• il Governo e il Gregge – Emanuele De Luca – Racconto natalizio

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    DI LOTTA E DISGOVERNO, PECORE!

    di Emanuele De Luca

     

     

    … e ’l tristo sacco

    che merda fa di quel che si trangugia.

     

    Dante, Divina Commedia/Inferno/Canto XXVIII

     

     

    Lo trasse seco in treno, obliterando cada capo il suo biglietto di seconda. Pei posti no, nessun problema, un po’ per l’ora presta, un po’ quell’odorino ovino, fendente e birichino, in su le nari di sparuti viaggiatori s’intrufolava a iosa d’inalanza dura, ma dura proprio a sopportare, indipercui s’apriva lo scomparto ai predellini, alle poltrone, li mejo posti arriba arriba, tutti per uno e uno cadauno e via, tùtùmtùtùm tùtùmtùtùm, da Monticelli a Roma con un Orient Express bassociociaro che trambustava via stazioni ignote da sostare, e la gran meta d’un Termini finale saputo per sentito e chilosà se esiste per davvero, e com’è fatta e quant’è grande e quanta gente e quanti fischi e quante cose da scoprire tutt’un botto e tutte insieme eccoci qua.

     

    Inesorabile un incazzo da lustri e lustri lo rodeva, se lo smangiava rosicone sopra i monti, e lui lanciava al cielo gli smadonni fegatosi di rimando, uggiadundio, e il pecoreccio in coro al controcanto gli rimbalzava in faccia un belatino ciacco lamentoso, e più belava e a quello più pompava la stizzata, che dritta lo recava alle pasture o a come li chiamava ai pasti da succhiare e da nutrire il nutrimento suo quotidie, a cui per doppia manda era legato vita impiastra, sputata tale e quale, niente Natali e Resurressi, niente Madonne festaiole e ferragoste, niente familie sacre sagrade e indomenicate intorno ai piatti di una nonna risaputi, né zugarelle ‘mbressa ‘mbressa dentro ai lettoni caldi di pisciotta bòna, succosi letti d’alti lignaggi e mai saggiati a un qual molleggio gniiick&gnooock, che il letto suo, uggiadundio, erano stelle in cielo e sassi in terra, rocce a cuscino, ragli e grugniti in sinfonia per serenata e alrededor un monotòno brullo e sòna sòna!, un gocciolare esatto che fa la conta in mano a tutti gli anni, se ruga in pugno è la memoria.

    Né mari od altre terre al contrabbando, né muri oltrecortine e passaporti, non ne sapeva nulla di chi s’aveva costruito strade, di chi l’andirivieni se lo giocava in casa mane e sera all’orizzonte, come una pugna all’arma bianca nella giostra, ignaro Lancillotto se lo tirava invece il suo duello arcobalestro, spada spadone tragula o bolzone sparalcielo l’improperio, la sua mannaia fendeva un cielo sfatto di letame e invero lo fallava, perché il nemico era un fantasma fetente e trasparente, un nadanisba senza ciccia da infilzare, e come a moscacieca squarciava a destra e a manca un vuoto d’aria, pascere pasco me pascente e te, cabrón!, palesi solamente pecorelle e la sua vita attesa ed oltre a tutto fuori tempo, del bracconiere un impeto selvaggio aveva e ponderoso, solo che la braccata, così tanto per dire, s’andava a impelagare a cerchio a cerchio su se stessa e si stringeva dipergiunta in canna sino a collarlo strenuamente d’un ansito affannato e s’annaspava, uggiadundio, senza un respiro piano, una speranza o un lampo, soltanto l’ansia di crepare su due piedi lì davanti, e il pensierino gli corrode la meninge e l’ange.

     

    Sì vendetta, tremenda vendetta, di quest’anima è solo desio, Triboulet, perdunque il gregge trotterellando e spasso strada facendo un po’ sfasato andava, e Roma manco a dirlo si stupiva ecchéccéfrega, anvedi ‘e pecore, poi le sue strade s’appennicavano di nuovo nei lor sopori olor a mierda, le pecorelle, invece, marciavano a zompetti e incuriosite dei pascoli asfaltati e i sampietrini, e smorfiosette nondimeno andavano atteggiando egregi cularelli vellutati pel Tritone, spartendo gente tra due ali alla calata, come il grand’esodo d’Egitto di tra il mare, l’alfiere caposquadra portava il passo e il gonfalone, tirava dunque al cielo smadonni d’uso proprio in gergo ignoto, tza tza tza avànghi, e bastonava all’aria la sua verga, avànghi es es aià, tanto per ricordare al pecorame la comanda e tirar dritto spinte o sponte hasta il Palazzo, un trepestìo di zampe e flash chinési facevano la scorta alla sfilata che tamburando zùmzùmzùm s’appropinquava molla e pigra all’opra sua, quell’incombenza, cioè e insomma, ch’aveva scomodati ovini e umano alla gran pugna cavaliero, solo che quello s’appalesava più che altro qual ispido schidionatore di pollastri, ben lungi l’alterigia della razza e la casata, d’antico cippo e senza istoria.

    Chiedeva strada a li viandanti e a chi gliela insegnava con la mano, chi si sbracciava volentieri, un altro qual magnanimo diceva perdilà e dòppo finacché, un pievano talare e imberrettato si mise a benedire col batacchio tutto il branco e c’era chi cavandosi il cappello segnavasi compunto nel nome di Dio Padre uggiadundio.

    D’incedere obbediente s’avvicinava stracco al casamento il gregge, montando il banditore la manfrina a tuttandare, Palazzo Chigi, palazzi grigi di palazzo, con dentro la più feccia della gente, volponi ed aguzzini di galera tza tza tza, tra urla di foresta ed avànghi, applausi fragorosi, sgargianti grida in escalescion e un belatone adesso da tapparsi nelle recchie, i dìndòndàn accordati in tiritera a squarciagola ed un trambusto da piazzata merda! merda!, con i passanti al controcanto èvvéro! èvvéro!, salendo le invettive alle segrete, gli scranni gonfi d’oro e noi che ci si schiuma l’urlo in gola, avànghi es es aià, tza tza tza avànghi, in ruzza delirante e daje!, daje!, la greggia al parossismo belava alla mitraglia e tutti s’eccitava merda! merda!, le pecore al governo! e tza tza tza, es es avànghi, conquisa piazza pazza e pur stridente, un’arma micidiale teneva il pecoraio, adesso era il momento, venuto giù dai monti era il momento, silenzio brèk silenzio, che succede?, le pecore smorfiose mulinano di muso zitte e mosca, ecco il momento, ma il muso le tradisce nell’intento,  non un rammarico, un rimorso… è fatta!, è fatta, quasi!

    E in gloria tutto va tutto s’invola, la prima pecorella, con piglio noncurante, sganciò la prima bomba deretana, un’olivetta itrana tale e quale, e emise un gemito represso, un lagno in puro code pecoreccio che contagiò a cascata tutto il branco esploso prorompente dentro un rombo, purga sentenza pena e gran cazziata rotorollando donde dabbasso, tutto s’è ormai compiuto e tutto è catafascio. Liberatoria estrema e collettiva. Copiosa defecatio.

     

    postato il 23 dicembre 2017

     

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