• Il bambino rubato di Kafka

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     di Susanne Portmann

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    Nel giugno del 1921, Kafka, da Matliary – località vicino alla frontiera della Boemia con l’Ungheria dov’era in cura – in una lettera a Max Brod scrisse:

    “Qualche tempo fa ho letto “Letteratura” di Kraus, che certamente conosci.[1] Dopo l’impressione della prima lettura, che da allora ovviamente si è smorzata,[2] mi è sembrato molto pertinente, che centri fin nel cuore. In questo piccolo mondo della letteratura ebraico-tedesca veramente regna il principio che lui difende, al quale si è così ammirevolmente subordinato che confonde (verwechselt) persino se stesso con il principio e che fa compiere anche ad altri questo scambio (Verwechslung). Penso di distinguere abbastanza bene nel libro ciò è soltanto farsa, seppur sublime farsa, ciò che è pietosa banalità e ciò che infine è verità, almeno tanta verità quanto lo sia la mia mano che scrive, altrettanto chiaro e fisicamente angosciante. La farsa consiste anzitutto nel “mauscheln”[3], nessuno lo sa fare meglio di Kraus, visto che in questo mondo tedesco-ebraico a malapena qualcuno può far altro che “mauscheln”, nel senso più ampio nel quale soltanto deve essere inteso, vale a dire come la forte o silenziosa oppure autolesionista arroganza[4] di una proprietà altrui che non è stato acquisita, ma di cui ci si è impossessati con un gesto (relativamente) furtivo e che rimane proprietà altrui, anche se non si riuscirebbe a provare il minimo errore di lingua, perché qui tutto si potrebbe provare tramite l’invocazione la più fioca della coscienza in un’ora di pentimento. Con ciò non dico niente contro il “mauscheln”, il “mauscheln” di per sé è persino bello, è una fusione tra tedesco cartaceo e linguaggio gestuale (e quanto è espressivo è questo [di Kraus] […], risultato di tenera sensibilità linguistica che ha compreso che nel tedesco soltanto i dialetti e al di fuori di essi soltanto l’altotedesco[5] il più personale veramente vive, mentre il resto, la classe linguistica media, non è che cenere, che può essere animato a vita apparente soltanto se mani di ebrei ipervitali la frugano. Questo è un fatto, triste o terribile, come si vuole; ma perché gli ebrei sono così irrimediabilmente attratti a farlo? La letteratura tedesca ha vissuta anche prima della liberazione degli ebrei[6] e in grande magnificenza, e soprattutto era, per quanto io vedo, in media mai meno multiforme (mannigfaltig) di oggi, forse oggi ha persino perso varietà (Mannigfaltigkeit). E che ambedue queste cose hanno a che fare con l’ebraismo in quanto tale, con la terribile situazione interiore dei giovani ebrei, questo in specie Kraus lo ha capito, o meglio, misurandolo su di lui è diventato visibile. Lui è simile al nonno dell’operetta, da cui si distingue soltanto in quanto, invece a limitarsi a dire “oi” fa anche delle poesie molto noiose. (Con qualche diritto tuttavia, con lo stesso diritto, con il quale Schopenhauer allegramente visse nel continuo precipizio dell’inferno da lui scoperto.)

    Più che la psicanalisi, in questo caso mi piace che questo complesso del padre, di cui tanti spiritualmente si nutrono, non riguarda il padre innocente, ma piuttosto l’ebraismo del padre. Via dall’ebraismo, e per lo più con non chiara approvazione dei padri (questa non chiarezza era lo scandaloso), volevano i più che cominciarono a scrivere in tedesco, lo volevano, ma con le zampette posteriori rimasero ancora incollati all’ebraismo del padre e con le zampette anteriori non trovarono terreno nuovo. La disperazione era la loro ispirazione.

    Una ispirazione onorevole come qualunque altra, ma che a meglio guardare, ha qualche triste singolarità. Anzitutto ciò in cui la loro disperazione si scaricò non poteva essere letteratura tedesca, che formalmente sembrava essere. Vissero tra tre impossibilità (che io solo casualmente chiamo impossibilità linguistiche, è il modo più semplice, si potrebbe chiamare anche in tutt’altro modo): l’impossibilità di non scrivere, l’impossibilità di scrivere tedesco, l’impossibilità di scrivere diversamente, quasi si potrebbe aggiungere una quarta impossibilità, l’impossibilità di scrivere (perché la disperazione non era qualcosa da calmare attraverso lo scrivere, era il nemico della vita e dello scrivere, lo scrivere qui era soltanto un provvisorio, come per una persona che scrive il proprio testamento poco prima di impiccarsi – un provvisorio, che può ben durare una vita), si trattava quindi di una letteratura impossibile da tutti i punti di vista, di una letteratura zingara, che aveva rubato il bambino tedesco dalla culla e addestrato in qualche modo in tutta fretta, perché qualcuno deve pur danzare sulla corda. (Ma non era nemmeno il bambino tedesco, non era niente, si disse soltanto che qualcuno ballasse)”[7]

    Su questa immagine metaforica – ovvero, sulla sua revoca – Kafka si interrompe senza mettere il punto dopo la parentesi. Aggiunge alla lettere l’elenco “stillato e rispedito da Franz Kafka” delle risposte alle domande che Brod gli aveva rivolto circa la sua salute, alla fine del quale si legge: “Firma: l’unica domanda che mi mette in imbarazzo”.[8]

    Abbiamo tradotto un passo più ampio di questa lettera di Kafka, spesso citata nell’excerptum degli ultimi due paragrafi, per rendere il contesto da cui nasce all’immagine-gioello del “bambino rubato della lingua tedesca”, e nella quale ci consegna la sintesi più alta sulla generazione degli scrittori tedeschi ebraici nati nella monarchia austroungarica nella seconda metà dell’Ottocento. In questa riflessione, ogni parola di Kafka ha il peso di tomi – di storia personale, di storia socioculturale viennese e praghese di inizio Novecento, di storia della lingua tedesca e di storia tedesca nell’insieme – per l’inafferrabile presente che alleggiava su questa gioventù e che poi si sarebbe manifestato nella sua spaventosa realtà duplice, del regime nazista prima e dei regimi comunisti che poi si sarebbero insediati sul suolo austroungarico. E il passo di questa lettera di Kafka è importante anche, per essere lui oggi di questa generazione l’insigne universalmente riconosciuto. Motivi per i quali è senz’altro più semplice citarlo e lasciare che parli da sé per intrinseco senso dell’espressione piuttosto che affrontarne l’esposizione della comprensione che ne viene.

    A prescindere dall’impossibilità di riuscire ad esaurire la portata dei capitoli storici che le singole parole racchiudono, dichiariamo in apertura quale parola del testo citato ci mette più in difficoltà: è il “zugerichtet” della frase finale che abbiamo tradotto con “addestrato”: “una letteratura zingara, che aveva rubato il bambino tedesco dalla culla e addestrato in qualche modo in tutta fretta, perché qualcuno deve pur danzare sulla corda”. Il verbo “zurichten” significa “preparare” (dei cibi) e “trattare” o “dare appretto” (ai prodotti tessili o di conciatura), e significa quindi anche “conciare” nel medesimo senso figurativo dell’italiano. Al traduttore che pone un “conciato”, “trattato”, “preparato”, “assettato” o “sistemato” al posto di “zugerichtet”, va riconosciuto che faccia onestamente il suo mestiere, se non gli si vuole riconoscere anche di incassare parte del disagio provocato dal “zurichten”, risparmiandolo al suo pubblico. Suscita disagio per stare vicino alla parola “bambino”, rafforzato dall’associazione alla quale il lettore di lingua tedesca fa fatica a sottrarsi, con il verbo “abrichten”, che vuol dire “ammaestrare brutalmente gli animali” e che poi si trascina dietro l’associazione ancora più inquietante con “hinrichten”, che vuol dire “giustiziare”. Non fosse si trovasse di fronte a Kafka, il lettore tedesco come il traduttore, potrebbe pensare ad un errore di lingua, o pensare che usi “zugerichtet” per un senso perduto della parola, oppure per un senso che potrebbe aver avuto nel “tedesco praghese” e quindi essere tentato di correggere il “zugerichtet” in “accudito”, l’unico verbo che effettivamente si addice per dire del rapporto che si ha con un bambino. Ma nel caso di Kafka, anche nel caso specifico di questa scrittura privata[9], non può farlo, proprio perché due paragrafi avanti ha messo in guardia dal farlo, dicendo che alla generazione degli scrittori tedeschi ebraici, pronti ad ammettere qualunque cosa se si invocano i loro sensi di colpa, mai si riuscirebbe a provare errore di lingua tedesca alcuno (“allereinzigst”). L’ammissione della nostra difficoltà con il “zugerichtet”, intanto valga come esempio per rilevare ciò che la lettura di Kafka sempre richiede: un certo coraggio, per costringere a guardare le cose in un certo modo per il suo modo di usare le parole nel significato preciso in qui fa quasi precipitare e dal quale si è tentati di tirarsi fuori per riflesso incondizionato, di tornare ad aggrapparsi a galla della superficie del linguaggio, per non dover guardare ciò che Kafka fa vedere. Nel nostro caso, la condizione di questo “bambino rubato”, forzato a fare l’artista funambolo, rischiando la vita ad ogni spettacolo e che solo per sua destrezza, sera per sera, strappa un altro di vita alla morte. Una condizione di condannato a morte a tempo dilatato e per la quale allora ci si rende conto, che solo il “zugerichtet” poteva effettivamente esprimere la portata della drammaticità.

    Il piccolo mondo

     

    La riflessione sulla letteratura contemporanea in questa lettera di Kafka a Brod impone l’apertura del complesso capitolo della lingua tedesca della generazione tedesca-ebraica austroungarica, di quella praghese in particolare e del tedesco in cui scrive Kafka in specie, che di questa generazione faceva parte e che con perizia l’ha definito come tale, nel senso di un fenomeno storico letterario e storico sociale. Dice che si trattava di “un piccolo mondo”, ma tanto piccolo in realtà non era: comprendeva molti scrittori nati nella multietnica duplice monarchia austroungarica, a doppia “k” (“kaiserlich-königlich”, di regno e di impero asburgico. Che vi scrivessero in numero tale da dare vita ad una stagione letteraria tedesca importante, oltre che per la loro “terribile situazione interiore” che fa della disperazione la loro ispirazione  e che è la spiegazione umana e poetica che ce ne da Kafka, va compreso anzitutto per le ragioni storiche che furono alla base del fenomeno.

    Se per entrare nel vivo della storia della letteratura tedesca, una buona osservazione è quella di notare, che gli autori che per primi alla fine del Settecento (dallo “Sturm und Drang” al “quadriastro weimariano“ di Wieland-Herder-Goethe-Schiller) dettero valenza europea alla letteratura tedesca, erano per buona parte protestanti[10], una buona domanda per entrare nel vivo della letteratura tedesca della prima metà del Novecento è senz’altro, chi tra gli autori di essa non era di origine ebraica? La risposta è: pochi. Su suolo slavo situato oltre il confine orientale dell’antico Regno germanico, dove già Carlo Magno mise alle dipendenze dell’impero i primi slavi e dove l’espansione tedesca orientale compì la sua secolare colonizzazione[11], su questo suolo linguisticamente germanizzato, non nacque uno scrittore significativo per la letteratura europea prima della seconda metà dell’Ottocento (salvo forse Grillpanzer); mentre allo svolgere del Novecento, si registra invece un improvviso affollamento della scena letteraria tedesca di autori cisleitani (boemi, moravi, galiziani, viennesi, ecc.). L’iniziale fioritura poetica della corrente “Jung Wien” ebbe il suo apice nelle penne del viennese Hugo von Hofmannsthal e del praghese Rainer Maria Rilke, ambedue di ascendenza nobile-cattolica, ma furono presto seguiti – Musil a parte – dal folto gruppo di scrittori di ascendenza ebraica: Karl Kraus, Arthur Schnitzler, Joseph Roth, Lion Feuchtwanger, Arnold e Stefan Zweig, Kurt Tucholsky, ecc.[12] E tra loro si nota poi appunto il gruppo tutto praghese composto da Max Brod, Franz Werfel, Egon Erwin Kisch, Oskar Pollak, Oskar Baum, Felix e Robert Weltsch, Johannes Urzidil, Paul Kornfeld e altri ancora, e tra loro Franz Kafka; “piccolo mondo” piuttosto gremito, e che ha lasciato un eredità letteraria, non solo tedesca, ma per la statura di Kafka, di valore mondiale.

    La caratteristica “ebraica” di questa generazione di scrittori, è riconducibile a fattori storico-politici precisi: 1) all’introduzione dell’obbligo scolastico da parte dell’imperatrice Maria Teresia nel 1774 e alle disposizioni tardo settecentesche giuseppine di dare ai membri delle comunità ebraiche la possibilità di frequentare una scuola pubblica di lingua tedesca; 2) ai ”Toleranzedikte”(o al “Toleranzpatent”), gli editti di tolleranza di Giuseppe II del 1781 che concesse alle comunità religiose minoritaria nei territori dell’arciducato il diritto di praticare più liberamente la loro religione; 3) allo “Sprachedikt” (Editto di lingua) del 1784 con cui lo stesso Giuseppe abolì la lingua latina come lingua ufficiale sostituendola con il tedesco (il latino tuttavia si tenne ancora come lingua di corte di Vienna); 4) all’obbligo per gli ebrei di usare la lingua tedesca negli atti pubblici sancito dallo stesso editto e infine, 5) alla piena emancipazione politica-civile degli ebrei nel Regno austroungarico nel 1848.[13]

    La catena di leggi illuministe-riformiste giuseppine, accompagnata dal canto ebraico dal movimento illuminista emancipatorio, “Haskala”, guidato dal berlinese Moses Mendelssohn, al momento dell’emancipazione politica, ebbe seguenti effetti: 1) l’abbandono della lingua jiddish occidentale a favore della lingua tedesca contemporanea da parte degli ebrei nell’Regno austroungarico; 2) la loro ascesa sociale rapidissima dopo il 1848 per loro “de-ghettizzazione”, sia nelle città che per affluenza nelle città per la libertà di movimento che li permetteva di abbandonare i “stettle” rurali; 3) l’accesso alle università da parte dei figli di questa prima generazione emancipata; il tutto sotteso da una loro fortissima volontà di assimilazione-conformazione borghese, non di rado accompagnata dalla conversione al cattolicesimo, più spesso dal loro stare lontano dal tempio.

    In Boemia (in maggior misura che non in altre parti della duplice monarchia), dall’Ottocento, l’imposizione del tedesco come lingua ufficiale e l’obbligo per gli ebrei di usare la lingua tedesca (e quindi frequentare le scuole d’obbligo tedesche) portò ad una loro “adduzione al tedesco”[14] che si andava a sommare alla loro antica attitudine di alfabetizzazione, basata sull’iniziazione talmudica in ambito religioso e sull’uso della lingua jiddish a livello laico della  vita quotidiano, anche come lingua di scrittura. Il che li metteva in una posizione culturale vantaggiata di ascesa sociale rispetto alla popolazione ceca, repressa nell’alfabetizzazione in lingua ceca dalla Controriforma, e dalla quale andarono ad attrarsi l’odio. Ma neanche la popolazione tedesca visse bene l’adduzione degli ebrei al tedesco per leggi imposte dall’alto. Perché dal loro insorgere, i nazionalismi si fondano sulla concezione romantica di una “identità nazionale”, di una mentalità anche riflessa nella lingua di un “organismo” che respinge “corpi estranei”. E per via della lotta per la sovranità nazionale ceca, che era anzitutto lotta di lingua, gli ebrei vennero respinti da parte ceca come da parte tedesca in una “zona di mezzo”:

    “L’“esiliazione” nella zona di mezzo avveniva sotto il pretesto dell’incompetenza o competenza parziale linguistica, quasi segnalasse la non appartenenza mentale come “di razza”. Questo pretesto venne usato tenacemente persino laddove nessun accento “ebraico” poteva essere provato. In verità la strategia scelta serviva come motivazione di pretesto all’antisemitismo. Una strategia usata ancora oggi volentieri […]. Con cui la posizione tra le due culture linguistiche, “tedesca” e “ceca”, appare intanto come una identità imposta dall’esterno, come uno spazio intermediario, nel quale vennero costretti gli ebrei dopo la caduta dei muri dei ghetti attorno alla metà del Novecento, da parte di ambedue le nazioni linguistiche. Perché nessuna delle due era disponibile ad integrare gli ebrei e li attribuiva alla rispettiva cultura linguistica diversa.[15]

    Con il senso storico del poi, per gli ebrei era infatti quasi impossibile sfuggire all’antisemitismo nazionalista ceco non meno forte dopo l’indipendenza del 1918, e tanto meno ancora, a quello tedesco nazista all’invasione di Praga nel 1938.

    La sparizione della lingua jiddish occidentale non è di per se attribuibile alla discriminazione esterna, ma in primo luogo alla percezione di inferiorità dello jiddish da parte degli stessi ebrei che, da borghesi liberali, lo giudicarono presto come popolano, arretrato, poco “puro” rispetto al tedesco contemporaneo, arrivando a considerarlo al pari del ceto tedesco come “idioma da ghetto”, deficitario, sia nei parenti rimasti in campagna che poi soprattutto negli ebrei orientali che, per via dei pogrom scatenati in Russia dalla fine dell’Ottocento, in fuga, iniziarono ad affluire nelle città Mitteleuropee.

    La generazione degli scrittori tedeschi ebraici è la generazione dei figli nati negli anni ottanta dell’Ottocento che aveva come padri questa prima generazione di ebrei emancipati. Il conflitto generazionale intra-familiare e interpersonale assunse quindi un carattere storico culturale particolarissimo: di figli che si ribellavano a portare avanti le imprese dei padri[16], che rimproveravano ai padri il loro conformismo borghese e che soffrivano profondamente nella loro ricerca di una identità personale, poco compresi nelle loro aspirazioni a casa e rigettati fuori da tutte le parti circostanti per l’antisemitismo strisciante.[17] Da parte dei padri, l’essere annoverato nella zona antisemita “di mezzo”, – forse sarebbe meglio parlare di vuoto – non venne per loro entusiastico e ingenuo spirito conformista avvertito come pericolo nella misura che lo percepirono i figli. I padri facevano buoni affari avendosi lasciato dietro le spalle ghetto, tempio, stettle e jiddish e altro non importava loro, laddove i figli si ritrovarono ricacciato addosso la loro non-identità di ebrei, dall’antisemitismo in nuova veste di nazionalismo. Per cui non potevano che disapprovare la cecità dell’opportunismo paterno che Kafka chiama “scandalosa non chiarezza”.

    I figli di padri borghesi, indaffarati a sgomitare sulla scala social-borghese, spesso, oltre a essere ribelli, diventano anche scrittori; e i figli della prima generazione ebraica austroungarica emancipata, lo sono diventati in numero e in qualità significativi, comparabili allo “Sturm und Drang”. Karl Kraus che si sentiva “viennese” e “denunciatore” e Franz Kafka che forse più che sentirsi “praghese”, si sentiva “scrittore” anzitutto, erano entrambi dotati di sensibilità linguistica estrema e percepirono ambedue a livelli profondi, sia la connotazione linguistica dell’antisemitismo circostante che l’ambivalenza conformista linguistica del proprio ambiente ebraico, insinuato anche nell’ambiente letterario che, da “piccolo mondo”, era di ascendenza ebraico per buona misura. La “questione linguistica” era per loro determinante quanto la “questione ebraica” a livello politico, sociale o culturale. Kafka infatti dice che “solo casualmente” chiama le “tre impossibilità” della sua generazione letteraria “linguistiche”. Casualmente, perché appunto, era scrittore. Rifugiarsi nel patriottismo, ceco o tedesco, nello zionismo, nel comunismo, nella religione, nella filosofia o in altra ideologia, non poteva in alcun modo ne aiutare ne scalfire l’intima identità alla base del suo scrivere, della lingua propria, unica patria che non si può ne abbandonare ne costruire in terre promesse. Kafka infatti è stato due cose sempre e soltanto, socialista come cittadino e scrittore come uomo.[18]

    “Tedesco praghese” e gli “errori di lingua”

    Per la famiglia di Kafka, le ricerche hanno evidenziato un ambiente linguistico ebraico boemo tipico: di bilinguismo ceco tedesco, dove il ceco veniva parlato per comunicare con domestici e impiegati nel negozio del padre di Kafka, e il tedesco “in famiglia”[19]. Che questo tedesco fosse poi sempre soggetto a intercalazioni ceche è ovvio.

    In Kafka, più che confrontando e misurare “tedesco versus ceco”, ha forse importanza la sparizione dello jiddish occidentale. Avvertiva profondamente quello che già il critico della lingua tedesca Fritz Mauthner (che faceva parte della prima generazione di ebrei emancipati ed era praghese anche lui) aveva espresso con “il servirsi di tre cadaveri” (il tedesco, il ceco e l’ebraico), per non aver avuto come ebreo “una vera lingua madre in un paese bilingue”[20]. Kafka avvertiva la mancanza di una vera lingua madre non per un alto tedesco corretto (secondo allora validi standard  tedesco-prussiani o tedesco-austriaci continentali), non per l’ebraico, ma per lo jiddish. Nella famiglia di Kafka furono i nonni e non i suoi genitori a compiere il cambio di lingua dallo jiddish al tedesco moderno. Lo jiddish era stato ancora la madrelingua dei nonni, ed era avvertibile nei suoi genitori bilingui ceco-tedeschi in forma di riduzione a “Mauscheldeutsch”, che nel tedesco corretto dei genitori spuntava per interferenze di residui jiddish superstiti, più a livello fonetico che lessicale o grammaticale: era questo “il tedesco come lo abbiamo nelle orecchie dalle nostre madri”[21], che per Kafka era il tedesco corretto, per corrispondenza di risonanza interiore.[22]

    In relazione a Kafka, spesso si parla poi anche volentieri del suo “tedesco praghese”[23]. Si intende con il termine il tedesco parlato (e scritto) dalla comunità tedesca (30%) circondata dalla maggioranza ceca in Boemia e a Praga, e che fondeva in se sia influenze dialettali tedeschi centro orientali sia dialetti tedeschi superiori (bavarese). A queste mescolanze – per la minoranza della minoranza tedesca degli ebrei (il 39% della popolazione tedesca) – andrebbe aggiunto anche appunto aggiunto lo jiddish, ovvero quel poco di jiddish era ancora attivo nella gioventù di Kafka. Ma è fuorviante usare il termine “tedesco praghese”, se con esso si vuole intendere una isola linguisticamente distinta dal tedesco contemporaneo (continentale viennese o berlinese). Essendo la comunità tedesca praghese scomparsa, per diaspora e annientamento nazista della popolazione ebraica e per deportazione della popolazione tedesca “pura” (sudeta) da parte del regime comunista dopo il 1945, è difficile farsi un idea di come suonava effettivamente questo “tedesco praghese”. Per ricostruirlo, i linguisti devono infatti ricorrere ai testi che, in ambito letterario, sono in larga misura di mano ebraica, per le ragioni storiche già esposte.

    Per la minoranza tedesca dominante in Boemia va tenuto a mente: 1) che i tedeschi di Praga e provincia disponeva di un sistema scolastico e di istruzione superiore proprio (di lingua esclusivamente tedesca); 2) che Praga era sede delle amministrazioni centrali della duplice monarchia (bilingue ceco-tedesche o dominante tedesca); 3) che gli impiegati di queste istituzioni provenivano da Praga come dall’intera Boemia e anche da fuori di essa; e 4) che la comunità tedesca di Praga conduceva una vita sociale e culturale intensa ed era informata sulla vita culturale di Vienna come di Monaco e come di Berlino, per abbonamento di molti giornali pubblicamente accessibili (p.e. al Café Arco frequentato da Kafka), per letture e conferenze pubbliche e per le rappresentazioni teatrali ospitati frequentemente al teatro tedesco di Praga.

    Paradossalmente, il termine “isola linguistica” è lecito laddove è usato in senso terminologico improprio alla disciplina linguistica ma invece “problematico proprio quando la germanistica usa questa definizione per una varietà che dovrebbe caratterizzare “l’isola linguistica praghese”:

    “A parte il fatto che ne i genitori ne i domestici ne la maggior parte dei compagni di scuola e d’università [di Kafka] erano “praghesi autoctoni” [il 50% della popolazione praghese se non di più era nato in provincia e nella quasi totalità bilingui ceco-tedeschi], la definizione di “tedesco praghese” sia in senso diacrono che sincrono – in relazione della stratificazione sociale – ha tanti referenti possibili che proprio in questo caso non dovrebbe essere impiegato. Come ricerche linguistiche dimostrano, il cosiddetto tedesco praghese muta in tale misura in relazione alle trasformazioni sociali, che non si può presupporre un “organismo” linguistico che renda giustizia ad attributi come “continuo”, “autonomo” o “compatto” necessari per poterne parlare. Il tedesco di Franz Kafka è senza dubbio connotato da una serie di caratteristiche fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali, e non soltanto nei diari e nella corrispondenza privata, ma anche nei manoscritti dei suoi testi letterari o nella sua corrispondenza d’ufficio, anche se proprio le sue lettere scritte d’ufficio dimostrano irrevocabilmente la sua capacità di saper scegliere coscientemente tra registri stilistici tedeschi; una capacità, che può essere osservata anche per i suoi testi letterari. I cosiddetti praghismi, sono nell’insieme interpretabili piuttosto come austrazismi o forme del tedesco superiore. E per questi è da prendere in considerazione anche l’influenza indiretta dello jiddish. Ma si tratta di forme sporadiche che potevano essere usate come sedimenti dell’etnoletto ebraico del tedesco nel tedesco parlato, con il quale Kafka era confrontato nel suo ambiente familiare. L’influenza possibile del ceco sembra in generale molto debole, ma non escludibile, ed è anzitutto spiegabile per via del fatto che il ceco aveva presso i madrelingue tedeschi prestigio molto basso e che agiva sui tedeschi anzitutto attraverso parlanti bilingui del ceco e del tedesco, in cui il ceco era lingua dominante. Tali parlanti bilingui esistevano in grande numero anche tra gli ebrei [come i genitori di Kafka], che avevano traslocato a Praga. In generale però, nel caso di tali influenze questi non sono interpretabili come interferenza individuale in Franz Kafka, ma come manifestazioni collettivamente rilevanti, che sono caratteristiche sia per lingue di gruppi, senza che per ciò possono essere interpretati come “tedesco praghese” uniforme o compatto.”[24]

    Nella sua biografia di Kafka, Max Brod nel 1954 scrive:

    “Ogni edizione [che non sia una riproduzione fotografica del manoscritto], necessita una scelta. In linea di principio bisogna distinguere se un autore ha destinato un testo per la pubblicazione, se non l’ha destinato alla pubblicazione o se (caso terzo) lo ha espressamente destinato alla non-pubblicazione. Nell’ultimo caso, la sua indifferenza per l’imperfezione, ciò che è rimasto appeso per aria, e cose contraddittorie sarà maggiore rispetto al secondo caso. Purtroppo questo è il caso di Kafka. Ora io però so (perché spesso sono stato da lui interpellato come consulente), con quale acribia Kafka ha limato i libri da lui stesso pubblicati, come ha assiduamente consultato il vocabolario di Grimm, come ha discusso con me sul porre o meno di un trattino o di una virgola, ecc. Per ciò andrebbe contro mia coscienza di lasciare stare negligenze, ovvi errori di lingua, “praghismi”, che rappresentano un influsso dello stile tedesco da parte della sintassi ceca e simili, perché so che Kafka avrebbe estinto per forza tali negligenze in caso di una pubblicazione.”[25]

    E’ stato Brod, il primo a puntare l’indice sugli errori di lingua tedesca di Kafka.

    L’operazione linguistica, significativamente denominata “smascheramento di una chimera”[26], per la quale gli studi recenti hanno indagato (e continuano ad indagare) l’ambiente praghese di Kafka, ha tolto di mezzo gli equivoci che sottendono il termine “tedesco praghese” in riferimento al tedesco in cui scriveva. Rimarrebbe da indagare allora perché il  “tedesco praghese” sia stato così intensivamente scomodato per parlare della sua lingua dai germanisti che, nei casi più radicali hanno parlato di “deficit linguistico”, “competenza linguistica parziale” “povertà linguistica”, “impoverimento linguistico”, se non addirittura di “decadenza linguistica”[27]. E chiedersi forse allora anche, quanto i germanisti siano stati indotti ad insisterci per via dello stesso Brod.

    Lui invocava sì una edizione fotografica dei manoscritti, che frattempo è stata avviata dalla casa editrice tedesca Stroemfeld, non senza difficoltà[28], che prenderà tempo e per cui gli interessati si dovranno basare ancora a lungo sulla complicata edizione critica dei manoscritti alla Bodleian Library di Oxford, che rappresentano la parte maggiore del lascito (conosciuto). L’edizione fotografica di tutti i manoscritti di Kafka, per assurdo, si rende in parte necessaria proprio per via delle manipolazioni che Brod ha operato su di essi, correggendo quello che lui riteneva “errori” di Kafka e che sono stati palesati da questa edizione critica: le discutibili “scelte” di Brod, non si limita alla semplice correzione di semplici sviste ortografiche o anche nell’aver dato lui titoli alle opere (soprattutto dei tre romanzi incompiuti, “Il castello”, “Il processo”, )[29], ma comportavano anche cancellazioni di passaggi. Il che ha alimentato i sospetti di occultazione di manoscritti, forse ancora in mano alle figlie eredi della segretaria a cui Brod li ha lasciato per testamento, e per i quali oggi assistiamo ad una guerra legale internazionale spettacolare.[30] Il tutto non ha che contribuito ad alimentare l’atmosfera di “segreti” e “misteri” attorno a Kafka, che sono tanto più fitti se si focalizza su ciò che di Kafka, nel bene e nel male, siamo in grado di leggere, e le certezze che mai avremo invece su ciò che, per esempio, Brod scrisse a Kafka.

    Ma tutte queste illazioni su i manoscritti “occultati”, le disquisizioni sul tedesco o ceco prevalente nei genitori, sull’origine tedesco o ceco del nome di Kafka, sulla sua dichiarazione linguistica nei censimenti ufficiali, sul “tedesco praghese”, sui suoi “errori di lingua” e altro, al fine non fanno che deviare l’attenzione da ciò che veramente importante è e per cui vale che Kafka 1) che Kafka aveva destinato solo parte di ciò che di lui leggiamo per la stampa (le “piccole prose) e 2) che per quelle stava attentissimo a non usare espressioni dialettali e non fare errori di lingua perché correggeva le bozze in modo ossessivo. E per cui, se ci troviamo di fronte a tali, sono voluti e se ne assumeva la responsabilità, come dice nella sua riflessione sulla letteratura della generazione tedesca ebraica, di cui siamo partiti e al cui ora torniamo:

    Qualche tempo fa

    “Literatur” di Karl Kraus era stato lo spunto per la lettera a Brod. E “Literatur”, in realtà era una satira feroce dell’opera di Franz Wefel, “Trilogia magica. L’uomo specchio”.[31] E più a fondo ancora, si trattava della trasposizione a livello letterario di una faida tra Kraus e Werfel, due dei scrittori contemporanei tra i più noti dell’epoca. Faide per cui Kafka sapeva bene, che non si limitava ai due scrittori contendenti, ma che investiva anche lo stesso Max Brod e altri scrittori di origine praghese che pubblicavano (e in parte lavoravano come lettori) presso l’editore Kurt Wolff di Lipsia (il primo editore di Kafka che nel 1913 aveva pubblicato la sua prima raccolta di racconti e nel 1918 “La metamorfosi”). E forse, Kafka sapeva anche, che solo apparentemente si trattava di un dibattito letterario – sull’espressionismo, che Kraus aveva cominciato a prendere di mira dal 1918 – ma che motivi personali lo sottendevano: Nel 1913, Werfel, respinto da Sidonie von Nádherný, la donna di cui Kraus era profondamente innamorato e alla quale rimase legato per anni, aveva diffuso la maldicenza che fosse l’amante di Rilke (poeta di fama, sempre praghese, discendente nobile-cattolico). Kraus allora aveva rotto l’amicizia con Werfel che, sentendosi doppiamente respinto tentò a lungo di riallacciarla, ma irritato dalle critiche che Kraus gli dedicava sulla “Fackel”, infine esplose nel diffamante extempore, per il quale, oltre che scrivere “Literatur”, Kraus ruppe anche con l’editore Wolff, con il quale aveva un contratto per una collana dedita alle sue opere.[32]

    Kafka, nell’estate 1921, era reduce del suo travolgente innamoramento per la giornalista ceca Milena Jesenka di cui testimoniano le lettere che le scrisse.[33] Anche nel suo amore, invidie e pettegoli (tra cui uno dello stesso Brod) avevano messo lo zampino, creando malintesi tra gli innamorati che infine resero impossibile l’amore, precipitando nell’esaurimento entrambi.[34] Kafka conosceva bene il clima di pettegoli, maldicenze, invidie e angherie tra scrittori che si insinuavano nella produzione letteraria contemporanea fino ad ispirarla e che condizionava critici e editori fino a compromettere la pubblicazioni di opere. E non sottovalutava certamente queste insidie dell’ambiente, dato che essendo scrittore, ne era investito per forza di cose, per quanto marginale agli occhi dei protagonisti della scena potesse apparire e per quanto ai margini della scena si tenesse, per suo carattere e per motivi di salute, pur mantenendo sempre i suoi rapporti di amicizie sincere che risalivano al liceo, con Brod, con Underzil, Baum…. e mantenendo rapporti cordiali con gli scrittori che aveva conosciuto al Café Arco, dove a Praga prima della grande Guerra si frequentavano gli scrittori praghesi-tedeschi e dove si recava anche lui. Stesso Café Arco, dove questi scrittori furono – più “investiti” che frequentati – alla fine del 1913da un singolare gruppo di tre giovanissime donne – bellissime e letterariamente colte – figlie della migliore borghesia nazionalista ceca. Una di queste donne era proprio Milena Jesenkà di cui Kafka si innamorò, “letteralmente” per corrispondenza. Ed è stata proprio Milena Jesenska che viveva a Vienna dal 1918, a tenere Kafka aggiornato sulla comunità dei scrittori tedeschi praghesi trasferitasi praticamente in blocco all’estero, pochi a Berlino e molti a Vienna, dopo la proclamazione dell’indipendenza cecoslovacca, perché nel nuovo istaurato ambiente linguistico unico ceco, avevano poche speranze di pubblicazione e prospettive di carriere letterarie e abbandonarono quindi Praga in massa, lasciandosi il Kafka ammalato alle spalle. Nell’ambiente letteraria viennese, Kafka era poco conosciuto, ma dato l’affluenza massiccia dei scrittori praghesi, era possibile e probabile che conosciuto potesse diventare anche lì. Era probabile, ma in realtà così non fu; prova forse proprio anche il fatto che Karl Kraus nella “Fackel” non ha mai parlato di Kafka, neanche male.

    L’editore Wolff, nel 1913 aveva venduto settecento copie delle mille stampate dei primi racconti di Kafka. Poche rispetto all’edizione in 10.000 volumi della “Trilogia magica” di Werfel, poche per essere notato dall’ambiente letterario viennese, ma certo non poche per Kafka alla prima uscita, visto la sua originalità.

    A Kafka, quando nel giugno 1921 scrisse la lettera a Brod, rimase poco tempo da vivere e lo dedicava a vivere come meglio riusciva, curandosi in posti lontano da Praga (e dalla casa paterna) dalla quale, infine e paradossalmente, riuscì a stare lontana proprio per la malattia mortale contratta. Scrisse fino alla fine, assaporando “felicità di scrivere” in ogni momento di tregua concessa dalla malattia e tenendo sempre alta la speranza di pubblicare ciò che riteneva giusto pubblicare. Il periodo che va dalla diagnosi della tubercolosi nell’agosto del 1917 (aggravata dalla febbre spagnola contratta nell’autunno del 1918), è caratterizzata anche dall’assenza e l’attesa di altre sue pubblicazioni in forma di libri (monografici e non pubblicazione di singoli racconti su riviste): dalla pubblicazione de “La condanna” nel 1915 all’uscita della raccolta “Un medico di campagna” (concordata con l’editore Karl Wolff sin dal 1917) passarono tre lunghi anni: tanto tempo per un “condannato a morte”. La pubblicazione si trascinò per la crisi economica postbellica, ma Kafka era già stato offeso da Wolff per avergli fatto dedicare nel 1915 – non il premio, ma il soldi per il “Premio Fontana” – dal vincitore Carl Sternheim per la pubblicazione de “La metamorfosi”.[35] Nel 1921 Brod, proprio nel frangente del soggiorno di Kafka a Maretly, gli aveva comunicato che la casa editrice berlinese “Die Schmiede“ era interressata a pubblicarlo e presso questa infine, nel 1924 apparve ancora una nuova edizione di piccole prose, delle quali Kafka rivisse le bozze in punto di morte.

    Frattempo, se non altro, aveva raggiunto la certezza che se riconoscimento gli sarebbe venuto, lui non lo avrebbe saputo. Il suo problema d’altronde era proprio quello delle piccole prose: ancora fino a metà del secolo, per letteratura

    La prima edizione della sua opera omnia in sei volumi, data in stampa da Brod nel 1937 a Praga, fu conclusa nonostante l’invasione dei nazista per i quali figurò all’indice dal 1933 al 1945. Nell’ambiente della stessa critica letteraria tedesca, Kafka fino al Dopoguerra era una “soffiata segreta”.[36] La sua opera cominciò ad avere successo soltanto negli anni cinquanta, in Inghilterra e negli USA, più che nella Germania occidentale, e certamente più che nella Germania orientale e oltre la cortina comunista in generale: lì fu colpito allora dalla censura comunista che lo vietò come “borghese degenerato”. In vita, in patria, Kafka era conosciuto solo da una piccola cerchi di praghesi di lingua ceca grazie alla traduzione in ceco dei suoi racconti da parte di Milena Jesenkà che le fece pubblicare su riviste letterarie ceche contemporanee. La stragrande maggioranza dei cecoslovacchi, che da nazionalisti odiavano ferocemente sia i boemi tedeschi che i boemi ebrei  (perché parlavano tedesco), facevano volentieri a meno di Kafka e dell’intero gruppo di scrittori ebraici praghesi di lingua tedesca una volta proclamata l’indipendenza nazionale e istaurata la lingua ufficiale ceca unica…. [37]; come volentieri fecero poi a meno della quasi totale popolazione tedesca (4 milioni di persone, da cui vanno sottratti gli ebrei morti nell’olocausto) che risiedeva su suolo cecoslovacco e che fu deportata in Germania alla fine della Seconda guerra mondiale. Nell’era comunista soltanto la Conferenza su Kafka del 1963, un convegno internazionale di scrittori di qua e di la della cortina di ferro tenutasi nella cittadina di Libice vicino a Praga, riuscì a minare la recezione marxista negativa di Kafka in patria e in tutto il blocco orientale. E questa Conferenza di Libice ha una valenza  storico-politica “mitica”, in quanto alla discussione su Kafka che vi si svolse, risalgono i primi moti della Primavera di Praga, la cui fine è nota e che trascinò con sé un nuovo divieto di pubblicazioni per Kafka.[38] I praghesi hanno praticamente scoperto Kafka soltanto dopo il 1989: vi furono anzi sbattuti sopra col muso dalla massa di turisti che invase la città a chiedere dov’era la casa di Kafka. Loro non lo sapevano, ma afferrarono senz’altro immediatamente il valore di attrazione turistica del personaggio.

    L’altotedesco più personale

     

    Kafka che, anche se gli potevano sfuggire errori ortografici, mai scrisse niente di sconsiderato neanche nei diari, nella lettera a Brod rimanda la sua lettura di “Lieratur” di Kraus – uscito appena due mesi prima – a un tempo inverosimilmente remoto. E nell’inverosimile, specie in Kafka, si cela la letteratura, sulla quale indagare e interpretare è lecito: Da ricoverato a Martily, ogni giorno per lui poteva avere proprio il peso e valore del tempo eccezionale del condannato a morte, al quale fa riferimento nella stessa lettera, e che deforma la percezione del tempo chi i comuni mortali trascorrono incuranti della loro morte, sempre distante per inconoscibilità del momento. Scrivendo “vor längerer Zeit” Kafka non esagera distrattamente o retoricamente il lasso di tempo trascorso dalla lettura del testo di Kraus, ma nell’espressione affine al “c’era una volta” segna il salto letterario per la distanza che prende dalla realtà, non per raccontare una storia ma per fare “la storia” della letteratura contemporanea. Quasi fosse una memoria. E lo fa nel suo modo congeniale, di escludere ogni riferimento a persone, luoghi o fatti reali e contingenti, senza descrivere alcunché e nominando soltanto Kraus e soltanto in quanto autore di “Literatur” (un altro con la K nel nome anzi con due, come il KK, asburgico) i. Abbiamo detto sopra che Kraus, linguisticamente sensibile allo stesso livello di Kafka, avvertiva e denunciava l’antisemitismo circostante fin nelle pieghe linguistiche latenti che prendeva, come avvertiva e denunciava il conformismo linguistico dell’ambiente letterario che era di ascendenza ebraica. Nel caso dello scontro personale con Werfel, che si palese come personale anche nella sua forma di extempore all’interno di un’opera letteraria, bisogna riconoscere a Kraus, che la sua difesa dall’attacco personale da Werfel sia avvenuta a livello letterario.

    Kafka era onesto a livelli autolesionisti e si sentiva debitore di niente nei confronti di tutti. Essendo rimasto colpito da “Literatur”, crediamo, che Kafka nella lettera a Brod, per quella strana presa distanza temporale che prende rispetto al tempo reale che intercorre tra la lettura del testo di Kraus e la scrittura della lettera a Brod, abbia voluto rendere omaggio in forma letteraria a Kraus, per riconoscergli ciò che voleva riconoscergli: che sapesse scrivere quel magnifico “Mauscheldeutsch”, che per lui era il tedesco come le sue orecchie lo percepivano nell’infanzia dalla voce della madre e forse anche dei nonni, e riconoscendo poi a Kraus riguardo il “complesso del padre del quale tanti spiritualmente si nutrano”, di non nutrirsene come non se ne nutriva lui stesso.

    Essendo fluito sul complesso del padre di Kafka molto più inchiostro di quanto lui non spense per scrivere la sua Lettera al padre nel 1919 (e di cui certamente mai avrebbe permessa la pubblicazione), è importante leggere bene questo passaggio: per Kafka, Kraus, che pur “misura su se stesso il principio” – che è il complesso edipico – lo rende “visibile” e lo “de-universalizza”, contestualizzandolo storicamente nel conflitto generazionale ebraico austriaco dell’inizio del Novecento e rappresentandolo per mezzo linguistico dello “mauscheln” che è l’indizio storico-linguistico della sparizione dello jiddish ancora attivo nel 1921, e che risuonava ancora nel tedesco dell’ambiente ebraico. Eco di una identità culturale e eco di un suono udito nella prima infanzia che Kafka dice essere “bello” e che poteva essere rievocato se “risultante di tenera sensibilità linguistica che ha compreso che nel tedesco soltanto i dialetti e al di fuori di essi soltanto l’altotedesco il più personale veramente vive.”

    Con il riconoscimento a Kraus, di aver reso visibile la verità storica-linguistica, Kafka indirettamente ci indirizza anche l’interpretazione linguistica-personale che soltanto può rendere giustizia alla sua opera, superando le interpretazioni personal-psicologiche riduttive e le interpretazioni ideologico strumentalizzanti, ispirate anzitutto da Brod che era zionista convinto.

    Alcuni studiosi parlano per Kafka di una “coscienza deficitaria riguardo la lingua in cui scrisse” e che si fonderebbe anche sulla sua affermazione “il tedesco è la mia lingua madre e per ciò naturale“ e a cui aggiunge di non aver “mai vissuto tra popolo tedesco”.[39]

    Noi pensiamo che sia vero il contrario, che Kafka, anche per quella affermazione, aveva invece una coscienza estremamente alta e esatta della capacità universale della lingua in cui scrisse.

    Oggi, Max Brod è conosciuto più che altro per colui che ha pubblicato ciò che Kafka voleva distrutto, mentre Karl Kraus e Franz Werfel sono autori noti ai germanisti, ma oggi poco letti. Kraus non si pronunziò mai su Kafka, e non sappiamo se ciò è dovuto al fatto che gli amici praghesi di Kafka omettevano di farglielo conoscere. Quanto a Werfel, in occasione della prima lettura di un opera di Kafka a cui assistette, ebbe da dire: “Questo non varrà mai la frontiera di Bodenbach!”[40]. Bodenbach Bodenbach era il luogo di frontiera tra Boemia e Germania, e per cui Werfel voleva dire, che ciò che Kafka scriveva, non sarebbe mai stato ascoltato oltre la Boemia. Questo giudizio di Kafka era fortemente condiviso da un altro letterato tedesco, di origine praghese ebraico: Willy Haas che nel 1924 fondo, “Die literarische Welt”. Era già noto nell’ambiente letterario viennese degli anni Venti ed è citato anche lui nel pamphlet “Literatur” di Kraus. Scampò il nazismo emigrando in India e al suo rientro a Berlino, divenne uno dei più influente critici letterari della Germania occidentale del Dopoguerra. Era nato a Praga anche lui e di origini ebraico-tedesche come tutti gli altri autori di cui abbiamo parlato fin qui. Haas e Kafka non erano amici, si conoscevano di persona per occasionali incontri al Café Arco e Willy Haas è menzionato più volte da Kafka nelle Lettere a Milena, in relazione al racconto di Brod, del suicidio del giovane poeta ebraico tedesco praghese Joseph Reiner, in cui Willy Haas fu coinvolto. Questo Willy Haas, da grande critico letterario tedesco nel Dopoguerra, nelle sue memorie scrisse: “Niente mi è più inspiegabile, di ciò che degli intellettuali di New York, Parigi e Londra degli anni ’40 e ’50, possano trovare in Kafka”.

    Per Haas infatti, il successo di Kafka rappresentava un autentico enigma, lo considerava anzi: “la proprietà privata più praghese dei cittadini praghesi degli anni 1905-1910.”

    A prendere in seria considerazione Kafka come scrittore, oltre al suo primo editore Wolff, furono Max Brod e Milena Jesenka, che tradusse tutte i racconti di Kafka pubblicati fino al 1920 in lingua ceca e li fece pubblicare sulle riviste letterarie praghesi più importanti. Morto Kafka e pubblicato da Brod nel Dopoguerra tutto ciò che Kafka non volle fosse pubblicato, quando i suoi scritti cominciarono ad riscontrare riconoscimento mondiale, Werfel e Haas a malapena si ricordavano dell’uomo che avevano conosciuto in gioventù Praga e che mai si sarebbero aspettati potesse riscuotere successo mondiale, dacché erano convinti che avrebbe raggiunto a malapena la frontiera nord-boema, proprio perché erano convinti che Kafka era un fenomeno al massimo folkloristico-famigliare praghese. Haas, proprio all’inizio degli anni Cinquanta, si ricordò invece bene di essere in possesso delle lettere di Kafka a Milena Jesenska[41] e le vendette ad un editore americano …, non senza omettere certi passaggi che lo riguardarono personalmente, e soprattutto senza curarsi di chiedere il consenso alla figlia di Milena.[42]

    Riguardo l’accoglienza favorevole di Kafka sul piano internazionale che colse di sorpresa proprio Werfel e Brod, i due letterati che avevano condiviso la gioventù nella stessa città, lo studioso Born nota:

    “Forse proprio queste uscite, di Werfel nel 1909 e di Haas nel 1950, sono particolarmente eloquenti. Per ambedue Kafka era quell’uomo taciturno e un po’ strano, che avevano occasionalmente conosciuto prima della Grande guerra al Café Arco. E  che per loro in ricordo rimase. Io penso che ne Haas ne Werfel – forse perché era loro troppo famigliare dai loro incontri – si siano accorti che ciò che Kafka scrisse nel suo tedesco praghese parco – e che pur usava nella sua caratteristica coscienziosità -, fosse letteratura mondiale, nel vero senso goethiano del termine: appartenente alle più grandi creazioni della letteratura e quindi patrimonio comune dell’umanità. Perché decisivo non fu, come nel caso delle letterature nazionali, una certa caratteristica linguistica, la cui mancanza per esempio Fritz Mauthner lamentava per il tedesco praghese, ma la lingua delle sue immagini. Queste non sono legate a nessuna cerchia culturale, ma hanno – come i miti e i sogni – tratti archetipici, sono proto-situazioni dell’esperienza umana: cattività e desiderio di liberazione, esclusione e il desiderio di essere accolti, l’attesa di entrare davanti a un portone, il cammino immensurabile verso una meta e simili. Con il che mi spiego, perché le opere di Kafka anche in altri continenti, in culture del tutto diverse, vengono comprese. Per quanto i lettori dei paesi di lingua tedesca possono ammirare la chiarezza della prosa kafkiana, ciò che le ha conferito valenza mondiale, sono le loro immagini indimenticabili (einprägsam). Sono queste immagini che hanno fatto sì che oggi non si esita di riservare a Kafka, il primo posto tra gli scrittori della letteratura di Praga.”[43]

    Con il che Born da un lato punta su un fattore importante della creazione di Kafka, vale a dire le su immagini che avrebbero “tratti archetipici”, che noi, per “il tratto junghiano” e quindi oggi ben noti “tratti razzisti” di questi, non possiamo che rifiutare. Dall’altro lato -strano lapsus – Born poi riporta Kafka esattamente alla “letteratura di Praga”, da dove doveva svincolarlo per potarlo al firmamento letterario universale. La spiegazione di Born, che gli “amici di gioventù” di Kafka, Werfel e Haas, semplicemente non avevano “capito” che Kafka avesse stoffa universale, perché lo avevano perso di vista, alla luce di ciò che Haas ebbe da scrivere ancora su Kafka nel 1957 e che Born riporta letteralmente, sembra veramente mite:

    “Anche la sua fama mondiale, ovvero la sua fama mondiale passata (sic: “vergangener Ruhm”) mi ispira involontaria comicità. Non posso immaginarmi come qualcuno che non sia nato a Praga tra il 1890 e il 1880, possa comprenderlo … E da questo sono nati e nascono i malintesi più assurdi … Kafka mi sembra un secreto austriaco-ebraico-praghese ancora ben celato, per il quale noi soltanto possediamo la chiave. E mia gioia più grande è che la “fama mondiale” di Kafka, questo mucchio di perversi malintesi, finalmente comincia a sciamare e che noi, gli amici, lo possiamo riavere tra noi… Ritengo, se necessario, che Werfel sia incomparabilmente più grande e universale di Kafka.”

    La citazione si commenta da sola.

    Mentre la domanda di fondo invece, del perché Kafka, a partire dalla sua realtà, familiarmente e socialmente ristretta, di ebreo praghese di lingua tedesca sia riuscito a scrivere opere che hanno colpito e continuano a colpire milioni di lettori in tutto il mondo, anche nella traduzione in centinaia di lingue diverse, non è stata ancora esaurita.

    Da dove nasce l’universale di Kafka? Oggi si pensa che oltre che dalla sua capacità di creare immagini di qualità diversa da quelle che indica Haas e che sono invece le idee forti da cui nascono i racconti di Kafka.

    So lässt sich gerade an Kafka verfolgen, dass es im menschlichen Leben kaum eine fest umrissene, kontextunabhängige, im Laufe der Zeit unveränderbare und nur auf einen Parameter wie jenen der Sprache reduzierbare Identität gibt. Ähnliches gilt aber auch für die Identität größerer sozialer Gruppen oder gar Nationen. Und selbst wenn die Sprache bei Franz Kafkas Identitätssuche ein wichtiges Kriterium und auch ein strategisch verwendetes Mittel war, wie dies seine Reflexion der Sprachenfrage, seine Sprachbekenntnisse, sein Sprachver-halten und schließlich auch sein Werk zeigen, ist Kafka kaum über eine Spra-che zu erfassen. Falls Kafkas Identität im Hinblick auf die Sprache charakteri-siert werden kann, dann sollte man nicht von einer Sprache und von einem Monolingualismus ausgehen, sondern von einem oszillierenden Multilingua-lismus, von Sprachenwechsel und -wandel. Durch ihn entsteht eine spezifi-sche kulturelle Qualität, die die Begriffe der Assimilation und der Akkulturati-on überwindet und den Weg zu einer komplexeren „universalen“, multilingualen Kultur – wie sie die jüdische Diaspora vorlebt – öffnet.

    Marek Nekula, Kafkas Sprachen und Sprachidentitäten

    (, spogliati di ogni riferimento a realtà circostanziabili in quanto “descritte” e in cui gli “amici” invece riconoscevano realtà praghesi reali esatte, questo universale si radichi anche e proprio nel suo “altotedesco il più personale”. Non si riesce a “spiegare” le immagini di Kafka dicendo che sono come immagini di sogni lo fece anche Haas. Non si riesce a spiegare le immagini di Kafka, perché esse parlano da se e per se, senza avere bisogno di riferirsi a fatti o persone reali. Si riesce a parlare di esse soltanto per similitudini: sono come il volto dell’attrice in un primo piano cinematografico che è il volto reale dell’attrice nel momento che la macchina ne registra l’apparenza esterna, ma questo volto femminile fisiognomicamente personalissimo sullo schermo, essendo “animato” interiormente dall’attrice (e non dallo scorrere dei 24 fotogrammi registrati e proiettati al secondo), diventa poi “l’immagine di una donna” per il moto interiore che trasmette, e che diventa quello di mille donne al insieme. Queste immagini nascono dal processo creativo artistico della rappresentazione che non si può spiegare razionalmente, perché nasce a livello più profondo, del non razionale umano, ma non nasce dal ricordo di un sogno. Lo psichiatra Massimo Fagioli ha definito questo processo come creazione di “immagini inconsce non oniriche”.

    Kafka, da madrelingue quasi bilingue ceco-tedesco e con conoscenza acquisita del latino, francese, jiddish e ebraico, aveva una consapevolezza linguistica talmente raffinata che assieme alla sua sensibilità linguistica, “tenera” e intatta quanto quella di Kraus per aver fatto memoria dell’unico dialetto che alleggiava nel suo ambiente famigliare praghese sotto forma di suono fantasma dello jiddish, che avvertiva nel tedesco “cartaceo” già altamente standardizzato della sua epoca ogni sfumatura di senso. E che usava le parole con l’onestà che lo caratterizzava fin nel midollo, permettendogli di usare soltanto le parole che gli corrispondevano intimamente, misurandole su questo suono. Da cui le “ripetizioni”, la “parchezza”, la “povertà”, l’ “asciutezza” del suo tedesco; il contrario totale della frivolezza, dei giochi e delle invenzioni di parola molto in voga nella società e nel circo letterario viennese.

    La metafora del bambino rubato è ambientata nel circo, che notoriamente è metafora del mondo artistico. Kafka come noi sapeva, che al circo i più bravi non sono coloro che riescono nei giochi di prestigio più difficili, ma coloro che con i loro numeri rischiano di uccidere i compagni o se stessi. E sappiamo come Kafka che il vero funambolo non usa la rete, ne va la sua identità.

    La stupefacente, funambola consapevolezza del valore della propria opera in Kafka è forse misurabile soltanto sul coraggio con cui ha vissuto e scritto per sette anni da malato condannato a morte. Coraggio che era della medesima stoffa umana di quello della sorella Ottla, che volontariamente ha accompagnato 223 bambini nel trasporto ad Auschwitz da Teresienstatt, dove lei, rimanendo, si sarebbe potuta salvare. Coraggio che ci fa riecheggiare il disagio provato per il “zugerichtet” posto vicino alla parola “bambino” nella metafora di Kafka, che fa orrore, per sapere cosa si è potuto fare a tanti bambini rubati. Il bambino rubato della lingua tedesca in cui Kafka scriveva, non era di Franz, come i bambini che Ottla non ha voluto lasciare soli su quel treno, non erano suoi. I bambini rubati, quando ce li si trova vicini, non possono lasciare soli, ma si debbono amare come hanno fatto i due fratelli Kafka, come figli. E per questo è dovuto dedicare loro un po’ di memoria.

    Anche per i tanti bambini rubati che nel mondo nostro mondo globalizzato più pieno di migranti che mai, vivono abbandonati e vengono conciati alla meglio per “danzare sulla corda”. Bambini lingue e bambini veri.

    12  luglio 2012

    © Susanne Portmann tutti i diritti riservati


    [1] Per “Literatur oder man wird doch da sehn. Magische Operette in zwei Teilen” (“Letteratura ovvero vi si vedrà. Operetta magica in due parti”), uscito presso la casa editrice “Die Fackel” nel 1921, si veda la scheda 1 a fine testo. Kraus, in “Literatur”, tra molti altri che facevano parte della scena letteraria viennese, allude anche a Max Brod.

    [2] Si nota che Kafka dice di aver letto l’opera di Kraus “qualche di tempo fa”, “vor einiger Zeit”, che può anzi significare “parecchio tempo fa”, e che insiste su questo arco di tempo passato dalla lettura con “dopo la prima lettura” e “da allora”. Di fatto, “Literatur” era uscito soltanto a maggio del 1921, quindi poco prima che Kafka scrivesse questa lettera a Brod. Ci troviamo quindi di fronte alla strana operazione di Kafka, di rimandare ad un passato inverosimile la lettura e per cui si veda oltre.

    [3] Il “mauscheln” qui sta per il tedesco famigliare e colorito di residui di jiddish, proprio alle comunità ebraiche e per cui si veda la scheda 2 a fine testo.

    [4] “Anmassung” significa “presunzione”, “pretenzione”, “arroganza”, ma viene il dubbio che Kafka lo usi tenendo a mente il senso letterale della parola: il sostantivo “Anmassung” è derivato dal verbo “anmessen” che è il prendere le misure dei sarti sulla persona prima di confezionare l’abito. Il dubbio è rafforzato in quanto dopo dice che “misurato” su Kraus, il conflitto della giovane generazione degli ebrei sia diventato visibile.

    [5] Vedi scheda 3 a fine testo

    [6] L’emancipazione degli ebrei nel Regno austroungarico risale al 1848.

    [7] In: Kafka, Franz: Briefe 1902-1924. La traduzione è nostra e letterale quanto possibile. Il testo tedesco originale della lettera è accessibile all’URL: http://www.odaha.com/sites/default/files/Breife1902-1924.pdf

    [8] Questo imbarazzo di Kafka sulla propria firma da apporre, non è un suo atteggiarsi retorico; firmarsi ogni volta lo metteva di fronte al problema della sua identità di “tedesco” in quanto “Franz” e di ebreo in quanto “Kafka”, che è un cognome ebraico anche se ceco. Gli ebrei spesso erano obbligati a scegliere i loro cognomi da elenchi dei registri anagrafici, imposti dalle autorità (come facevano anche, p.e. i francesi con i berberi in Algeria). Il ceco “kavka” significa cornacchia e quest’uccello fungeva da insegna al negozio del padre, Hermann Kafka. Il nome “Franz”, ovviamente, è tutto tedesco,  che si dava ai figli in onore dell’imperatore.

    Già per essere assunto presso le Assicurazioni Generali, Kafka doveva avere conoscenza perfetta del tedesco e del ceco e all’Istituto di assicurazione per gli infortuni dei lavoratori dove in seguito lavorò fino al suo pensionamento per malattia, dopo la proclamazione dell’indipendenza cecoslovacca nel 1918, la corrispondenza venne redatta soltanto in ceco. Ma Kafka già prima sul lavoro si firmava “Dr.F.Kafka” per evitare di essere individuato come ebreo tedesco. Nel susseguirsi delle firme che appone alle lettere a Milena Jesenká (che era unilingua ceca fino al 1918) – da “Suo F. Kafka”, a “Suo FranzK.” (firma che lei fraintende come “Frank” chiamandolo poi sempre così), a “Suo F”, a “Tuo F”, a “Tuo”, al tralasciare completamente la firmav- rispecchia appieno il crescente coinvolgimento passionale di Kafka per la donna. Il valore identitario di ogni suo firmarsi è che consiste nell’amputazione di parti del nome o cognome, si palesa infine sul piano letteraria: i suoi personaggi, K. e F., sono oggi patrimonio dell’immaginario universale. Senza costargli imbarazzo, con il suo nome e cognome per esteso, ha firmato una cosa soltanto: i racconti che ha deciso di pubblicare lui stesso.

    [9] Kafka è cresciuto nel contesto famigliare bilingue ceco-tedesco dei suoi genitori, tipico di Praga e tipico soprattutto dell’ambiente praghese ebraico. E come tutti i bambini cresciuti in un ambiente bilingue o multilingue, nei testi privati confidenziali (diario, lettere, cartoline ecc.), faceva degli errori di lingua (ortografici e lessicali), mentre stava attentissimo a non farne in ciò che scrisse sul lavoro e soprautto nei testi che ha voluto pubblicare, vale a dire la maggior parte dei racconti che ha scritto e pubblicato in vita. Questi suoi “errori” nei testi privati sono stati oggetto di studi linguistici recenti, per appurare una sua presunta auto-percezione di un deficit linguistico o di mancanza di competenza nei confronti della lingua tedesca, per non esserne stato perfettamente padrone per sua provenienza praghese e ebraica, e per cui si veda oltre.

    [11] Per cui vedi scheda  a fine testo.

    [12] Austroungarico fu anche Jasek Havel, l’autore de “Il soldato Schweik”, prima opera in lingua ceca ad entrare sulla scena letteraria europea. Sul lato del regno tedesco-prussiano, si notano invece le tre donne Else Laske-Schüler, Nelly Sachs (Premio Nobel 1966), Anna Seghers, di origine ebraico anche loro.

    [13] Boris Blahak, “Über das Jiddische in Kafkas Sprache”. In: brücken. Germanistisches Jahrbuch Tschechien – Slowakei. Neue Folge 18. H. 1-2. Praha: Nakladatelství Lidové noviny. 2010http://letnapark-prager-kleine-seiten.com/boris-blahak.html

    [14] Nekula, M: Juden zwischen Deutschen und Tschechen? In: Nekula M./Koschmal W. (Hg.): Veröffentlichungen Carolinum 104. München: Oldenbourg 2006, VII-X, 125-150, prefazione. Qui andrebbe accennato anche il comportamento di Kafka in occasione del censimento del 1910: il padre Hermann, la madre e le tre sorelle di Kafka, si dichiararono in quell’occasione “di  lingua ceca”, mentre Kafka si definì “di lingua tedesca”. cfr: Marek Nekula: “Franz Kafkas Sprachen und Identitäten”. In: “Juden zwischen Deutschen und Tschechen”. 2006. op. cit.

    [15] ibidem

    [16] Molti tra loro che studiarono legge e lo sbocco professionale dell’impiego nell’amministrazione naturale rimase loro quasi inaccessibile per blocco antisemita del ceto amministrativo boemo tedesco e per cui si videro costretti a lavorare nelle imprese familiari. L’assunzione di Kafka presso le Assicurazioni Generali di Praga, è da considerarsi come fatto eccezionale per un ebreo. (Cfr. Verena Bauer, „Regionalismen in Franz Kafkas Deutsch (Amtliche Schriften, Tagebücher, Briefe). Ein Projektbericht1”. In: brücken. Germanistisches Jahrbuch Tschechien – Slowakei. Neue Folge 14. Praha, 341-371)

    [17] “Passo ora gli interi pomeriggi per le vie mi tutto nell’odio contro gli ebrei e mi tuffo nell’odio contro gli ebrei. Un giorno li ho sentiti chiamare “prašivé plemeno” (“razza rognosa”). Ora non saebbe ovvio andarsene da un luogo dove si è odiati così (per falso non è affatto necessario il sionismo o il sentimento di appartenenza al popolo)? L’eroismo del rimanere a ogni costo è quello delle blatte che pure non si possono estirpare dalla stanza da bagno. In questo momento ho guardato dalla finestra: polizia a cavallo, gendarmeria pronta all’attacco alla baionetta, folla che si disperde gridando e quassù, alla finestra, l’odiosa vergogna di vivere sempre al riparo.” Kranz Kafka: “Lettere a Milena”. Mondadori. Milano. 1988. (traduzione di Ferruccio Masini). Lettera di metà novembre 1920, p. 236.

    Kafka qui assiste allo scoppio dell’antisemitismo ceco dopo l’indipendenza che covava da tempo tenuto a bada dal potere austroungarico.

    [18] Su Brod il suo zionismo Lettere a Milena:

    [19] Per i genitori di Kafka, in assenza di documenti pervenuti,  è difficile stabilire anche se frequentassero scuole di lingue tedesche o di lingua ceca. Per Hermann Kafka si tende, per analisi di sua corrispondenza di lavoro e lettere alla moglie Julie, anche in base alla sua calligrafia tedesca (deutsche Kurrenschrift) a supporre che frequentasse una scuola d’obbligo di lingua tedesca presso Ossek, dov’era nato. Hermann Kafka ha poi notevolmente migliorato il suo alto tedesco durante il servizio militare e per cui spesso si parla di lui come “ebreo tedesco”; mentre in base a testi trovati di pugno di Julie Loewy, lettere in tedesco alle figlie o comunicazioni per gli impiegati e i domestici in ceco perfetto (se non ortograficamente, almeno foneticamente) e nella calligrafia latina riformata (reformierte lateinische Kurrentschrift) come veniva insegnata nelle scuole ceche già dal 1884, a supporre che frequentasse una scuola di lingua ceca e per cui per della madre di Kafka, spesso si dice una “ebrea ceca”. Questa disquisizione germanista-linguista (e per versi nazionalista) sembra oramai superata: ambedue i genitori sapevano però sia il ceco che il tedesco (e bene), perché nelle famiglie ebraiche rurali, il tedesco era comunque la lingua che si usava in famiglia (prima lo jiddish, e nell’Ottocento sempre più il tedesco contemporaneo con interferenze jiddish sempre più volatiliQuanto al ceco di Kafka, continuò volontariamente a seguire l’insegnamento anche dopo la quarta elementare (fino allora era obbligatorio nelle scuole tedesche) e quanto alla sula calligrafia, è rintracciabile precisamente il momento del passaggio dalla calligrafia tedesca che si insegnava nelle scuole tedesche alla calligrafia latina insegnata in quelle ceche, tra la prima stesura del racconto “Descrizione di una lotta” (titolo di Brod) nel 1902 e la seconda stesura nel 1904. D’allora in poi avrebbe sempre usato la corsiva latina e il suo cambio di calligrafia può essere ricondotto anch’esso a motivi di difesa dell’antisemitismo in ambito ceco. (Cfr: Nekula, Marek: Kafkas Sprachen und Identitäten. In op. cit. 2006.)

    [20] Boris Blahak, “Über das Jiddische in Kafkas Sprache”, op. cit.

    [21] Lettera a Brod da Zürau dell’inizio ottobre 1917, accessibile sempre all’URL: http://www.odaha.com/sites/default/files/Breife1902-1924.pdf

    [22] Questa affermazione è stata fatta tenendo presente le due famose citazioni sempre tirate in ballo riguardo la discussione ceco versus tedesco in Kafka: “mia madre non-tedesca” (meine undeutsche Mutter)[22], come per l’altro passo: “Mutter” per l’ebreo suona particolarmente tedesco, contiene inconsciamente (unbewusst) a fianco al lustro cristiano anche freddezza cristiana, la madre ebrea chiamata “Mutter” diventa per ciò non soltanto comica, ma anche estranea. “Mama” (ceco) sarebbe un nome migliore se soltanto non ci si immaginasse dietro di lui “Mutter”. Io credo che oramai soltanto ricordi mantengano la famiglia ebrea, perché anche la parola “Vater”, non indica affatto più il padre ebreo”.[22]  (ambedue cit. in: Marek Nekula: Franz Kafkas Sprachen und Sprachlosigkeit”. In: Juden zwischen Deutschen und Tscechen, Monaco, 2006, op. cit.) Per il secondo passo annotiamo che per quanto “mama” stia per il ceco (dove la madre è volentieri chiamata anche maminka), in jiddish non siamo lontani visto che “lingua madre”, in jiddish, è “mame-loschen.”

    [23] Vedi scheda  per le linguistiche giuseppine e tedesco praghese a fine testo.

    [24] Cit da: Nekula Marek, „Franz Kafkas Deutsch“ (Regensburg), 2003, Linguistik online 13, 1/03:  http://www.linguistik-online.de/13_01/nekula.html (conclusioni).

    Cfr: Blahak Boris: “Über das Jiddische in Kafkas Sprache”, 2010, http://letnapark-prager-kleine-seiten.com/boris-blahak.html. e Verena Bauer, op.cit.

    [25] Cit. in Nekula, op cit, nota

    [26] Binder, Harmut: “Entlarvung einer Chimäre: Die deutsche Sprachinsel Prag”. In: Godé, Maurice / Le Rider, Jacques / Mayer, Françoise (Hgg.): Allemands, Juifs et Tchèques à Prague de 1890 à 1924 / Deutsche, Juden und Tschechen in Prag 1890-1924. (Bibliothèque d´Études Germaniques et Centre-Européennes 1). Montpellier: Université Paul-Valéry, 183-209.

    [27] Nekula Marek, op cit: „ La singolarità dello stile di Kafka viene da un lato interpretato per „povertà linguistica, l“impoverimento linguistico“ e „la decadenza linguistica“ della „lingua di ghetto stililizzata“  (Trost 1962), ovvero spiegata con una lingua senza ambiente dialettale circostante (Wagenbach 1964) e “differenze sociali” (Eisner 1961), e d’altro canto ricondotto alla “influenza della lingua giuridica” (Gerhardt 1968). Lavori linguistici scientifici o linguisticamente orientati in tal caso sono molto rari. A molti che in riferimento a Kafka parlano di fenomeni come “isola linguistica tedesca” o del suo presupposto “inflesso ebraico” (Politzer 1950: 280), bastano uno due paragrafi magri, per liquidare la lingua di Kafka.” Cit: Blahak Boris, op.cit.

    [28] Per cui si veda Von Hage, Volker: “Faustschlag auf den Schädel”. Der Spiegel. 23/1998. URL: http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-7898508.html e lo scambio di lettere tra il custode del lascito depositato ad Oxford, Parsely e l’editore K.D. Wolff accessibile all’URL:

    [29] Come nel caso de “Il processo”: Nella sua postfazione alla prima edizione del romanzo nel 1925 Max Brod dice: “Il manoscritto è senza titolo. Ma Kafka ha sempre menzionato nella conversazione il romanzo con il Titolo  “Il processo”. Ciò che Brod dice è sostenuto anche da annotazioni del diario di Kafka, in cui il romanzo viene chiamato. Non è tuttavia da escludere che si trattava di un titolo di lavoro che Kafka avrebbe potuto ancora cambiare a conclusione del romanzo. La titolazione finale in lui avveniva in regola a lavoro concluso; molti dei suoi testi pubblicati ex lascito sono stati intitolati da Brod, e la scelta è spesso opinabile. Così aveva p.e. titolato il romanzo “America”, mentre Kafka nelle lettere aveva previsto il titolo “Der Verschollene” [malamente traducibile con l’improponibile “Il disparso”, sarebbe “Colui che è scomparso”, ma l’aggettivo tedesco è più forte del verbo “sparire” italiano, si tratta di una sparizione irrimediabile, senza traccia e con morta presunta]. Cit. da: Bender

    [30] Vedi p.e. l’articolo: “Kafka l’ultimo mistero è nascosto in un frigorifero” di Fabio Sindici, su “La Stampa”, 31. marzo 2011

    [31] Vedi scheda su “Literatur” a parte.

    [32] http://de.wikipedia.org/wiki/Kurt_Wolff

    [33] Vedi nota

    [34] L’argomento è affrontato in un altro nostro lavoro.

    [35] Vedi: http://www.franzkafka.de/franzkafka/fundstueck_archiv/fundstueck/457318

    [36] Reich-Ranicki, Marcel: Mein Leben. Deutsche Verlags-Anstalt. Stuttgart München … p.95.

    [37] “Sofort nach dem Überfall der Nazihorden auf die CSSR kamen über 200.ooo Juden in den Gaskammern um, starben bei der Deportation und bei Erschießungsaktionen oder fielen den schrecklichen Bedingungen der Ghettos zum Opfer. Von den tschechischen Juden (385.ooo) haben lediglich 35.ooo Juden überlebt.Die Situation der Nachkriegszeit war für viele Überlebenden gar nicht viel besser, denn die neu errichtete Tschechoslowakei, unterschied sich 1945 in vielem von der ehemaligen Masaryk-Benes-Republik. Vor allem war sie weniger toleranter dafür aber überaus fanatisch mißgesinnt gegen ihre neuen, alten Minderheiten.Den aus den KZ und Ghettos zurückkehrenden Juden war man feindlich gesinnt. Waren sie doch Zeugen davon, daß die Tschechen mit den Besatzern teilweise gemeinsame Sache machten: Denn es gab immerhin einige Tschechen die als Wachpolizisten dienten und viele Slowaken, die damals an Erschießungsaktionen tatkräftig teilnahmen.”Chaim, Frank. Juden in der ehemaligen Tschechoslowakei. http://www.hagalil.com/czech/juedische-geschichte/cssr-0.htm

    [38] (crf. l’articolo di Gerrit Bartels, “Franz und der Frühling”. In: Der Tagesspiegel“, 27. Oktober 2008, URL: http://www.tagesspiegel.de/kultur/literatur-alt/franz-und-der-fruehling/1358318.html)

    [39] „niemals unter deutschem Volk gelebt“ (KAFKA 1983b: 17) zu haben, esprime anche la coscienza deficitaria di Kafka nei riguardi lingua in

    cui scrisse (PAWEL 1994: 42; KOCH 2007: 44).e per cui si sforzò nei

    [40] Willy Haas: “Die Literarische Welt. Erinnerungen. List. München. 1957, p. 30. Cit. in: Jürgen Born: “Kafka und die Prager deutsche Literatur”, in: “Kafka und Prag: Colloquium im Goethe Institut Prag, 24.-27. November 1992”, Berlin/New York, 1994, de Gruyter, p. 8. Max Brod riferisce lo stesso giudizio di Werfel con le parole: “Al di là di ceco-Bodenbach nessuno capirà Kafka”. (ibidem). Bodenbach era luogo di frontiera tra Boemia e Germania.

    [42] E Willy Haas aveva un motivo privato che Kafka rimanesse sepolto nella “loro” memoria, per via dello scandalo del suicidio del giovane poeta praghese Josef Rainer nel 1920 (in cui Haas fu coinvolto in quanto amante della moglie di Rainer e poi marito della stessa moglie). Scandalo che gioca un ruolo non indifferente nelle lettere (e quindi nella relazione) tra Franz Kafka e Milena Jesenskà. La figlia di Milena Jesenska mise in dubbio il “legittimo” possesso delle lettere da parte di Haas nel suo libro dedicato alla madre. Vedi Jana Cerna: “Mittente Milena Jesenka……

    [43] Jürgen Born, op. cit, p. 9.

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