascita di fronte alla comunità dei fedeli. Tutto questo perché, secondo il credo cattolico, la nascita materiale terrebbe incatenato il sacerdote al finito ostacolando la sua ascesa all’infinito. Infinito che per un pensante è il “non essere” ma che, per un credente, è l’essere soprannaturale, Dio.

    Ma se è relativamente facile capire il senso del sostantivo “essere” e delle sue varie, a volte deliranti, interpretazioni, più complicato è l’approccio con il concetto di “tempo umano”.

    Mentre nella lingua italiana per definire il senso che vogliamo dare alla parola tempo dobbiamo utilizzare un aggettivo – tempo cronologico, tempo astrale, tempo umano ecc., nell’arcaico linguaggio greco il tempo veniva nominato in vari modi che ne determinavano il significato.

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    Cronos:  il tempo scandito dal ruotare degli astri, una scansione temporale socialmente condivisa  che oggi serve per regolare il lavoro, gli appuntamenti ecc..

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    Kairos: il tempo opportuno, la giusta misura, l’adeguatezza, ma anche obiettivo , bersaglio. Un tempo pensato, saggio, temperato.


    Emar, emeras, emeros: giorno, vita vissuta, tempo di vivere, ma anche fato, destino,

    Ma è il fonema aiòn che più si avvicina al concetto di “tempo ontologico” ; tempo che ha inizio con la nascita del pensiero e finisce con la morte del pensiero. Il fonemaderiva da un termine che per i Greci, nel significato pre-filosofico, è il corso della vita dell’uomo, il tempo della vita con tutto il suo contenuto. Aiòn (αἰών, dall’arcaico αἰϝών), era una delle  personificazioni del Tempo. Veniva venerato anche come “Signore della luce”.

     

    Quindi aiòn, seguendo ovvie quanto disastrose mutazioni semantiche, ebbe l’accezione di tempo, vita, età, lungo tempo, secolo, (eternità con Platone).

    Però il primitivo significato di  aiòn è tempo della vita, slancio vitale, che finisce con la morte; infatti il tempo/aiòn  è innanzitutto durata limitata della vita. Perdere l’aiòn significa morire.

    «Perciò Simoesio lo dissero; ma ai suoi genitori non rese compenso, breve per lui la vita/aiòn (ɑɩɷʋ) fu, poiché cadde sotto la lancia d’Aiace dal grande temperamento».

    Omero, Iliade , IV (477 – 479)

    Anche la filosofia farà uso del termine aiòn; ma prima di Platone, con il quale vi sarà un’esplicita e letale modificazione della nozione, l’interpretazione di aiòn è incerta a causa della scarsità dei documenti a noi pervenuti. In Empedocle vi sono ancora alcuni tratti vitalistici del termine compresi in quell’unità concettuale di “durata di vita”. Ci penserà poi “il solito” Platone a deformare il senso della parola che muterà in eternità. Eternità che tra l’altro non sarà immaginata come incommensurabile estensione temporale, ma come “atemporalità”.

    Ora dopo questo excursus nella lingua greca sulla nozione di tempo, chiediamo allo psichiatra Beniamino Gigli: che nesso ci può essere tra “tempo” e “senso della vita umana”. Cosa è il tempo per l’essere umano?

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    Definire il tempo e l’essere umano non è cosa semplice, trovare poi un nesso  tra le due realtà e cogliere nella loro articolazione l’emergenza del senso della vita umana è questione di estrema complessità concettuale poiché ci si avventura in territori di difficile esplorazione, terre in cui discipline come la filosofia, le scienze fisiche , la psicologia,le neuroscienze, l’antropologia   e tante altre,  hanno preteso di piantare semi non restituendo sempre frutti utili alla conoscenza, anzi spesso, come nel caso della religione o degli approcci riduzionisti, affossando la ricerca, vuoi in nome di astratte entità, vuoi nell’affermazione di un gretto materialismo. Si tratta di individuare gli strumenti con cui arrivare alle  realtà fondanti la realtà umana  e quindi  nominarle con le parole appropriate,  senza ambiguità e vaghezza. Cosa è il tempo? Chiediamoci intanto se possiamo porre la domanda senza aver fatto prima un lavoro preliminare,  affrontare cioè in primis la mente umana che pone la domanda. Penso che il punto sia qui, se si vuole trovare un nesso bisogna dare innanzitutto un nome alle realtà mentali che hanno rilevanza esclusiva nella definizione di essere umano e di vita umana.

    Nella storia della filosofia il tempo è stato comunque uno degli argomenti  che ha maggiormente caratterizzato  la speculazione filosofica e messo a dura prova i filosofi e gli scienziati. Ancora oggi si discute animatamente di questa particolare realtà. Come mai tante teorie?

     

    Volendo entrare nella prospettiva storica diciamo che il concetto di tempo è stato un rompicapo per molti filosofi ed ha avuto nella storia  del pensiero filosofico e scientifico mutamenti concettuali di enorme portata.

    Teniamo presente che fino a Newton compreso, si pensava all’esistenza di un di tempo Assoluto come prescritto da Aristotele. Poi è arrivato Einstein che con la teoria della relatività  ha assestato un duro colpo alle precedenti concezioni  spazio-temporali dell’universo. In ambito filosofico è con Kant che assistiamo ad una svolta concettuale. Nella Critica della Ragion Pura il tempo non è più pensato come realtà indipendente, espressa nel movimento dei fenomeni naturali, ma viene radicato all’interno dell’uomo, nel “senso interno” della ragione stessa, nelle categorie a-priori della conoscenza. In  sostanza, per Kant, possediamo già in noi l’idea del tempo, come forma pura dell’intuizione, una sorta di schema del prima e del poi che si dà prima dell’esperienza, e questo ci permette di disporre temporalmente gli eventi percepiti.

    Abbiamo nominato quattro nomi che indicano, nella storia del pensiero occidentale, modi diversi di  vedere la realtà e dunque approcci diversi alla conoscenza. Le teorie del tempo, almeno per la conoscenza della realtà empirica rispecchiano tali mutamenti epistemologici.

    Se ci domandiamo però quale sia la realtà formale del tempo, come il tempo debba essere rappresentato, dalla “Fisica” di  Aristotele all’Estetica trascendentale di Kant, e direi alla concezione fisica del tempo in generale, cogliamo un comune denominatore  rappresentato dalla cosiddetta “spazializzazione” del tempo, ovvero il pensarlo formalmente come una sequenza di punti discreti, su cui in modo costante passano le lancette dell’orologio regolate sul movimento uniforme della terra. E questo vale tanto per Aristotele quanto per Einstein. Questa è l’idea operativa del tempo, risultata molto funzionale allo studio della conoscenza  dei fenomeni naturali, siano essi di natura fisica, chimica o biologica. Quando ad es. diciamo che  un cuore batte con una frequenza di 60 battiti al minuto significa che le contrazioni del muscolo cardiaco nella loro fisiologia hanno una certa relazione con il tempo fisico, se i battiti sono 150 al minuto parliamo di possibile flutter atriale, una condizione patologica. Dunque il tempo fisico ci consente di conoscere la fisiologia e la patologia del cuore. Possiamo dire che ogni fenomeno dinamico, una volta accertata la relazione causale  in esso presente,  può essere definito temporalmente e dunque letto secondo le leggi della fisica. Da osservare però che il tempo fisico non fa distinzione, in sé , di ciò che viene temporalizzato:  che si tratti di un leone che rincorre la gazzella, o del passaggio di una cometa o del battito cardiaco, l’orologio con i suoi secondi minuti e ore, non ha nulla a che vedere con il contenuto misurato.

    Sappiamo che però molti filosofi e anche letterati come Proust,  hanno parlato di un “tempo interno” al soggetto. Un tempo che si oppone al tempo fisico degli orologi per intenderci.

    Si, dobbiamo dire che accanto a questa concettualizzazione spazializzata del tempo, esiste una idea del tempo refrattaria al calcolo,  alla rappresentazione matematica, alla frammentazione in punti isolati, una ricerca questa messa in luce molto bene in Materia e Memoria di  Bergson, che peraltro era fervido estimatore di  Proust.

    La durata con cui  Bergson si oppone al frazionamento divisibile del tempo è fenomeno percettivo interno, autoriflessivo dicono i filosofi, ed è compito della coscienza “sentire” questo fluire del tempo, esperire questa continuità del vissuto temporale dove passato presente e futuro sono “stati di coscienza” che si compenetrano tra loro. In questi termini ne aveva già parlato Agostino nelle Confessiones con la distensio animi, ma è certamente Husserl che ha cercato di sondare in modo più analitico la strutturazione del tempo vissuto, l’Erlebnis.

    Questa dicotomia del tempo è nota in letteratura con le sintetiche espressioni,  di “tempo soggettivo” e “tempo oggettivo”: da una parte la coscienza autoriflessiva, irriducibile al dato oggettivo, depurata da dati empirici dice Husserl, dall’altra, la natura con i suoi fenomeni  in movimento, per i quali il tempo misurabile, al pari delle altre variabili fisiche, consente di conoscerne le proprietà relazionali e causali.

    Se consideriamo come la realtà umana oltre che di processi biologici e coscienza è composta anche da una realtà mentale non cosciente, dobbiamo immediatamente rilevare come la lunga tradizione di pensiero, filosofica e scientifica, abbia affrontato in modo parziale la vexata quaestio e sostanzialmente scotomizzato questo aspetto della temporalità dell’essere umano. Quando sogniamo, dunque in assenza dello stato cosciente, quale dimensione del tempo stiamo vivendo nella nostra mente? Il sogno è nel tempo o è un aspetto del tempo?

    A domande  così credo che nessun filosofo o scienziato  abbia mai risposto, ammesso che la domanda sia stata pensata.

    Domanda.  La psicoanalisi è la disciplina che ha fatto dei  sogni la “via regia” verso l’inconscio, in che modo ha affrontato questo quesito?

    La psicoanalisi, ratificando l’ atemporalità dell’inconscio nel suo corpo dottrinale, ha di fatto attivamente annullato qualunque possibile ricerca  sulla dimensione temporale della mente umana non cosciente, dove in realtà possiamo pensare risieda il senso più profondo del movimento umano. La continua emergenza di realtà pulsionali, affettive e di immagini nelle relazioni umane, il passaggio dallo stato di veglia al sonno, dal sonno allo stato di veglia, la creazione di un’immagine onirica, di un’immagine artistica, sono passaggi che ci costringono a vedere invece  il susseguirsi di un prima e un poi nella mente umana, il comparire e lo scomparire di contenuti mentali coscienti e non coscienti in cui si incarna un movimento di cui la psicoanalisi non ha alcuna possibilità di conoscenza. Il  perché di questa cecità teorica  è abbastanza semplice da individuare: Freud si rivolge all’inconscio utilizzando le categorie razionali di Kant, usa termini inappropriati ed errati per definire alcune realtà mentali, e innesta il tutto su una visione religiosa della realtà non cosciente dell’essere umano: dimensione per Freud, ricordiamo, connotata naturalmente da caos, disordine, e  ritenuta sede di un male originario e atemporale ereditato filogeneticamente. Impostazione di pensiero  che possiamo  ritrovare come presupposto religioso nella concettualizzazione freudiana della rimozione. Ciò che è rimosso è fuori del tempo dice Freud. E fuori del tempo c’è Dio, l’eterno, il peccato originale. Ragione e religione  sono ben espressi nella dottrina di Freud.

    Dunque come si può pensare e definire il “tempo interno”, della realtà non cosciente della persona, se la psicoanalisi ha fallito?

     

    Può essere interessante riflettere sul  frammento 3  del “Poema sulla natura” di Parmenide, opporsi alle Idee di Platone e al concetto del sostrato aristotelico, oltre che svelare il senso religioso del modello spaziale della mente che la rimozione freudiana, per quanto accennato, veicola espressamente.

    In primis affrontare dunque la relazione tra essere e pensiero,trasponendo il concetto metafisico dell’Essere alla realtà dell’essere umano. Sviluppare il concetto del non essere nella realtà umana,  individuarlo cioè in ciò che si oppone alla piena realizzazione dell’essere umano. Non basta dire dunque “il non essere non è”, pensando così di chiudere le vie della ricerca una volta per tutte.  Chiediamo invece a Parmenide o ai suoi sostenitori di chiarirci un fatto molto semplice: come può la mente pensare il non essere e dire nello stesso momento che non è.  “… infatti lo stesso è pensare ed essere” dice il filosofo, poi però parla del non essere, evidentemente pensato ed espresso verbalmente. Qui non è in gioco una mera contraddizione di ordine logico, ma una questione ben più profonda radicatasi nelle maglie del pensiero filosofico occidentale incapace di pensare il non essere nella mente umana “…e io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende” aggiunge Parmenide, gettando cosi un anatema sulla possibile ricerca. Tutto ciò che la mente pensa intorno all’essere umano e al nulla deve invece essere oggetto di ricerca da cui molto possiamo apprendere.

    Affrontare cioè “la follia del divenire” per usare un’espressione cara a Severino, cercare di “curarla” rendendo il non essere oggetto di conoscenza, in quanto   possibile espressione della mente umana.  A  tal proposito vorrei ricordare  l’approfondimento fatto in chiave psichiatrica dal Dr. Gianfranco De Simone al convegno di Napoli nel giugno del ‘96, che nel non essere parmenideo, utilizzando i concetti chiave del testo di Massimo Fagioli Istinto di morte e conoscenza, a cui peraltro il convegno citato era dedicato,  individua proprio la malattia della ragione, del pensiero,  nel voler concepire  l’essere nell’assoluto dominio della coscienza e della razionalità, gettando nel non essere, nell’”indicibile”, nel “non pensabile”, tutto ciò che vive ed è reale  nel mondo incerto della “notte”, nella realtà irrazionale della mente.

    Lei ha citato anche Aristotele che criticando l’assolutezza dell’Essere parmenideo sembra aver avviato un nuovo percorso della metafisica, un nuovo modo di pensare l’Essere.

    L’Essere può dirsi in molti modi dice Aristotele opponendosi alla solenne sentenza di Parmenide, ma anche qui le categorie della conoscenza risultano lontane da una comprensione vera dell’essere umano. Si pensi alla tassonomia aristotelica espressa nell’Historia animalium dove il filosofo non esita a collocare i bambini e le donne a metà strada tra l’uomo razionale e gli animali.

    Mi limiterei a  prendere in considerazione il concetto di mutamento proposto negli scritti confluiti nel libro XI della  Metafisica. Ciò che muta sono gli attributi, le determinazioni del sostrato,  dice Aristotele. L’albero senza foglie in inverno diventa florido di fiori e frutti in estate. Per la realtà psichica concreta, e non solo concettuale, questa impostazione è del tutto fuorviante e priva di consistenza  epistemica se poniamo attenzione ai cambiamenti operanti nell’ambito del  processo di cura.

    La psiche odia e poi diventa buona, direbbe Aristotele, ovvero ora è in un modo poi  in un altro, come se la “psiche”  fosse un sostrato neutro.

    Possiamo precisare e dire che la psiche che odia non diventa buona, ma sparisce per essere sostituita da una realtà psichica completamente diversa. La depressione, l’odio e l’invidia non sono attributi, essi sono la realtà psichica, una realtà psichica malata che nella cura viene resa non più esistente grazie a quella attività mentale pulsionale da Fagioli concettualizzata come “Fantasia di sparizione verso proprie situazioni interiori di rapporto”.

    Pensare ad un sostrato è realizzare l’esistenza di una entità, una sostanza astratta immobile, un permanente dice Aristotele, all’interno della realtà umana.  É questo l’errore di  Husserl  quando ha parlato di coscienza assoluta e di purezza dell’Io nelle Ideen del 1913. É l’errore di tutti i filosofi come Kant che hanno pensato alla coscienza come “luogo”, come uno spazio necessario per rendere intellegibile  e dare un volto  al tempo. La coscienza, in quanto strumento epistemico, opera spazializzando il tempo, tanto nella percezione che nella rappresentazione mentale del movimento. Tale modalità è fondamentale nei rapporti con gli eventi materiali, nel rapporto con gli oggetti, con i fatti percepiti, se non fosse così  non potremmo avere ricordi cronologicamente ordinati. Ma perché vi sia un ordine, ecco il punto, è necessario che qualcosa sia tenuto  fermo, immobile. Gli eventi vengono posti nel tempo, fermi come lo sonoi fotogrammi di una pellicola. Proprio in questo la coscienza ha, in sé, costitutivamente, con i suoi ricordi coscienti, con la sua attenzione al significato logico-causale degli eventi,   la negazione del tempo.  La stessa coscienza vacilla nel buio quando con tale assetto cerca di comprendere il tempo della mente non cosciente, non razionale, dove non sono le figure con il  loro significato letterale ad indicare il movimento, ma l’atto creativo della mente, la capacità di fare immagini,  di trasformare in immagine, in  memoria,  il senso dell’esperienza vissuta di rapporto. Una memoria che è fantasia e non riproduzione fedele  e statica dei ricordi.

    Per completezza dobbiamo dire che la coscienza, oltre ad incarnare le istanze razionali della conoscenza, ha avuto una strumentale declinazione verso aspetti ontologico-spiritualistici, ed è  in questa veste che la ritroviamo tanto in Agostino di Ippona, quanto nello spiritualismo francese ottocentesco,  di cui Bergson è l’illustre epigono, e per alcuni aspetti anche in non chiari passaggi della speculazione husserliana come sopra ricordavo.   Due sono le strade che pertanto si dispiegano a partire dalla coscienza: una porta alla razionalità e una allo spiritualismo, condizionando in questa biforcazione  una concettualizzazione fuorviante del tempo se vogliamo legare questa parola alla specificità dell’essere umano, alle sue dimensioni mentali non coscienti.

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    Allora in che modo possiamo dunque legare il tempo a contenuti  della mente posti fuori della coscienza? Per far questo occorre avere una teoria della mente non cosciente che pensi in modo diverso il movimento nella mente?

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    La realtà non cosciente dell’essere umano è realtà umana realizzante un movimento non gestibile dalla coscienza: i sogni, gli affetti, le esperienze di rapporto umano, con il loro senso e il loro significato, scaturenti memorie o ricordi (secondo la distinzione teorizzata da Fagioli), emergono spontaneamente, sono quello che sono e ci dicono, se ben interpretati e compresi, se vi è movimento o meno, se realizzano un “tempo interno” o lo annullano. In altre parole sono   elementi costitutivi del tempo interno della mente, non sono nel tempo, non rimandano ad altro, non sono attributi di qualcosa che permane. Un tempo così pensato si da ovviamente nel caso di realtà mentale non cosciente sana e creativa. Nella malattia, soprattutto grave, riscontriamo invece non solo nello stato di veglia ma anche nei sogni, un aggrapparsi tenacemente alla coscienza, a rappresentazioni e immagini mentali troppo legate alla scansione temporale convenzionale, una scansione deformata, rallentata, accelerata, ma pur sempre iscritta nella categoria del tempo della coscienza.

    Quando il paziente racconta che si sente rallentato, fermo, che non ha il senso del futuro, che vive tormentandosi nella rievocazione dei ricordi, che non riesce a fare progetti, ascoltiamo il resoconto cosciente del suo vissuto temporale, ma questo è solo un epifenomeno descrittivo che per quanto finemente inquadrato dalla ricchezza del lessico fenomenologico, non ci dice nulla di ciò che avviene in “profondità” dove, nella trama delle pulsioni e degli affetti non coscienti,  possiamo cogliere ed esplicitare il blocco temporale della psiche. Si può certamente parlare di una psicodinamica del tempo nella realtà non cosciente che la fenomenologia non conosce.

    Volendo avvicinarci alla fine di questo discorso, che meriterebbe sicuramente più spazio, ritengo doveroso per il tema in discussione fare riferimento  a quanto è avvenuto nella seconda metà del Novecento, alla svolta teorica fondamentale, alla rottura epistemologica in seno alle scienze dell’uomo. Mi riferisco alla pubblicazione avvenuta nel 1972 del libro Istinto di morte e conoscenza,  di Massimo Fagioli, dove viene proposta l’originale concettualizzazione della Fantasia di Sparizione, realtà mentale cardine per la comprensione della dinamica pulsionale della mente e dunque del processo psicoterapeutico. Una ritrovata vitalità psichica consente di orientare la pulsione verso una specifica attività della mente, quella di determinare la sparizione delle dimensioni malate, dimensioni che non vengono segregate in qualche recesso della mente, spostate in altro luogo e tenute sotto controllo dall’Io della ragione.

    Far sparire è rendere non esistente, non più rintracciabile, una determinata realtà. Una dinamica per la quale, data la specifica connotazione evolutiva, come sottolineato più volte in numerosi scritti,  Fagioli ritiene maggiormente pertinente l’uso del termine trasformazione: cioè che era, non è più, e ciò che non era, ora è. Non si tratta cioè di ricordare ciò che è stato dimenticato, di cambiare pensieri e atteggiamenti rispetto a qualcosa che avevamo dimenticato e di cui ora finalmente ne abbiamo consapevolezza, ma di trasformare la nostra realtà affettiva e pulsionale alla base della malattia attuale, di trasformare il pensiero.

    Centrale dunque per comprendere il tempo umano è la parola trasformazione, un processo le cui radici sono da Fagioli poste nella dinamica invisibile della nascita quando dalla realtà biologica emerge la realtà psichica. Porre tra queste due realtà, cosi diverse e irriducibili l’una all’altra, la parola trasformazione ci da la possibilità di vedere un punto di contatto, forse un “istante”, in cui la realtà psichica è debitrice alla realtà biologica della sua esistenza.

    Volendo tornare al tema, questo ci induce a pensare che il tempo con cui misuriamo i processi  biologici tout court, non è lo stesso quando parliamo di biologia umana, nel senso che il tempo che scandisce i processi biologici umani alla nascita, e solo da questo momento e non prima, ovvero dopo la stimolazione della luce sulla rètina, ha un contenuto umano, è riferito ad una biologia, quella umana, da cui emergerà una psiche, una specifica realtà mentale, una fantasia di sparizione nei confronti del mondo inanimato, che gli animali non hanno.

    Credo che si possa  ravvisare dunque nella Teoria della nascita di Fagioli il superamento geniale e originale delle categorie del tempo su menzionate, tempo “soggettivo” e tempo “oggettivo”; Il  tempo  umano di cui parla Fagioli propone una visione dell’essere umano originariamente non scisso, di conseguenza non riducibile alla speculare contrapposizione tra un tempo “soggettivo” e un tempo “oggettivo”. Dobbiamo pensare a un tempo fisico che appartiene solo all’essere umano, alla “soggettività” umana e non alla natura, e un tempo della psiche che è specifico dell’essere umano. Un’unità mente-corpo  per la quale Fagioli ha coniato il termine“Tempo della vita umana “. Un tempo che inizia con la nascita dell’essere umano, vive nei rapporti umani e si estingue con la morte, quando cessa ogni movimento nella mente e nel corpo.

    (Queste  considerazioni e riflessioni sono solo un accenno generale al tema del tempo, una realtà che pensata all’interno dell’essere umano  trova  il suo senso più profondo nel movimento delle realtà  mentali  compiutamente concettualizzate ed espresse  nella  teoria della nascita del Prof. Massimo Fagioli.

    Attualmente è in corso un’elaborazione teorica di approfondimento sulla realtà del tempo che egli mette a disposizione di tutti  sulle pagine del settimanale Left nella rubrica Trasformazione).

    Un’ultima domanda, lei non ha parlato di Heidegger, come mai? Eppure il filosofo della Foresta Nera viene indicato come la massima espressione del Novecento riguardo alla concettualizzazione del legame tra Essere e Tempo?

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    Heidegger richiederebbe uno spazio a parte per un’ esauriente trattazione che sarebbe bene sviluppare e approfondire con studiosi della materia. Comunque, per quanto detto, posso solo aggiungere una considerazione: poiché si cerca di vedere in che modo questa parola, “tempo”,  possa essere nominata e possa essere riferita alla realtà psichica dell’essere umano, è doveroso vedere e studiare criticamente l’approccio teorico ed il metodo con cui ci si avvicina a tale questione. Mi chiedo come può un filosofo parlare del tempo dell’uomo, dell’Esserci,  e nello stesso tempo con la stessa mente che ambisce alla conoscenza, aderire e farsi attivo sostenitore dell’ideologia e dei programmi nazisti. Qualcosa non torna

    Comunque, poiché è il filosofo per eccellenza, anche qui mi permetto, forse chiamato in causa anche da una certa psichiatria che ha notoriamente intrecciato stretti rapporti con Heidegger, di abbozzare una possibile analisi della locuzione Essere per la morte, formula cardine, come sappiamo, di Essere e Tempo.

    L’affermazione dell’Esserci come essere in corsa verso la morte, ci mostra in verità un essere umano immobilizzato, cristallizzato  nella  precomprensione della morte, che trova cioè nella morte il suo  destino più proprio e autentico, un destino, per Heidegger, già dato, conchiuso e realizzato ab origine, quando cioè l’uomo fa la sua comparsa nel mondo in quanto essere gettato.Una formula che  rende evidente il carattere paradossale del tempo heideggeriano: presa coscienza della propria realtà esistenziale, all’Esserci  non rimane che il tempo vuoto dell’attesa , del non ancora, del poter essere, attestato dall’apertura insopprimibile  del “per”.  In questa attesa ogni movimento è inutile e inautentico, si pensa di andare incontro alla vita e invece già siamo prossimi alla morte, da sempre, da quando nasciamo dice Heidegger. Non rimane che  segnare il passo, sostare infinitamente nello stesso punto, muoversi senza spostarsi di un metro, e sprofondare cosi  nell’eterno, in un presente extratemporale. Per essere più analitici diciamo che l’Essere-per-la-morte è tale finché non si realizzi il suo compimento, ma quando si giunge al compimento, alla realizzazione, l’Essere non c’è più. In sostanza l’Essere per la morte per sussistere deve tenersi lontano dalla morte fattuale, dove avviene immancabilmente la sua dissoluzione,  e dunque è ininterrottamente “costretto” a fermare il tempo.   Un tempo che in realtà, a ben vedere, non c’è mai stato non essendo mai stata preso in considerazione un punto di origine: la nascita dell’essere umano, del pensiero umano.

    In Heidegger più che il tempo si scorge l’eterno. (A tal riguardo condivido la tesi del filosofo Gennaro Sasso espressa in “Tempo, evento, divenire ”). L’Aver da essere è “estendimento” dell’essere (Erstrecken) dice infatti Heidegger, e non dunque reale movimento, dialettica tra essere e non essere, nascita, separazione, memoria … tempo!  E l’eterno nella mente umana è dimensione che porta alla malattia mentale, alle ideologie delle razze, al nazismo e alla religione. Termini ben presenti nella storia di Heidegger.

    Roma 22 dicembre 2012

    Leggi qui “Il senso della vita umana” – prima parte

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    • …durante le mie passeggiate solitarie, mi sono fatto anche io questa domanda: …e per essere sincero, mi viene da dire che “…il tempo è sogno ed il sogno è il tempo!” …gli studi e la ricerca di Massimo Fagioli hanno messo in crisi e forse “trasformato” radicalmente la mia vita! …è vero ho cercato forse una solitudine dove poter ritrovare il mio tempo interno e talvolta sono “caduto” ed i miei sogni diventavano una spia ed un allarme! …che sia proprio questo il fascino della nostra vita!? …che non sappiamo cosa sogneremo poi, cioè non sappiamo come vivremo poi il tempo umano che si chiama sogno! …rischio di perdermi come ammoniscono tanti filosofi, come il filosofo del DasUnbewste, ma mi sembra che la ricerca di Fagioli e dell’Analisi Collettiva è ancora in atto e quindi mi viene da dire che non ci siamo persi (….anche se talvolta chi scrive brancola al buio e/o nella nebbia, ma la mia attesa spero non sia quella di chi aspetta la morte, ma sia l’attesa di un sogno che dia un tempo umano alla mia vita!).

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