• “Il golpe argentino è figlio dell’Occidente cristiano”

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     Lettura commentata delle Considerazioni finali  che Enrico Calamai scrive nel suo libro Niente asilo politico.

    Il libro di Calamai mi ha costretto ad un urto contro la realtà che forse avrei voluto, più o meno consapevolmente, evitare. Un testo ruvido capace di suscitare emozioni e pensieri sulla realtà geopolitica passata, presente e futura. Pensieri che buttano giù anche gli ultimi altarini ideologici su cui erano fissate le icone di un Pci tanto glorioso quanto umanamente inconsistente .

    Ho pensato che alcuni temi affrontati in questo capitolo potessero essere approfonditi alla luce delle mie ricerche storiche di questo ultimo periodo. Ho pensato che attraverso l’approfondimento di questo testo si potesse comprendere meglio la situazione politica attuale.

    E così ho deciso di inserire alcune di considerazioni a mo’ di glossa cercando di “dilatare” i contenuti del testo, perché  l’autore apre numerosi fronti di interpretazione sulla storia socio-politica che meritano di essere approfonditi e arricchiti.

     

    I miei interventi sono individuabili dal colore blu scuro. I neretti sono miei e servono ad evidenziare alcuni contenuti del testo.

    Le foto sottolineano le rete delle complicità tra militari, politici, Chiesa cattolica, industria e potere finanziario.

    Gian Carlo Zanon

     

     

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    “I dirigenti sindacali A. Sánchez e J. Amoroso furono chiamati il giorno prima del golpe a una riunione con i dirigenti del dipartimento Relazioni lavorative. In quella riunione venne letto un appello che esortava i lavoratori a lavorare nei loro ruoli dimenticandosi di ogni tipo di reclamo corporativo. Quando i lavoratori chiesero chi era la persona che aveva letto quel breve comunicato (era il colonello  Camps, capo della Polizia di Buenos Aires responsabile di almeno cinquemila sparizioni) i dirigenti della Ford presenti scoppiarono a ridere e risposero: “molto presto ve ne renderete conto.

    Tre giorni dopo Amoroso,  Sánchez e altri dirigenti sindacali  furono sequestrati dalle loro case da uomini armati che avevano il cartellino preso dagli archivi  del personale della Ford” .

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     Enrico Calamai

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    Niente asilo politico – Diplomazia, diritti umani, e desaparecidos

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    Considerazioni finali

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    Quello di Pinochet è forse l’ultimo grande golpe in senso classico. Esso mostra l’esistenza di un limite che l’opinione pubblica occidentale pone all’uso della violenza con finalità repressive. Meno di tre anni dopo, il golpe di Videla mostra come sia possibile varcare tale limite mediante un uso accorto degli stessi media che avevano marcato a vita il pur vittorioso Pinochet.

     

    Le considerazioni che seguono non pretendono di essere né distaccate né esaustive. Rappresentano soltanto un tentativo di comprendere il salto qualitativo verificatosi con il golpe in Argentina, a partire dall’esperienza di chi, giovane all’epoca, ha lavorato per circa trent’anni nello Stato italiano.

    Dico subito che ciò che ancora oggi più mi colpisce non è tanto l’illimitata criminalità del regime che i militari imposero al popolo argentino, quanto le coperture che vennero loro offerte a livello internazionale. La doppia misura che applicano gli Stati, democrazie comprese, alla loro politica interna e a quella estera, nella convinzione che non saranno chiamati a rispondere di quanto accade fuori dai loro confini, in parte anche a opera loro.

     

    Mi è del pari sembrato importante tentare alcune riflessioni sul trasformismo della repressione sulla dialettica tra potere e media che, al loro apparire, sembrerebbero destinati a rivoluzionare la percezione del reale da parte dell’opinione pubblica mondiale.

     

    Non credo che tra potere e media vi sia mai stata una dialettica intesa come uno scambio reciproco di pensieri. Vi è stata sempre semmai un adeguarsi, a vari livelli di indegnità, da parte dei giornalisti al tacito comando dei grandi manovratori.

     

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    L’ambasciatore americano Raul Castro e il Nunzio Apostolico Pio Laghi, assistono spensierati a una partita di tennis a Buenos Aires (1978)

    Sia il golpe di Pinochet che quello di Videla sono concrezioni della guerra fredda. Gli Stati Uniti hanno mandato per anni i loro giovani a morire nelle paludi vietnamite, a evitare quello che i media chiamano l’effetto domino, la progressiva caduta del Sudest asiatico nella sfera di influenza sovietica. Con tanta più cura seguono gli sviluppi in America Latina, che considerano il cortile di casa. Dove bisogna a tutti i costi prevenire il ripetersi di quanto avvenuto a Cuba dopo la rivoluzione, nella convinzione che basti l’instaurarsi di equilibri più avanzati in uno dei paesi latinoamericani ad aprire la porta all’ingerenza sovietica nel paese stesso, prima, nell’intero continente, poi.

     

    In realtà, il fantasma della guerra fredda, lo vedremo meglio in seguito, è sempre servito da alibi per eliminare i dissidi interni ai due blocchi, occidentale e orientale, che nascevano da contraddizioni ideologiche, ingiustizie sociali. Un alibi con cui le oligarchie al potere, supportati dai mezzi di propaganda mediatica, potevano gestire il controllo delle società capitalistiche o marxiste. Tutto coloro che, visibilmente, contraddicevano i sistemi sociali dei due schieramenti, andavano se possibile fatti rientrare nei ranghi o in ultima istanza eliminati.  Le purghe staliniane, durate sino alla morte del “piccolo padre dell’Urss”, e il maccartismo sono emblematici.

     

    È in fondo il problema di come evitare lo sgretolarsi del proprio blocco, che assilla ciascuna delle due superpotenze. Si sa che di là dal telone d’acciaio la soluzione è affidata all’Armata rossa. Nel cosiddetto mondo libero, invece, la coesione interna viene assicurata attraverso establishment di stampo neocoloniale, che sanno di doversi mantenere subalterni alla politica dell’anticomunismo globale portata avanti dagli Usa. E di poter godere, in cambio, di un’ampia libertà d’azione in ambito nazionale, con il pieno sostegno americano.

     

    Si direbbe che siano proprio questi establishment  i veri alleati degli Usa, finché adempiono alla loro funzione. E che, in un mondo che formalmente si regge ancora sulla sovranità degli Stati, tali establishment tendano a capillarizzarsi sempre più nel tessuto sociale, per cooptazione dall’alto. Dando vita a un secondo livello che sfugge facilmente al controllo democratico, in cui trova ampio spazio il ruolo svolto in maniera occulta da nuclei di sottopotere, amalgamati intorno ai servizi segreti. E fornendo il lavoro di squadra con cui pilotare le principali scelte del sistema politico nazionale.

     

    Una complessa struttura transnazionale a patchwork, mobile ed elusiva, che assicura l’adeguamento degli sviluppi politici nei singoli paesi alle esigenze complessive del blocco occidentale, sotto la regia di Washington. I cui esponenti stanno dietro ai politici di facciata, possono vantare rapporti privilegiati con i polimorfi e onnipervasivi apparati Usa, oltre che una comunicazione costante con i loro omologhi nei paesi alleati. E non disdegneranno ruoli di primo piano quando – anche grazie al loro costante lavorio – sarà vinta la guerra fredda. In maniera speculare, sia detto per inciso, à quanto avverrà in molti casi anche nei paesi dell’ex blocco comunista.

     

    A tale proposito consiglio di leggere questi articoli

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    Nella didascalia accanto alla foto si legge: Il papa Giovanni Paolo VI con il generale Gualtieri e L’ammiraglio Jorge Anaya nel 1982 in una visita durante la guerra delle Malvianas

     

    Nel Terzo mondo saranno le forze armate a beneficiare spesso dell’investitura politica. Costituiscono infatti una struttura piramidale, presente in tutto il territorio, rigida

    Controllata da elementi ambiziosi, preparati e di sicura sudditanza agli interessi americani.

    Militari formati soprattutto negli Usa, ma anche in Europa, svolgono un ruolo centrale nei paesi dell’America Latina, caratterizzati da situazioni interne fortemente destabilizzate da miseria, analfabetismo, malcontento diffuso e conseguente possibilità di improvvise fughe in avanti.

     

    Ben più complessa la situazione in Italia, dove il fascismo aveva saputo collocare i suoi uomini negli apparati dello Stato, imponendo una gestione della cosa pubblica improntata alla propria cultura del potere. Una realtà, questa, che la disastrosa fine della guerra scalfiva a mala pena, dato che il ridisegnarsi delle alleanze in funzione anticomunista convinceva le potenze vincitrici dell’opportunità di non spingere troppo oltre il meccanismo delle epurazioni.

     

    Come scrive Daniele Biacchessi nel suo libro Giovanni e Nori, una storia di amore e di resistenza, tra decine di migliaia di impiegati e dirigenti dei ministeri fascisti, solo in 449 furono rimossi dai loro posti di potere: «Su 64 prefetti, 62 sono funzionari degli interni durante la dittatura; 241 prefetti provengono dall’amministrazione dello Stato fascista; 120 su 135 questori giungono dalle vare polizie locali e segrete della Repubblica di Salò (…)» ecc. ecc..

    Ermanno Rea nel suo libro Mistero napoletano, riporta un allucinante dialogo tra Mario Palermo, del Comitato di liberazione, e il colonnello americano Richard Simpson, rappresentante della commissione di controllo, che sintetizza questa asfissiante situazione politica: Simpson nel 1945 impose un fascista non pentito come commissario di Napoli: «(…) come ha servito il fascismo saprà servire anche noi» disse il colonnello americano a Palermo che gli chiedeva le ragioni di quella nomina assurda.

     

     Reunión_Pinochet_-_KissingerPinochet e Kissinger

    Occorreva infatti escludere – a qualunque costo, ma per quanto possibile nel rispetto delle forme dello Stato democratico – la possibilità- di una vittoria elettorale del Pci, che, come noto, era il partito comunista con maggior numero di iscritti nel mondo occidentale. E nessuno meglio dei rappresentanti del precedente regime, tuttora inseriti nei punti strategici per il controllo dello Stato, disponeva delle conoscenze e degli strumenti per manovrare a tale fine.

    Si trattava di certificare una maggioranza elettorale, comunque ottenuta. E come nel feudalesimo conta chi apporta uomini armati alle guerre mosse dal sovrano per imporsi, l’Italia della guerra fredda riconosce il sottopotere dei grandi elettori, di chi in generale e a qualunque titolo apporta voti e/o finanziamenti alla crociata anticomunista in corso: personalità radicate in un territorio, esponenti del sistema produttivo, rappresentanti dell’alta finanza.

     

    In realtà, come si evince anche da questo libro, la suddivisione geopolitica, a parte il “caso Cuba”,  non è mai stata messa seriamente in discussione. Oggi possiamo dire che la guerra fredda è stata una pantomima che è servita soprattutto per dominare i movimenti sociali interni alle due superpotenze. Nel “gioco delle parti” lo scontro all’ultimo sangue non è permesso neppure tra apparati distinti. Si può fare la pantomima di un vero duello, ma poi, alla fine … can no magna can dice un vecchio e saggio proverbio veneziano.

     

    Ma anche coloro che sono in grado di incidere sull’opinione pubblica attraverso testate giornalistiche e, in seguito, televisive. I dirigenti dello Stato, che assicurano l’organicità del suo complessivo funzionamento al ceto dominante (e quale gigantesco serbatoio di voti, lo Stato e con esso il pletorico sistema del parastato!). La chiesa cattolica, che indica direttamente alle coscienze il partito per cui votare.

    La stessa massoneria, i cui metodi non cessano di essere attuali.

    E la mafia, visto che ci si deve assicurare la vittoria elettorale anche nei territori che essa controlla: non è probabilmente un caso che durante la guerra fredda in Sicilia vi siano stati ben due consolati americani.

     

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    Non dimentichiamo che nell’immediato dopoguerra il movimento separatista siciliano, di cui Salvatore Giuliano faceva parte, voleva far diventare la Sicilia il cinquantunesimo stato USA.

     

    Mafia che, come il terrorismo, è la conseguenza – sia pure ingiustificabile – di un potere che si dimostra oppressore, insufficiente e alieno, strutturalmente impermeabile agli strati più emarginati, dalla cui debolezza essa, la mafia, trae la propria forza.

    L’Italia della guerra fredda è uno Stato che manifesta le forme della democrazia pur essendo democraticamente bloccato. In cui una costante crescita economica – e/o dei posti di lavoro – diventa essenziale per assicurare la stabilità interna, erodendo il malcontento che si esprime nei partiti di sinistra e specie in quello comunista.

     

    “Stato democraticamente bloccato”: non è ben chiaro il senso che Calamai voglia dare a questo concetto. È chiaro però, sia dal comportamento del Politburo sovietico che dal Pci, di fronte al golpe argentino che il ruolo del partito di Berlinguer era subalterno a quanto veniva, forse tacitamente,  deciso tra i due schieramenti geopolitici, Patto Atlantico e Patto di Varsavia. (Leggi qui l’incontro tenutosi nel 1977 nella sede di via Delle Botteghe Oscure, tra Enrico Calamai e il rappresentante esteri del Pci)

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    Tornando ai golpe di Pinochet e Videla, entrambi sono impensabili senza l’approvazione, se non l’appoggio, del grande fratello americano. Entrambi vengono presentati come un intervento necessario per salvare il paese dal baratro. Le modalità di attuazione sono tuttavia radicalmente diverse.

    Il golpe di Pinochet è un successo dal punto di vista militare, ma la percezione diffusa della violenza utilizzata urta contro la mitopoietica contemporanea. Pur con tutta la loro buona volontà, le democrazie occidentali non riescono a sottrarre Pinochet al pubblico obbrobrio. Sopravvivrà isolato a livello internazionale, come un moderno vescovo lebbroso, il che è contrario agli interessi economici di un mondo sempre più globalizzato.

    Come già il Cile di Allende, l’Argentina si trova a vivere – nella prima metà degli anni settanta – uno scontro sociale che potrebbe preludere a una svolta autenticamente democratica, auspicata con forza dall’operosa piccola e media borghesia di origine europea e, soprattutto, dai suoi figli.

    Di fronte allo stato di riottosità diffusa che ne è il sintomo, si punta a imporre un modello di stabilità di stampo militare.

     

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    il Nunzio vaticano in Argentina Pio Laghi con Bush

    La strategia repressiva adottata ricorda la pratica della decimazione, utilizzata in guerra quando la truppa rifiuta di eseguire gli ordini. E che, come è noto, consiste nell’esecuzione di elementi scelti in maniera casuale. Con la sua arbitrarietà, essa terrorizza la totalità dei sopravvissuti, scoraggiando qualunque forma di ribellione.

     

    Ma è una decimazione per così dire ponderata quella che si attua, seguendo un ordine di priorità incentrata sull’eliminazione degli elementi più politicizzati e/o sindacalizzati, degli appartenenti alle professioni intellettuali, dei sospetti per il semplice fatto di essere giovani.

    Eliminandoli, si colpisce trasversalmente il corpo sociale, nel presente e nel suo proiettarsi nel tempo. Affinché – in contraddizione con se stesso e disgregato — ricacci pulsioni libertarie e velleità di rivolta e si lasci finalmente  omologare. È una soluzione finale, quella programmata e messa in opera, che mira al definitivo sradicamento di qualunque forma di opposizione, presente e futura.

     

    Ciò che si voleva eliminare definitivamente era la ribellione alle istituzioni. Come si può leggere tra le righe scritte da Calamai, ciò che si voleva eliminare erano le istanze libertarie contenute negli echi del ‘68 giunte in Argentina. Nessun povero che chiedeva solo di essere sfamato veniva perseguitato e ucciso. Ma le rivendicazioni, individuali, dovevano giungere alla classe dirigente sotto forma di preghiera per risolvere bisogni materiali. Non c’era spazio per esigenze di libertà di pensiero e di espressione di quel pensiero. Ciò che andava annichilito, fatto sparire era la rivolta al potere patriarcale nelle sue varie declinazioni istituzionali rappresentate dalla divisa militare, dal doppiopetto manageriale, dalla tonaca ecclesiastica e, persino, dalle icone staliniane.  Come il Pci, dal ‘68 in poi, si schierò contro ogni movimento che essendo “giovanile” era per sua natura sovversivo e anarchico, così fece anche nel caso dei giovani argentini che venivano uccisi a migliaia. Giovani argentini, ma anche italiani, che catalogò senza pensarci due volte sotto la voce “terroristi”. 

     

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     Bush e Kissinger

    Una grande clemenza è concessa ai viventi: non soffrire, nell’anestesia della morte, qualunque sia la sorte del corpo. Il che forse giustifica uccidere, agli occhi del predatore.

    All’uomo, che tra i predatori è il più grande, il vivere in branco permette di essere lui a divorare gli altri animali, sottraendolo, in genere, ad analoga fine. Le leggi del branco lo proteggono inoltre , a certe condizioni, dalla coazione assassina degli altri suoi simili. Branco e leggi che in tal modo dilatano oltre l’immaginabile la parentesi della vita umana: fino a una morte naturale, che in natura non esiste.

    E lo disabituano a immaginare il disfarsi delle proprie forme nella poltiglia maleodorante della trasformazione alimentare o nei suoi surrogati, cui dovrà sottostare.

     

    Lo ricordo perché sono, a mio avviso, meccanismi di scissione – che permettono all’uomo di sapere e non sapere biologicamente, ciò che l’attende  — a provocargli il miraggio del tempo, incompatibile con le reali certezze della mente animale: divorare, riprodursi venir divorato.  Un paradiso, lo spazio-tempo, bello perché evanescente fino a farsi perduto, ogni volta, per ogni uomo perduto. E fondante perché necessitato dall’uomo per sentirsi al riparo e poter sviluppare la prodigiosa creatività con cui dà vita a linguaggi e religioni, ad arte e politica, a città e civiltà.

     

    Calamai qui inizia a cercare – e questo gli fa onore – i moventi culturali, antropologici e psicologici che hanno portato al genocidio argentino.  Lo fa con in propri strumenti, alcuni di questi trovati presumibilmente nello studio di quel psicanalista di cui parla abbastanza diffusamente nel suo libro. Condivisibile l’intenzionalità. Non condivisibili, a mio avviso, alcune sue interpretazioni troppo inficiate da una visione della realtà umana legata a una cultura esistenzialista e psicanalitica che ha ormai chiuso, fortunatamente, il proprio ciclo vitale. 

    Ma, a mio giudizio, lo sforzo che Calamai fa per capire ciò che è accaduto nella mente di milioni di persone in Argentina,, in vario modo e con diversa intensità, forse lo assolve da qualunque critica.

     

    È chiaro che ciò che è successo tra il 1976 e il 1983 in Argentina, non può che affondare le sue radici pulsionali, come successe nella Germania nazista, nella anaffettività che rende gli esseri umani come macchine inanimate. Pulsioni inconsce di malati di mente, che reificano la realtà umana, scoperte dallo psichiatra Massimo Fagioli, che possono dare una risposta estremamente importante alla domanda “come è potuto accadere?”, evitando così ogni pessimismo sulla natura umana sempre pensata come malvagia ed aggressiva. 

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    Kissinger e il primo ministro israeliano Golda Meir

     

    Ma che succede se la scissione è spinta troppo oltre? Il popolo argentino si ritrova improvvisamente confrontato agli  isomorfismi dell’angoscia di morte allo stesso tempo

    moltiplicati e mimetizzati, infinitizzati in un labirinto di specchi deformanti. Spinto in una zona di ombre troppo destabilizzanti perché se ne possa permettere l’irruzione nella coscienza collettiva. Si persegue il terrore, ma con metodi incomprensibili, che sono ancora più terrorizzanti.

    C’è, nel modus operandi adottato dai militari argentini, qualcosa che si spinge oltre le categorie di cui dispone la mente umana per inquadrare gli accadimenti del reale, basate sullo stratificarsi delle esperienze sia individuali sia collettive, acquisite, queste ultime, come storia. La mente, improvvisamente costretta a confrontarsi con un che di abissale e vertiginoso, reagisce con un subbuglio di percezioni in lotta l’una contro l’altra, di meccanismi che vicendevolmente si elidono, in un cortocircuito esso stesso funzionale a proteggere la mente da qualcosa che è insostenibile.

     

    Qualcosa che si attesta al di là del percettibile: nel metafisico, nel demoniaco, come l’improvviso affiorare di forze della natura di fronte alle quali la mente umana non riesce a utilizzare gli strumenti della ragione e invoca il soprannaturale. Il che facilita la mancata elaborazione, la negazione di quanto si sta portando a termine.

    E se vi sono luoghi deputati per il massacro, è peraltro la totalità dell’Argentina a essere diventata un immenso campo di concentramento, in cui tutti sono spinti ad adottare modalità di comportamento e prima ancora di pensiero funzionali all’istinto di sopravvivenza, alla speranza di potersi enumerare tra i salvati quando tutto tornerà come sempre.

     

    Non è un caso che, come nella Germania post-nazista, molti in Argentina possano oggi dire e dirsi – entro certi limiti perfino in buona fede – che non sapevano: alla radice di ogni-processo di conoscenza c’è un atto di volontà, a cui  è possibile sottrarsi sotto l’effetto del terrore. Che tanti possano dire di non aver saputo dimostra la gravità del trauma inferto all’intera popolazione, il costo sociale dell’acquiescenza.

    Tutto è funzionale alla sua stessa negazione: l’assenza di carri armati per le strade, di stadi pieni di prigionieri, la normalità di notti cui non è stato imposto il coprifuoco e, inversamente, le retate notturne, i militari in borghese, le macchine e i camion senza targa.

     

    La stessa tecnica di eliminazione di massa attraverso desaparición, che permette di procrastinare indefinitamente le rimostranze di famiglie che non possono smettere di sperare. Che ancora oggi, trent’anni dopo, non riescono a credere che il loro caro non tornerà più, non avendone visto il cadavere. Ma che soprattutto sfrutta al contrario tutta la forza dell’iconografia per negare l’infinita processione di morti che – se rappresentabili – si rivolterebbero a sbranare chi li ha straziati. Permette ai responsabili di godersi tuttora l’impunità.

     

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     Kissinger e il promo ministro inglese Margaret Thatcher

    Non è possibile, oggi, ripensare alle atrocità dei militari argentini senza ricordare la tragedia di Antigone, che coglie il limite che il potere pone al singolo, anche in contrasto con il diritto naturale, come quella di Edipo coglie il limite che al singolo deriva dall’appartenenza  alla famiglia umana.

    Ma il successo di un disegno politico si misura al momento della sua attuazione. E se tutti sanno in quei momenti che i militari non si trattengono dal torturare o uccidere chiunque sia da essi considerato un ostacolo, nessuno può del pari pensare che essi arrivino a dichiarare guerra al loro stesso popolo. Che arrivino, come cloni disumani del disumano Creonte, fino al rifiuto di restituire ai familiari le spoglie del nemico ucciso. Fino a negarne l’uccisione. Non una volta, non per svista, errore o caso isolato, bensì trentamila volte, come frutto vale a dire di una strategia del terrore deliberatamente adottata e militarmente pianificata in ogni suo dettaglio.

     

    Nessun essere umano può, in quei momenti, comprendere la disumanità dei militari. Immaginare il taylorismo dell’orrore. Sostenere la percezione della sanguinaria oscenità del potere.

    E sanguinario e osceno fino all’insostenibile è il comportamento tenuto in mattatoi la cui unica giustificazione è il loro essere segreti e, quindi, negabili. Peggio dei mattatoi, che sono luoghi di terrore, sofferenza e morte per soggetti indifesi, ma non di tortura spinta a un livello di atrocità tale che i pochi sopravvissuti non riescono neanche a evocarla.

     

    La strategia dei militari di Videla risponde innanzitutto al bisogno di schiacciare qualunque tipo di resistenza prima che il popolo argentino possa prendere coscienza di quanto sta accadendo. Ciò spiega la ferocia, ma non dà ragione fino in fondo della peculiarità delle tecniche di sterminio seguite.

    Per poter azzardare una spiegazione in proposito, occorre ripensare all’unanime condanna di Pinochet da parte dell’opinione pubblica occidentale, meno di tre anni prima.

    Richiamando alla mente, nello stesso tempo, quel secondo livello che – senza uscire dall’ombra – agisce sugli sviluppi politici negli Stati occidentali, in funzione delle esigenze della guerra fredda. Quel sempre più fitto intrecciarsi di interessi e poteri che funge da raccordo tra realtà nazionale e potere sovranazionale di blocco. E pone le basi per poter imbrigliare il mondo intero, dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

     

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    Kissinger , Videla e l’ambasciatore americano Raul Castro

    La crisi cilena non può non avere suscitato allarme negli ambienti politici che curano la compattezza del blocco occidentale, per la capacità di documentazione e denuncia, da definirsi in senso proprio disarmante, dimostrata da media ormai a prevalenza iconografici. Per le discrasie evidenziate tra opinione pubblica e livello politico nazionale, difficilmente compatibili con i valori fondanti dei sistemi democratici. Non diversamente da quanto è accaduto nei confronti di quella che nell’ottica del potere appariva come nient’altro che la normale conduzione delle operazioni militari Usa in Vietnam.

     

    Ho più volte parlato della loggia P2. Essa non è che una tra le tante escrescenze di poteri occulti, in uno tra i tanti paesi che compongono il blocco occidentale: l’Italia.

    Loggia P2 che, come noto, in quegli anni svolge funzioni di diplomazia parallela tra Italia e Argentina, tessendo legami sempre più stretti, tra e sponenti degli apparati dello Stato, del sistema produttivo, del cosiddetto sottobosco dei due-paesi. Che, sempre in quegli anni, sta dilagando nei media italiani, sia cartacei sia televisivi. L’esperienza  cilena si sovrappone a quella maturata in Vietnam.

    É a mio avviso possibile ipotizzare che, a seguito di entrambe, sia stato deciso di fare pienamente rientrare i sottosistemi mediatici nazionali del blocco occidentale nella sfera di influenza del secondo livello più volte citato, mediante un’opera di sistematica infiltrazione di suoi elementi nelle posizioni chiave di ciascuno dei sottosistemi stessi. Assicurandosene l’uniformità.

     

    Come se, in analogia al sistema di democrazia bloccata che si era saputo imporre in paesi come l’Italia,  si cercasse adesso il modo di ottenere sistemi mediatici orchestrabili, nel rispetto formale della libertà di stampa. In modo non da impedire l’affiorare di una notizia, ma di poterne calibrare il rilievo nell’impasto informativo quotidianamente prodotto e consumato. Di ridurla all’irrilevante epifania di una lettera al giornale. Alla credibilità  di quanto rivelato da chi si sbraccia in cima a uno , sgabello a Speakers’Corner. Da chi predica nel deserto.

     

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    Sempre in Italia e in quegli stessi anni giunge, d’altronde, a maturazione il  progetto di canali televisivi privati, presentato come uno sviluppo verso il pluralismo informativo e quindi rispondente a una richiesta di maggior democrazia. Che di fatto moltiplica la capacità di incidere sull’opinione pubblica mediante operazioni di selezione e calibratura, stilistica e retorica dell’informazione, fino alla sua metamorfosi in disinformazione. Che diffonde tra larghi strati della popolazione, specie i giovanissimi, una sottocultura audiovisiva che è espressione tecnologica avanzata di come si autorappresenta il potere nel blocco occidentale. Che abitua a una rappresentazione metonimica del reale, minimizzante riguardo ai suoi aspetti che più feriscono, come succede nella fase dell’innamoramento. E diseduca all’esercizio del pensiero, aprendo la strada a una condivisione a vocazione universalistica di modi di pensa re e agire omologati, non diversamente da quanto rappresentato da Ionesco nel suo Rinoceronte.

     

    Il golpe di Videla manifesta la capacità di riorganizzarsi dell’insieme degli interessi transnazionali di blocco, che, dopo la ferma condanna dei fatti di Santiago, rimangono decisi a non rinunciare all’uso della forza con finalità repressive. Dà attuazione a progettualità maturate in quel secondo livello, che accomuna i militari argentini e le democrazie occidentali.

    Democrazie occidentali che potrebbero far valere presso i militari argentini il loro dovere di dare seguito politico alla condanna che l’opinione pubblica occidentale non mancherebbe di esprimere, se informata del riproporsi di una politica di sterminio come quella di Pinochet. Ma che indirizzeranno la loro azione in senso diametralmente opposto, agendo sul versante della propria opinione pubblica.

     

    Il golpe di Videla è la risultante di esigenze divergenti: se i militari argentini sapranno attenersi a linee di condotta prestabilite, le democrazie occidentali potranno fare uso delle leve di cui dispongono per prevenire il diffondersi della conoscenza su quanto sta accadendo in Argentina.

    I rapporti a livello ufficiale potranno allora andare avanti normalmente, celando quanto avviene sotto il tavolo alla vista di chi potrebbe scandalizzarsi.

     

    videla-pio-laghi-Pio Laghi con Videla

     

    E i nuovi padroni dell’Argentina, paese molto più importante del Cile dal punto di vista delle potenzialità economico-commerciali, spalancheranno le porte al monetarismo della scuola di Chicago, alle prescrizioni delle istituzioni finanziarie internazionali, alla pervasiva irruenza delle democrazie occidentali, agli animal spirits delle multinazionali. Mentre il popolo argentino, ormai piegato, si abituerà ai soprusi di chiunque sia al potere. Condizionato da un riflesso pavloviano di terrore al solo pensiero di impadronirsi, democraticamente, del proprio destino. Umiliato a sperare che il perenne saccheggio non comporti più stupri, torture, uccisioni di massa. Prototipo della sudditanza nella modernità.

     

    Non so in quale scuola di guerra e/o in quale paese sia stata per la prima volta applicata la desaparición.  Ma essa lo è in maniera sistematica in Argentina. Ed è l’esempio più evidente di un ventaglio di tecniche operative incommensurabili rispetto a un sistema mediatico ormai a prevalenza iconografico e nel contempo manipolabile. Tecniche che nel loro insieme offrono anzi la possibilità di innalzare il livello della repressione fino allo sterminio di massa, mentre le democrazie occidentali si dimostrano in grado di utilizzare con efficacia le leve di cui dispongono per minimizzare, mimetizzare e in definitiva oscurare quanto si sta portando a termine in Argentina con quella specifica metodologia.

     

    La scomparsa dei cadaveri rende il delitto perfetto. Meglio ancora, lo annulla. E permette la moltiplicazione ad libitum di un crimine scaturito dal profondo della solidarietà occidentale e, quindi, senza responsabili.

    Né importa che la notizia faccia capolino qua e là, con tanto di analisi, su questo o quel giornale, su questo  o quel telegiornale: troppo astratta, sfuggente e isolata per  convincere, priva di audience perché priva di visibilità.

    È chiaro a questo punto che non ci possono essere rifugiati nelle ambasciate a Buenos Ares: la documentabilità di disperati alla ricerca di asilo politico richiamerebbe assonanze con quanto accaduto a Santiago, direbbe iconograficamente che anche in Argentina è in corso la caccia all’uomo, evidenzierebbe il pactum sceleris tra democrazie occidentali e militari argentini.

     

    Certo, un ruolo decisivo nel far pendere la bilancia a favore della collaborazione attuata dalle democrazie occidentali è giocato dalla certezza dell’impunità.

    Ma c’è dell’altro, che non deve sfuggire: la collaborazione dimostra che le democrazie occidentali – pur combattendo il comunismo in nome dei diritti umani, pur avendo a suo tempo dichiarato guerra al nazismo anche a causa dei crimini contro l’umanità da esso commessi e formalmente condannati nel processo di Norimberga – non identificano quanto concordato con i militari argentini come contrario alla realtà politica che esse esprimono e difendono.

     

    Ciò può essere soltanto perché comprendono, giustificano e condividono una concezione fondamentalista della ragion di Stato, che non arretra di fronte alla eliminazione di uno o più individui – tantissimi nel caso dell’Argentina – quando a essere in gioco è, per dirla in termini aulici, il supremo interesse della nazione, come inteso dal ceto politico che a qualunque titolo lo gestisce, definendo anche il grado di pericolosità che la situazione presenta.

    Un fondamentalismo che è matrice ideologica dello stragismo con finalità repressive, diversamente calibrato a seconda del contesto geopolitico. Che nella regia dell’informazione ha ormai trovato un imprescindibile strumento di attuazione, davanti a un’opinione pubblica anestetizzata dalla convinzione di essere informata di tutto. Che, nel caso specifico, continua a condannare i golpisti cileni, senza percepire, si direbbe, quanto stanno facendo i loro colleghi argentini. Né, tanto meno, le complicità dei governi occidentali.

     

    Le democrazie occidentali potranno tranquillamente intascare i loro ritorni. Lo stesso farà anche il governo italiano, il cui comportamento è reso peraltro emblematico dalla presenza di una tra le più importanti collettività italiane all’estero, da sempre blandita con retorica patriottarda e abbandonata a se stessa al momento del bisogno.

    E produce profonda tristezza dover constatare che tale sarà persino il comportamento dello stesso Vaticano, come evidenziato erga omnes dalla partecipazione di Videla alle cerimonie per l’insediamento di papa Luciani. Un comportamento non diverso, si direbbe, da quello a suo tempo tenuto nei confronti del nazismo. Al cui proposito è ipotizzabile la compresenza di elementi e/o strutture ecclesiali di stampo massonico in quel secondo livello di potere occulto, di cui abbiamo più volte parlato. Il golpe argentino è figlio dell’Occidente cristiano.

     

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    Incoronazione di papa Luciani … sullo sfondo Videla in divisa bianca

    Ma la cupola è a Washington, che regge le fila dell’anticomunismo globale. E difficile pensare che i militari argentini non abbiano dibattuto con esponenti dell’amministrazione Usa la strategia da adottare in vista del golpe. È difficile pensare che diplomatici americani non abbiano fatto visita ai loro omologhi nel ministero degli Esteri del paese di accreditamento per caldeggiare, a loro volta, la collaborazione con i militari argentini.

    È ancora più difficile comprendere come gli Usa abbiano potuto tollerare che anche l’Unione Sovietica, l’Impero del Male per difendersi dal quale era stato, almeno in teoria, programmato il bagno di sangue, tragga vantaggio dal golpe argentino.

    A facilitate i contatti sembra essere stato, in questo caso, lo stesso Partito comunista argentino, preoccupato, come abbiamo visto, della propria sopravvivenza politica e di quella fisica dei suoi membri.

    L’Urss ottenne il grano di cui aveva vitale bisogno e, in cambio, seppe autorevolmente intervenire presso i partiti fratelli, compreso quello italiano, affinché lasciassero cadere ogni critica ai rispettivi governi per la politica seguita nei confronti del moderato Videla.

     

    É probabile che la tolleranza Usa di fronte al comportamento deviante dei militari argentini nei rapporti con l’Urss sia stata motivata dalla necessità di mantenere buoni rapporti con degli alleati scomodi, ma pur sempre essenziali nel contesto della stabilità continentale.

    Il che dimostra l’intelligenza con cui i militari argentini hanno saputo muoversi in un mondo che aveva reagito in maniera opposta ai loro colleghi cileni. E uso di proposito la parola intelligenza, per sottolineare l’abbaglio in cui rischia di cadere chi tali non li giudica, la loro essendo, esclusivamente, una carenza nella dimensione dell’etica. Peraltro condivisa.

     

    I mondiali di calcio del 1978 tradurranno in termini di modernità la cerimonia del trionfo dei generali argentini contro il loro stesso popolo, moderno Vercingetorige ingabbiato nelle generazioni presenti e in quelle a venire.

     

    È esattamente ciò che sta accadendo in Brasile in questi giorni con i capionati del mondo di calcio, solo che stavolta le cose non sono andate come in Argentina nel 1978 …

     

    L’imponente afflusso di pubblico procedente da tutto il mondo sta anche a dimostrare l’affermarsi su scala planetaria di una modernità in cui i boati degli stadi potrà perfettamente accompagnarsi alle urla dei luoghi in cui, a poca distanza, si sevizia e si uccide.

    Una modernità in cui il rutilante ricombinarsi dell’iconografia mediatica produce l’oblio e indifferenza e le masse, che erano apparse sul punto di risvegliarsi, si riversano per strada acclamando la vittoria della loro alienazione.

     

    Anche i generali argentini finiscono per cadere, convinti – come tanti loro colleghi – di poter perpetuare il loro regime inventandosi un nemico esterno. Vittime dell’arroganza, che fa loro credere di poter rivolgere le armi acquistate dalle democrazie europee contro una di esse. Abbandonati da tutti, anche dallo stesso mentore americano. Provocando altro sangue.

    Ma non cadono a opera di una resistenza interna, materialmente impossibile. Riescono a conservare il monopolio della forza e sono in grado di dettare condizioni ai rappresentanti di un popolo traumatizzato. Impongono un patto leonino per l’impunità di torturatori, assassini e loro mandanti, argentini e non, il cui rispetto sapranno tutti insieme assicurarsi con un susseguirsi di minacce e sollevamenti abilmente orchestrato.

    Ne deriva, per anni e anni, qualcosa di simile a una sindrome di Stoccolma collettiva, che sempre più corrode le potenzialità di quello che era stato uno dei paesi più ricchi di risorse naturali. Un cancro che sempre più corrode le forze profonde che rendono compiuta una democrazia, mentre le istituzioni finanziarie internazionali prescrivono ricette che non tengono conto della realtà del popolo argentino e del suo recente passato, né, tanto meno, delle complicità internazionali a monte.

     

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    La verità è spesso molto semplice, ma indipendente da quanto appare. Il matador attira il toro verso la spada con un movimento del panno rosso che lo distrae dalla sua persona; l’illusionista è tale quando riesce a distrarre l’attenzione del pubblico dal trucco che sta effettuando; gli Stati rispettano i diritti umani, salvo che nelle vaste zone grigie che riesce loro di sottrarre all’attenzione della cittadinanza, con l’aiuto dei media e se necessario del segreto di Stato. Il che vale purtroppo anche per le democrazie, che pure rappresentano sicuramente la miglior forma di governo conosciuta.

    Si aggiunga che la collaborazione con regimi totalitari o con Stati in guerra – che sono, gli uni e gli altri, i meno vincolati in materia di diritti umani – in fin dei conti si traduce in commesse, maggiore occupazione, benessere e quindi maggior numero di preferenze, stabilità elettorale a beneficio del ceto politico. E di un funzionariato che della sua logica endoflessa si fa esecutore.

     

    Già Tocqueville aveva posto in guardia contro i pericoli della tirannia della maggioranza. Di certo le democrazie, nella forma incompiuta che conosciamo, non sono portate ad attribuire priorità alle problematiche delle minoranze al loro interno. Come accade nella democratica Europa ed è stato recentemente dimostrato, in maniera tragica, ai suoi confini.

    Ancor più sono strutturalmente portate, le democrazie, a ignorare del tutto l’esistenza e i bisogni e la sofferenza di chi, al loro interno o all’estero, per qualunque motivo non dispone di voto. Come abbiamo visto succedere caso. degli emigrati italiani, che vedono il proprio diritto costituzionale di voto vanificato per considerazioni di opportunità politica.

     

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    Come soprattutto succede nei confronti di chi non è cittadino, dato che l’agire all’estero di un governo anche democratico ricade nelle  zone d’ombra tra le vetrine mostrate all’opinione pubblica. E che quindi la politica estera è per eccellenza il territorio in cui i governi si sentono  liberi di agire indipendentemente dai limiti posti dal rispetto dei diritti umani.

    Né  possiamo scordare quanto oggi accade, nel cuore stesso della civilissima Europa, nei confronti dei clandestini.

    I quali sono spinti sulle nostre coste sia dalla fame da noi stessi troppo spesso provocata, sia dalla mitopoietica proiettata in tutto il mondo dai nostri media. Per diventare, di fatto, i desaparecidos del nuovo millennio.

     

    Inutile illudersi: nel mondo come lo conosciamo, il conflitto tra potere e singolo, la tragedia di Antigone continuerà a riproporsi. Così come la guerra tra contrapposti poteri, che di tutte le tragedie che affliggono l’umanità  è la più devastante. Ma una dialettica sarà sempre possibile.

    Lo dimostra il rapido diffondersi della coscienza dei problemi posti dalla globalizzazione, malgrado la reazione allarmata di un ceto politico che tende a occultare la sofferenza che il suo operare riversa sul mondo circostante.

     

    Lo scontro si gioca, innanzitutto, intorno al grado di consapevolezza, che permette la mobilitazione della società civile. Nello scrivere queste pagine mi è sembrato di poter offrire, se non altro, un esempio delle capacità manipolatorie di cui il potere dispone. Della sua tendenza a trasformare in ‘”velo di Maya”  l’insieme dei media.

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