• Enciclopedia del crimine – Storia della Mafia – terza parte

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    dalla Redazione

     

    Storia della Mafia – terza parte

    La seconda età dell’oro

    La seconda età d’oro dell’Onorata Società comincia con lo sbarco alleato in Sicilia, il 10 luglio 1943. A dire il vero, il suo risveglio non è improvviso, anzi, esso avviene tre anni prima dell’arrivo delle armate anglo-americane. I primi segni si possono già scorgere nel 1940, quando l’Italia entra in guerra.

    Il conflitto mondiale si rivela una pacchia per la mafia, perché tutte le epoche di restrizioni sono sempre fonti di profitto per coloro che sanno come organizzarsi.

    Il mercato nero diventa ben presto una specialità della mafia. Per esempio, tutto il traffico illecito dei buoni di benzina passa attraverso le sue maglie. Ma si può fare ancora meglio: vendere i propri servigi a Cosa Nostra. Vito Genovese funge da intermediario. Probabilmente, è grazie a lui che Mussolini può sbarazzarsi di un giornalista contrario al fascismo, i cui articoli lo mettono in cattiva luce di fronte all’opinione pubblica americana, Carlo Tresca.

    Carlo Tresca assassinato

    Beninteso, la mafia fa il doppio gioco. Ogni tanto si vende al servizio segreto italiano, ogni tanto al servizio segreto americano.

    D’altronde, sembra che gli uni e gli altri vi traggano vantaggio e a volte siano perfino felici di mettersi d’accordo attraverso l’opera di qualche intermediario. E così, i sabotaggi delle navi americane, nei porti controllati dai mafiosi, sono ridotti al minimo, mentre ai fascisti, in compenso, sono fornite alcune informazioni utili su quanto avviene negli Stati Uniti.

    Don Calò

     

    Calogero Vizzini – “Don Calò”

    Un uomo incarna da solo la mafia di quest’epoca: don Calogero Vizzini. Nello stesso modo in cui don Vito Cascio Ferro era il grande capo degli anni 1910-1930, don Calò è il grande capo degli anni 19401954.

    Egli raggiunge la gloria tardi, ma è una gloria non meno strepitosa del suo predecessore. Quando muore, nel luglio 1954, non è in una cella come don Vito, ma nel suo letto, dopo aver ricevuto i sacramenti.

    I funerali di don Calò sono grandiosi. Seguono il feretro numerosi uomini politici, alcuni prelati e tutti i rappresentanti più importanti dell’Onorata Società. Il delfino, don Genco Russo, guida il corteo funebre. Non è un assassino, quello che si porta A seppellire, ma un personaggio importante, rispettato, celebre e carico d’onori.

    La sua vita, come quella degli altri grandi capi siciliani, o boss americani, è romanzesca.

    Egli nacque il 24 luglio 1,877 a Villalba. Suo padre era un contadino; la madre, Turidda Scarlata, anche lei di origine paesana, aveva un fratello prete, che andava e veniva dall’Arcivescovado di Caltanissetta, e questo fatto faceva sì che Turidda venisse considerata di un gradino più su. Forse per questo don Calò si terrà sempre in buoni rapporti con la Chiesa. D’altronde, i suoi due fratelli, Giovanni e Salvatore, si faranno preti. Lui, il piccolo Calogero, ha altre ambizioni. A 14 anni, è il disonore della famiglia: non sa né leggere né scrivere. Ma lui non se ne preoccupa.

    La gloria, lui, non è in cielo che se la vuole conquistare, ma sulla terra, e il più in fretta possibile. Quanto all’apprendistato che egli intende seguire, non è certo quello della scuola, ma un altro, molto più efficace e rapido. A quell’epoca, la regione non manca di banditi le cui gesta hanno del leggendario. È in mezzo a costoro che il piccolo Calogero troverà i suoi primi maestri. A 15 anni, entra a far parte della banda di Gervasi. Un anno dopo, entra in quella di Vassalona, conosciuto soprattutto per la sua ferocia e per avere sempre le tasche piene d’oro. Nel frattempo, il ragazzo viene arrestato per omicidio, poi rimesso in libertà grazie all’intervento dello zio, il prete, quello che va e viene dall’Arcivescovado.

    Questo primo incidente è seguìto da numerosi altri. Non conosciamo il numero esatto degli omicidi attribuibili al giovane Calogero. In compenso, sappiamo che egli venne arrestato una quindicina di volte sempre per omicidio. Arrestato, processato, ma quasi sempre assolto per mancanza di prove.

    La prima guerra mondiale gli permette infine di rubare per conto suo. L’esercito pretende di voler requisire a basso prezzo i cavalli. Una pacchia, per questo giovane mafioso dotato di immaginazione e senza scrupoli. Per Calogero, è un momento di gloria. Egli ormai è don Calò. Tuttavia, è solo un capo fra tanti altri. Ciò che ben presto lo distinguerà dai suoi pari, oltre alla fortuna e a una grande intelligenza, è l’intuito. Nel 1922, ha l’ottima idea di fare un favore a un giovane fascista ricercato dalla polizia, nascondendolo in una casa che gli appartiene. Poi, senza che ci si possa spiegare con chiarezza questo gesto, versa una forte somma di denaro ai sostenitori di Mussolini, per finanziare la marcia su Roma. È grazie a questa sua posizione che, nel 1929, mentre don Vito Cascio Ferro viene rinchiuso in galera, don Calò supera indenne la vasta operazione antimafia e diventa il capo assoluto del regno mafioso.

    Mussolini alla marcia su Roma

    Ma la sua vera incoronazione avrà luogo più tardi, e la sua corona la riceverà direttamente dalle mani degli americani, qualche giorno dopo lo sbarco in Sicilia, quando verrà eletto sindaco di Villalba, nel 1943. Il suo primo atto come sindaco non manca certo di opportunismo. Dietro il pretesto di una ispezione, entra nel tribunale di Caltanissetta, si impossessa di tutti gli incartamenti che lo riguardano e li fa sparire. Da allora, non solo non rischia più niente, ma è in grado di fare quello Che vuole. È il momento in cui don Calò comincia a interessarsi di politica.

    Tra il separatismo, Salvatore Giuliano, eroe moderno della Sicilia dopoguerra, l’autonomia regionale e la Democrazia Cristiana, chi scegliere? Su quale cavallo puntare? Chi sarà il vincente? Le esitazioni di don Calò saranno quelle della mafia tutta.

    Una partita formidabile ha inizio. Don Calò temporeggia, è prudente, ma ogni sua mossa sorprende l’avversario. Tuttavia, la sua tattica è semplice: lucidità, opportunismo, cinismo. Don Calò, con l’aiuto nascosto di Luciano e di Vito Genovese, porterà in poco tempo l’Onorata Società all’apice della potenza.

     

     

    Gli americani in Sicilia

    Quando gli Stati Uniti entrano in guerra, Luciano è sempre nella fredda prigione di Dannemora. Costello assicura con prudenza i contatti con New York. Genovese si trova a Roma, a Napoli o a Palermo.

    Quanto a don Calò, egli controlla già quasi tutte le cosche dell’isola.

    Da una parte e dall’altra dell’oceano, la mafia è molto tranquilla. Non se ne parla quasi più. Tuttavia, essa mai ha avuto dei capi così capaci e prestigiosi. Mai è stata diretta meglio e con maggior sicurezza.

    Nell’autunno del 1942, il Naval Intelligence Service prende contatto con uno dei più grandi avvocati dei capi mafiosi, Moses Polakof. Costui, conosciuto per la sua abilità, è apparentemente l’avvocato di Meyer Lansky. Ma non è a questo ebreo che il servizio segreto s’interessa, è a Luciano, al capo in persona. Il servizio segreto è abbastanza bene informato per sapere che Meyer Lansky è un amico carissimo del big boss e che Polakof mantiene ottimi rapporti con l’avvocato di costui, GeorgeWolf. Non sappiamo cosa il Naval Intelligence Service incarichi Polakof di trasmettere da parte sua a Luciano, quando apre a costui le porte di Siberia, affinché abbia un lungo colloquio a quattr’occhi con il nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti. Non sappiamo nemmeno una parola di quanto i due uomini si siano detti. Ma, poco tempo dopo, Luciano viene trasferito in una prigione molto più confortevole, nei pressi di Albany, da dove può comunicare liberamente con il mondo esterno. Infine, benché egli sia stato condannato da 30 a 50 anni di reclusione, è proprio il suo vecchio avversario, Thomas E. Dewey, l’ex procuratore divenuto nel frattempo governatore dello Stato di New York, a trasformare la sentenza in una pena detentiva di nove anni e sei mesi.

    Luki Luciano

    Il 9 febbraio 1946, Luciano verrà rinviato in patria, a Napoli.

    Bisognerà aspettare la pubblicazione dei risultati dell’inchiesta del senatore Kefauver, per cominciare a far luce sul mistero di questa strana benevolenza. Secondo il senatore, Luciano avrebbe reso tali e importanti servigi all’America, che quest’ultima, per dimostrargli la sua riconoscenza, non poteva fare a meno di rimetterlo in libertà. Sulla natura precisa di questi  ‘servigi’ , Kefauvèr non si sbottona troppo.

    La versione non ufficiale è più ricca di particolari. Addirittura troppo, ma in essa ci deve essere senz’altro una parte di verità.

    Secondo questa versione, è grazie all’aiuto della mafia che gli alleati sono potuti sbarcare nell’isola e sono riusciti a occuparla tutta a tempo di record. L’intera operazione “liberazione della Sicilia” sarebbe stata organizzata nella cella di Luciano che, attraverso Genovese e il servizio segreto americano che fungevano da intermediari, avrebbe organizzato lo sbarco alleato.

    Naturalmente, in tutta la faccenda, don Calò ha giocato un ruolo di primo piano.

    Come sappiamo, gli americani si affrettarono d’altronde a ricompensarlo nominandolo sindaco della sua città. Ma la versione non ufficiale dice ancora di più.

    Sembra che Luciano fosse addirittura presente sul teatro delle operazioni. Sarebbe stato paracadutato nell’isola qualche tempo prima dello sbarco. Alcuni testimoni affermano di averlo visto a Gela. Altri raccontano che, la mattina del 4 luglio, un piccolo aereo sorvolò Villalba a bassa quota.

    Passando sopra la piazza principale, esso lasciò cadere un plico avvolto in un foulard giallo su cui spiccava la sigla di Luciano: una grande L nera. Si trattava, sembra, di un messaggio destinato a don Calò, nel quale il big boss americano gli impartiva le ultime istruzioni.

    Comunque sia, all’alba del 10 luglio, le truppe alleate sbarcano. Tre settimane dopo, esse sono padrone dell’isola.

     

    La potenza e la gloria

    Durante i tre anni seguenti, la mafia di don Calò consoliderà la propria potenza.

    La presenza degli americani, la miseria, l’anarchia che regna dappertutto, la guerra che continua altrove glielo permettono.

    L’A.M.G.O.T. (Amministrazione Governativa Militare in Territorio Occupato) è comandata dal colonnello Poletti, di origine italiana. Il braccio destro di quest’ultimo, il suo uomo di fiducia, altri non è che don Vito Genovese in persona.

    È facile indovinare in che modo tutta la mafia approfitterà di questa manna. L’esercito americano vuol dire materiale, camion, benzina a buon mercato, montagne di viveri e di armi, di sigarette, di vestiti, una vera e propria grotta di Alì Babà, dalla quale i mafiosi attingeranno a piene mani, per poi rivendere il maltolto a peso d’oro.

    Gli americani sono così ciechi? Non è possibile.

    Più facile è che essi sappiano e lascino fare. Parecchi di loro, sono di origine italiana, e soprattutto hanno ricevuto un’accoglienza troppo buona per non mostrarsi indulgenti.

    Ma se è capace di sorridere, di ricevere gli ospiti con fasto, la mafia rimane fondamentalmente fredda e lucida. Riesce, grazie al caos generale, a penetrare negli archivi dei tribunali e bruciare i fascicoli per lei compromettenti. Una volta tornata la pace, ci si accorgerà che tutti gli incartamenti giudiziari dei mafiosi sono scomparsi. Inoltre, la mafia riconquista la terra che i nobili si erano ripresa sotto il fascismo. Ancora una volta, i baroni sono costretti ad abbandonare i propri feudi e ad andarsene in città. Ma questo non è ancora sufficiente per la mafia. Essa vuole impadronirsi definitivamente dei posti chiave, quei posti che sono passaggi obbligati per raggiungere il potere: quelli di sindaco, deputato, presidente di associazioni di ogni tipo.

    Mafia e politica

     

    Questa man bassa della mafia sull’isola incontra tuttavia una certa resistenza da parte della popolazione, e soprattutto da parte dei contadini sempre più affamati.

    A volte, accade addirittura che costoro si rivoltino. La mafia, in questi casi, riporta subito l’ordine. Essa controlla un gran numero di giovani banditi di cui si serve per terrorizzare la gente. Ma la fame è a volte più forte della paura. Durante il duro inverno del ’43-’44, i contadini sfondano le porte dove è conservato il grano, oppure manifestano nelle strade di Palermo.

    I contadini siciliani si ribellano

    L’esercito è costretto a intervenire, e lo scontro si rivela sanguinoso. Il bilancio è di oltre cento morti.

    La mafia capisce che è meglio lasciare un po’ la presa, e soprattutto stornare l’attenzione dei siciliani su qualcos’altro che non sia il mercato nero, la corruzione e la violenza. Ma qual è l’alternativa? Se la mafia è in grado di trarre vantaggio da quasi tutte le situazioni, le manca però la fantasia per escogitare qualcosa che serva per nutrire gli animi. L’occasione le viene offerta dal movimento separatista, il cui ideale è quello di separare la Sicilia dalla penisola e di collegarla agli Stati Uniti, di farne cioè la 49° stella della bandiera americana.

    Consultato, don Calò trova in un primo momento l’idea eccellente. Egli vi vede soprattutto la possibilità, per l’Onorata Società, di fondersi con Cosa Nostra, e l’apertura, per lui e per i suoi amici, di un enorme mercato. Gli stessi americani non sono contrari: poter tenere un piede in Europa non dispiacerebbe certo. Dalla Sicilia, avrebbero la possibilità di controllare l’intero bacino del Mediterraneo. A Finocchiaro Aprile, leader del movimento separatista, viene data via libera.

    Finocchiaro Aprile

    L’idea separatista trova ben presto numerosi accoliti. I siciliani non avevano mai accettato del tutto i confratelli della penisola e, fin dall’inizio, fin dal 1860, li avevano sempre scambiati, più o meno, per degli occupanti, stato d’animo questo che il fascismo non aveva fatto altro che rafforzare.

    Ma, in seguito a reazioni internazionali e ai nuovi rapporti tra gli Stati Uniti e il governo italiano di Badoglio, gli americani non sostengono più la causa separatista.

    Di fronte al voltafaccia degli americani, che cosa farà la mafia che, più di qualsiasi cosa, ha una profonda avversione per ogni tipo di scelta? Rinnegare una causa per la quale essa ha già tanto combattuto e che le è costata così cara? Tradire degli alleati pieni di buona volontà nei suoi confronti? Dare l’impressione ai siciliani di voltare gabbana? Oppure continuare a combattere per un ideale che la mafia sa perdente in partenza? La scelta è presto fatta. Ma la mafia non può proclamarla altrettanto rapidamente. Una volta di più essa è costretta a barcamenarsi. Da una parte, continua a sostenere i separatisti, dei quali Salvatore Giuliano è divenuto nel frattempo il rappresentante più celebre, dall’altra essa comincia ad avvicinarsi ai partiti di sinistra che difendono l’autonomia regionale, nella quale vede la migliore via d’uscita.

    Ma la mafia capisce ben presto che non potrà mai trovare un punto d’intesa con i socialisti, e ancor meno con i comunisti. Ciò di cui ha bisogno è un grande partito conservatore. La Democrazia Cristiana rappresenta per lei la soluzione ideale. E, da allora, è su questo solo partito che la mafia punterà, è solo la Democrazia Cristiana che essa appoggerà, aiuterà, sosterrà con tutta la sua considerevole influenza.

    La mafia tuttavia non abbandona Giuliano, almeno non ancora. Il bandito può ancora servire, per esempio per terrorizzare i comunisti, qualche personaggio influente che recalcitra, o qualche barone che non vuole ancora piegarsi alla sua legge. Così, negli anni seguenti, non si conteranno nemmeno più i rapimenti a scopo di estorsione,i ricatti politici, o i saccheggi e gli incendi alle sedi di partiti di sinistra saccheggiate e incendiate. Il coronamento di questa campagna terroristica sarà il massacro di Portella della Ginestra. (leggi nella Enciclopedia del crimine la storia di Salvatore Giuliano)

    Salvatore Giuliano

    Tutti questi crimini, la mafia può felicitarsi di non averli commessi invano. Dal 1948, essa si vede ricompensata di tutti i fastidi che le hanno procurato. Infatti, il 1948 è l’anno del trionfo schiacciante alle elezioni legislative della Democrazia Cristiana, il partito su cui l’Onorata Società ha puntato la sua scelta.

    Ma non bisogna credere per questo che la politica sia la sola preoccupazione della mafia. Essa gioca, su diverse scacchiere, più partite alla volta. La creazione della regione siciliana le offre infiniti mezzi per muoversi e per trarne profitto.

    Per la prima volta, il governo centrale è pieno di buona volontà. Esso sembra sostenere sinceramente che l’isola recuperi il suo ritardo economico ed esca una volta per tutte dalla sua miseria secolare, non mancano elargimenti per diversi miliardi per costruire scuole, ospedali, ingrandire le installazioni portuali, rinnovare ed estendere la rete stradale. Una vera e propria pacchia per la mafia, che diventerà, senza perdere tempo, il primo imprenditore dell’isola.

    Cosa Nostra dopo la guerra

    Per una singolare coincidenza, il 1946 vede il ritorno di Genovese a New York e la liberazione di Lucky Luciano. I due uomini s’incrociano o quasi. Mentre uno riprende il suo posto alla testa di Cosa Nostra, il secondo va ad abitare a Napoli.

    Il ritorno di Genovese a New York suscita sensazione e causa qualche turbamento nelle famiglie di Cosa Nostra. Ora che Luciano è in esilio a Napoli, dove le polizie segrete di diversi Paesi 1o tengono sotto sorveglianza, Genovese ha intenzione di prenderne il posto in America. Il solo che potrebbe impedirglielo è Frank Costello. Ma non sembra che costui voglia affrontare il suo temibile avversario. Come sappiamo, Costello è più un uomo d’affari che un gangster. Egli ritiene che ci sia posto per tutti, e che sia molto meglio trovare un punto d’intesa, anziché morire assassinati come Masseria o Maranzano.

    Maranzano assassinato

    Genovese, che ha il dono di conoscere in fretta le persone, capisce subito che non ha gran che da temere dal capo della famiglia di Luciano. La sua soddisfazione è ancora maggiore in quanto non ci tiene affatto a imporsi con il terrore. Benché prosciolto da ogni accusa, sa di essere sorvegliato da vicino dalla polizia e non vuole far parlare troppo di sé, almeno per il momento, d’altronde, lui e Costello sono d’accordo su diversi punti importanti. In particolar modo, a proposito del traffico della droga, entrambi vogliono comportarsi prudentemente, Esitano a lanciare Cosa Nostra su questo terreno lucroso sì, ma disseminato di trappole pericolose. Essi sanno bene come il Narcotics Bureau sia un avversario temibile, che non si fa troppi scrupoli nella scelta dei mezzi per combattere le sue battaglie. Per avere il tempo di riflettere e di consultarsi con Luciano, il quale si fa meno scrupoli, i due cominciano con il proibire ai loro uomini il traffico dell’eroina.

    Ma la brama del guadagno è più forte. I mafiosi disobbediscono agli ordini dei loro capi. Genovese, per primo, finisce con il dar loro via libera. A condizione naturalmente di controllare tutto. In fondo, se Cosa Nostra non mette le mani su questa miniera d’oro, lo farà qualcun altro al posto suo. E si tratta di una miniera d’oro davvero eccezionale: basti dire che con un investimento di 7 000 dollari, se ne ricavano tre milioni e mezzo. Certo, bisogna dedurne le numerose spese: laboratori, corrieri, intermediari di ogni genere, ma il margine di guadagno rimane sempre fantastico.

    La conferenza dell’Avana In questo traffico della droga, che in poco tempo assumerà dimensioni mondiali e frutterà ai suoi autori una ricchezza fino allora mai raggiunta, Luciano gioca un ruolo molto importante, benché misterioso.

    Come sappiamo, vive a Napoli, borghesemente alloggiato in una villa di via Tasso.

    Per giustificare il suo tenore di vita, ha acquistato un negozio di articoli sanitari, Esce poco e, non appena mette il naso fuori della porta, viene subito seguìto. La sua unica distrazione sembrano essere i campi di corse. Vi si reca infatti regolarmente. Ma, se anche esce poco, in compenso riceve numerosissime persone. Amici, che provengono da ogni parte, passano regolarmente da Napoli per pranzare o cenare insieme con lui. È tutto quello che sappiamo.

    Nel 1947, munito di un passaporto perfettamente regolare, parte alla volta dell’Avana. Gli Stati Uniti non sono lontani.

    E ciò permette a tutti i capifamiglia di andarlo a trovare. Fra i primi c’è Frank Costello. Incontri fruttuosi, durante i quali si prendono gli ultimi accordi sull’organizzazione del traffico della droga. Il Narcotics Bureau, che segue lo svolgersi di queste operazioni, fa pressioni a Washington perché il governo americano intervenga presso quello cubano e lo convinca a espellere Luciano. Cuba finisce con l’obbedire, e Luciano ritorna a Napoli. Ma il lavoro ormai è portato a termine, i posti sono assegnati, l’impulso è dato.

    Tra le decisioni prese a Cuba, due sono particolarmente importanti. La prima consiste nell’incanalare tutta la droga verso gli Stati Uniti. Con i suoi 100 000 tossicomani già schedati, questo Paese offre un mercato considerevole. Inutile dunque perdere tempo altrove. Seconda decisione: eliminare definitivamente  l’organizzazione concorrenziale, cioè il Sindacato.

    Esponenti di Cosa nostra

    Confetti e arance

    I rappresentanti dell’Onorata Società erano presenti alla conferenza al vertice dell’Avana.

    Per una volta, la situazione geografica della Sicilia gioca in suo favore. Essa le permette di diventare la grande piattaforma del traffico della droga. È facile per delle navi provenienti da Beirut o da Marsiglia approdare sulle sue coste deserte.

    Don Calò, associato a Luciano, apre una fabbrica di confetti nella periferia di Palermo, la “Siciliana fabbrica di confetti”. Strani confetti, per strani battesimi: essi sono infatti pieni di una polvere bianca. Qualche confetto si è perso, oppure un’operaia della fabbrica ha parlato? Una mattina, il giornale Avanti fa scoppiare la bomba: i confetti di don Calò fanno “planare”. Nessuno ha il tempo di verificare la notizia. La sera stessa, la fabbrica viene completamente smantellata. Quando sopraggiunge la polizia, non è rimasto un solo confetto. Sono scomparsi anche i macchinari.

    Ormai, il porto di Palermo viene giudicato troppo “caldo”, ed è attraverso Castellammare del Golfo che ora si svolge il traffico. Ai confetti, vengono sostituite le arance. Delle splendide arance di cera che vengono mescolate abilmente a quelle vere. Impossibile riconoscerle a colpo d’occhio. Se le si prende in mano, sono leggere come i sogni che provocano.

    C’è anche un altro sistema, praticato con successo: i pacchi alle famiglie. Un siciliano su tre ha un parente in America. Allora, perché non ricordarsi di lui ogni tanto, inviandogli una specialità che gli ricordi la terra natale?

    Le mani su Palermo

    Dove impiegare e come far fruttare quella montagna di denaro che la droga le procura in poco tempo? L’Onorata Società, abbandona la campagna, dove gli investimenti sono divenuti poco remunerativi e si butta sulle città con mezzi adeguati al suo appetito formidabile.

    1 Palermo è in piena espansione, in dieci anni, gli abitanti sono raddoppiati. È necessario costruire, fabbricare. Ed ecco, una muraglia di cemento viene innalzata attorno alla città. I criteri non sono certo quelli di una sana urbanistica, ma fruttano. Beninteso, è la mafia che stabilisce le regole del gioco. Facile indovinare in che modo.

    A questo proposito, il rapporto della commissione antimafia è esplicito.

    Il medesimo rapporto rivela fatti sconcertanti: si viene a sapere che quattro persone hanno in mano l’80% dei permessi edilizi. Quattro persone che non sono neppure imprenditori edili, o proprietari di aree. Uno è un semplice manovale, l’altro un fabbro, il terzo è un venditore ambulante, l’ultimo fa il calzolaio. E non è tutto, in meno di tre anni, il piano regolatore subisce 650 variazioni. Inutile dire che i progetti relativi alle aree verdi, alle scuole, agli ospedali e agli impianti sportivi, rimangono nei cassetti.

    A volte, è buona politica dare il contentino a Roma, per esempio costruire una scuola, se non altro per giustificare i crediti concessi a questo fine. Ma, anche in questo, la mafia, persuasa che non sia necessario saper leggere per fare quattrini, agisce grettamente. Il caso deli, Istituto Tecnico e della Scuola Normale di Palermo sono celebri. Queste due scuole erano diventate così vecchie, e gli ambienti così stretti per il numero sempre crescente di alunni, che la mafia dovette decidersi a fare qualcosa. Ma cosa? L’idea di utilizzare aree che potevano essere impiegate in maniera più lucrosa era da scartare a priori.

    Allora fu deciso di costruire sotto il livello stradale. Gli alunni ebbero nuovi laboratori, dove non c’era né aria né luce.

    La nuova mafia

     

    Beninteso, questa corsa al profitto dà luogo a numerosi scontri all’interno stesso della mafia. Se don Calò è sempre rispettato, è tuttavia meno obbedito. Esattamente come il suo illustre predecessore, don Vito, dopo la prima guerra mondiale, egli deve far fronte all’arrivo della nuova generazione, impaziente di farsi strada, avida, e a volte cresciuta alla scuola americana.

    Don Calò ha un bell’incaricare il suo braccio destro, don Russo, di tenere a bada i giovani lupi, costui è spesso scavalcato.

    Non passa settimana che il cadavere di un mafioso fornisca la prova di queste contese interne. Quando don Calò muore, l’11 luglio 1954, non si verifica lotta per la successione. Ognuno riconosce in don Genco Russo il suo degno erede. Ma, nel gradino inferiore, la rivolta è in pieno svolgimento. Parecchi capi, come il dottor Navarra di Corleone sono selvaggiamente assassinati dai loro ex luogotenenti, desiderosi di prenderne il posto.

    dottor Navarra assassinato

    La nuova mafia, quella che non ha conosciuto direttamente il fascismo, la guerra, la prigione di Mori, ha la rabbia in corpo e vuole rivaleggiare con la vecchia mafia, a disprezzo di ogni prudenza.

    All’apice della nuova mafia, troviamo i fratelli Greco e La Barbera. Come tutti gli altri, anche costoro hanno fatto fortuna nel mercato immobiliare. Ma il raggio d’azione non si limita a questo. I Greco e i La Barbera sono gente astuta, piena di idee. Cominciano con l’acquistare tutti i garages e ne fanno anche costruire di nuovi. Poi, poiché non c’è richiesta d’affitto, mandano per le strade di Palermo, di notte, un’orda di giovani picciotti con l’incarico di lacerare più pneumatici che possono.

    Il risultato non si fa attendere a lungo: in capo a qualche giorno, i garages sono tutti occupati. Grazie ai clan di Greco e La Barbera, Palermo assume presto l’aspetto di una piccola Chicago. La legge del più forte vi regna da padrona incontrastata.

    Continua …

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    Tratto da Enciclopedia del crimine

     ©Fratelli Fabbri Editori, 1974

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