• Dove nasce il potere muoiono le speranze – L’Istituto che quasi Mi uccise

      5 commenti

    Nel nome del padre (Marco Bellocchio 1973).avi_002170040

    di Luigi Scialanca

     

    Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, ha scritto per L’Osservatore Romano l’elogio funebre del gesuita Franco Rozzi, antico preside del liceo classico dell’Istituto Massimiliano Massimo di Roma: Ho frequentato l’Istituto Massimo per dieci anni: negli ultimi cinque, del ginnasio e del liceo classico, il preside era padre Rozzi. Erano anni in cui si passava molto tempo a scuola: lo sport, le altre attività portavano spesso la giornata scolastica al tardo pomeriggio. Gli incontri con padre Rozzi erano perciò frequenti: da quelli con contenuti prevalentemente disciplinari ad altri in cui voleva essere informato dell’andamento scolastico. La sua autorità era indiscussa, la sua giustizia veniva amministrata con lucidità ed equilibrio, era ben spiegata, spesso temperata dall’ironia, sempre un’occasione per trasmettere il suo messaggio educativo, che ha inciso in profondità generazioni di alunni: la responsabilità di compiere al meglio il proprio dovere non è solo individuale, ma sociale; non solo terrena, ma spirituale.

     

    Curiosa coincidenza. Più o meno in quegli stessi anni (il Draghi è del ’47, chi scrive del ’51) anch’io fui costretto dai genitori in una scuola del genere: gli ultimi due delle elementari, i tre delle medie e i due del ginnasio. Non dai gesuiti e non al Massimo, però, ma nel non meno prestigioso Istituto che Marco Bellocchio, senza farne il nome, immortalò nel 1972 nel film In nome del Padre. Lo chiamerò semplicemente l’Istituto, e ai “padri” che lo dirigevano darò il nome di cristaldi.

     

    “Ti saranno vicini per tutta la vita,” disse mia madre a me che non avevo ancora nove anni. Non intendeva i preti ne aveva un’immagine assai più ingenua di quella della “cara” cugina che l’aveva convinta a togliermi dalla Scuola statale ma i nuovi compagni, tutti di nobili o ricche famiglie, che secondo lei sarebbero stati i miei più veri e solidali amici fino alla morte. E che invece mi mostrarono come l’abiezione di molti Italiani dinanzi ai potenti abbia spesso inizio dinanzi a piccoli miserabili capaci di apparire grandi e spaventosi solo a un bambino abbandonato a tremare nel buio delle loro ombre.

     

    Come il Massimo, anche l’Istituto si trasferì nel 1960 dal centro storico all’EUR. Lo stesso fecero i miei: a secondo trimestre appena iniziato dovetti lasciare la mia buona e brava maestra, Tecla Cilento, della scuola Principessa Mafalda (in una parallela di viale Bruno Buozzi), i compagni di tre anni, l’amico più caro, la mia cameretta dove rimase invece imprigionato, causa la misteriosa scomparsa di una chiave proprio il giorno del trasloco, il mio cagnolino di stoffa preferito e rassegnare l’infanzia e poi l’adolescenza alle architetture fasciste di quel quartiere allora di moda. Le stesse, “virili” architetture così virili da non poter ammettere, evidentemente, che il mio cagnolino continuasse a trattenermi al di qua del mio maschio futuro che anche l’Istituto aveva scelto come panorama per le sue nuove finestre, nell’anno di quel governo Tambroni appoggiato dai fascisti di cui l’Italia riuscì a liberarsi e io invece no, troppo piccolo anche solo per accorgermi di quanto quell’assurda cesura ai miei pochi anni mi facesse soffrire: finii la terza elementare presso certe suore (attratte all’EUR come nere mosche, anch’esse, su una carta moschicida) e ai primi di ottobre le porte a vetri dell’Istituto (così moderne, così americane, così tecnocratiche a paragone della cupa demenza barocca dell’edificio in cui l’Istituto aveva consumato il secolo precedente) oscillarono e gracchiarono per la prima volta intorno a me, allora bambino di nove anni, consegnato ai preti senza che nessuno al mondo, che io sappia, vi avesse qualcosa da ridire.

     

    Almeno non ero stato rinchiuso in collegio. Ogni giorno, dopo la giornata scolastica che però, anche nel mio caso, le altre attività portavano spesso al tardo pomeriggio mi era concesso di tornare a casa. Non so, altrimenti, cosa ne sarebbe stato di me. Anzi, lo so benissimo:l’Istituto mi avrebbe ucciso. Così, invece, anche se tentò di farlo, per un soffio fallì. Le ore che trascorrevo lontano da esso, le vivide e instancabili letture entro le quali facevo sparire i compiti assegnatimi che da un certo momento in poi furono per me, quantunque inconsapevole, come una quotidiana dose di bastonate a cui dovevo a ogni costo e con ogni astuzia riuscire a sottrarre la mia psiche le notti che prolungavo con una radiolina sotto il cuscino, sintonizzata sul Notturno dall’Italia, che con immenso e gratuito affetto nei miei confronti ritardava il momento in cui il sonno mi avrebbe consegnato in un istante al risveglio e al ritorno a scuola, il diario che cominciai a tenere ogni giorno per conservare a me stesso l’intangibile mia continuità e che non a caso mi divenne superfluo, nel 1967, pochi mesi dopo aver lasciato l’Istituto lattesa dell’estate, i giorni che mi separavano da essa cancellati a uno a uno su un fogliaccio stropicciato che per nove mesi era il mio consolatore, e poi l’estate stessa con le sue bellissime bambine, di cui in così tenera età m’innamoravo ora lo so soprattutto per scrivere i loro nomi sui libri e sui vocabolari e pensare a loro quando non volevo ascoltare né vedere soprattutto non vedere i maestri dellIstituto religiosi e “laici” dalla voce chioccia, o dall’occhio spento, o dall’aria cupa, o dal ghigno furbastro, o dai modi troppo suadenti… Tutto questo e tanto altro che forse non saprò mai neanche immaginare mi salvò la vita. Nel senso che l’Istituto non riuscì a farne una non-vita come le altre che sfornava senza calore, bianche e mineralizzate come pagnotte ritrovate in una cripta. E nel senso che non morii.

     

    L’Istituto, naturalmente, odiava le Bambine e le Ragazze. Gli unici esseri di sesso femminile tra le sue mura erano alcune silenziose monache dalla faccia grigia, alle quali erano generosamente riservate le faccende per così dire domestiche, e le povere serve divelte da remoti villaggi che talvolta scorgevo, in fondo al buio di un corridoio sotterraneo, come prefigurazioni dei remoti fantasmi che per tutta la vita sarebbero state per me le Donne reali, se l’Istituto avesse trionfato, viste dall’immaginario pieno di disprezzo che la loro esclusione da una scuola così prestigiosa mirava a coltivare nella mia mente. Tutti maschi, dai 6 ai 19 anni, incolonnati nel libricino che ogni anno pubblicava urbi et orbi i nostri nomi, cognomi, indirizzi e numeri telefonici così come in colonna percorrevamo i corridoi sopraelevati per i quali gli insegnanti, i prefetti e i “padri” cristaldi ci pascolavano dalla mattina al tardo pomeriggio dalla chiesa in classe, dalla classe in palestra, dalla palestra in refettorio, dal refettorio ai campi, dai campi all’atrio a ognuno di noi non era permesso vedere che i capelli tagliati cortissimi dell’altro che camminava davanti a lui, o che in aula sedeva al banco singolo dinanzi al suo. E talora neanche quelli, se il cognome lo condannava a essere il primo della colonna, il bambino che solo una fila di pannelli gialli guidava fin in fondo ai corridoi in quell’edificio fatto di corridoi come di ossa è fatto uno scheletro separando i passaggi riservati agli alunni da quelli per i sacerdoti, che tra le nostre due file avevano ritegno a camminare come se non fossero umani, sotto le tonache, e fantasticassero che lo sapevamo.

     

    Nel_nome_del_Padre_1_l250

    Meglio però aver davanti sempre la stessa testa, o un corridoio vuoto, che dover vedere anche solo una volta il cranio senza più capelli del povero bambino che un giorno mi trovai davanti io.

     

    Ormai avevamo paura di pensare a lui, per quanto era stato via. Poi ci dissero che era stato malato, in fin di vita, ma adesso era guarito e da un giorno all’altro sarebbe tornato. E tornò, e capitò in fila dinanzi a me, e non posso non immaginare, benché mi sembri assurdo, che ci si mise apposta non si poteva scegliersi il posto mai, nell’Istituto, ma chissà, forse a lui era stato concesso come una sorta di ultimo desiderio, e lui aveva desiderato di stare proprio vicino a me fatto sta che non passò un attimo, il tempo di constatare con orrore com’era diafano il suo piccolo cranio, com’erano esili le braccia e le gambe, com’erano ancor più grotteschi, in lui a un tratto così vecchio, i calzoni corti che esibivano ai preti l’incapacità di noi tutti d’aver ragione delle nostre madri, come sembrava che egli non toccasse, camminando, il pavimento emanante calore che la mia accusava di levar polvere ma non osava pensare che lo facesse per farci star male il tempo di pregare sì, in quinta elementare mi rivolgevo ancora al Nulla, ma per me era solo scaramanzia, solo uno scongiuro che non si voltasse, non mi guardasse, non mi mostrasse anche i suoi occhi ché non ce nera bisogno, ché tanto avevo già capito che quel che teneva a dirci, prima di andarsene, era che ci avevano mentito, che lui stava morendo, e che ce lo facevano vedere per annullare la sensibilità di quella menzogna senza che potessimo accusarli di aver voluto smentirla, perché erano cattivi, cattivi, cattivi ed ecco che lui si voltò, mi guardò negli occhi, sforzandosi di simulare la dolcezza degli angeli, e con lo sguardo mi avvertì che come lui potevo morire anch’io, lungo quei corridoi senza confessabili mete, se non mi fossi difeso. E forse anche se mi fossi difeso.

     

    La mia quinta all’Istituto finì così. Come se l’EUR clericofascista fosse Castle Rock, ma non ne Il Signore delle Mosche: in Stephen King, dove è con i Piccoli che i Mostri ce l’hanno, per quanto odiano rivedere in loro, senza più poter piangere per essersi perduti, quelli che anch’essi furono.

    Nel nome del padre

     

    Altri bambini morirono, mentre l’Istituto li teneva o dopo che aveva finto di lasciarli. Di alcuni ho saputo uccisi, anche adulti, da tumori cominciati di altri no, e ne soffro come si soffre di non conoscere i nomi delle vittime della Shoah. Quando ero in seconda media, un ragazzo dell’ultimo anno si ammazzò in moto con tale violenza che non gli si poté togliere il casco a un metro dall’incrocio tra la via dell’Istituto e la via di casa sua e della sua infanzia perduta: il più bravo e il più bello della scuola, dissero. Poi toccò a me, ma io mi salvai. Forse, anche perché il bambino senza più capelli aveva avvisato proprio me, fra tanti, che lungo quei corridoi dalle inconfessabili mete era in agguato la morte.

     

    Ero andato sempre bene, a scuola. Desideravo apprendere. A cinque anni già leggevo. A sette, mio padre mi regalò la sua monumentale Storia d’Italia di Paolo Giudici uscita a puntate settimanali negli anni VII-XI dell’Era fascista, zeppa di illustrazioni patriottiche di un certo Tancredi Scarpelli che a nessuno, neanche alle donne e ai bambini, aveva risparmiato il mascellone ingrugnito da perfetto idiota del “Duce degli Italiani” e ne lessi tutto il primo volume, dal 753 a.C. a Romolo Augustolo. In Terza elementare entrai con sei 10. In prima media con due 9 e due 10: fui premiato con un costosissimo tomo di Astronomia di più di mille pagine, di livello universitario, e passai l’estate a leggerlo e a scrutare il cielo, da una buia torretta di Grottaferrata, con un telescopio donatomi dal nonno materno. A undici, dodici, tredici anni, niente era per me più piacevole che entrare nella libreria del signor Cucinella, in viale Europa, e spendere in libri per ragazzi tutto il mio denaro. A quattordici, quando uscirono gli Oscar Mondadori settimanali, non me ne perdevo uno e li leggevo tutti. Riferisco ciò non per vantarmi non ve ne sarebbe motivo: non ero uneccezione e non lo sarei neanche oggi ma per mostrare che se alle medie smisi di fare i compiti e di studiare non fu perché avessi perduto il desiderio di conoscere; anzi: continuavo ad abbeverarmi, con inestinguibile sete, a tutte le fonti di sapere che scoprivo, dall’Enciclopedia dei Ragazzi che tentai di emulare su quadernini a quadretti piccoli che compilavo con molta cura al Manuale del Pescatore che rubai a uno zio non perché mi attraesse la pesca, ma per il suo intrigante aspetto di ricettacolo di nozioni biologiche, paesaggistiche e tecniche d’ogni sorta; dai testi di Astronomia ispirandomi ai quali redigevo un giornalino che si chiamava Il piccolo astronomo: copia unica, passava di mano in mano tra i miei parenti al prezzo di 100 lire ai fumetti di Paperino e di Nembo Kid. No, smisi di fare i compiti e di studiare perché i compiti e lo studio dell’Istituto mi erano diventati solo obbedienza, docilità, schiavitù: una soma sotto la quale l’Istituto mi schiacciava perché non fossi più me stesso, perché com’ero non gli piaceva. Non che lo capissi: semplicemente, un’interna forza irresistibile mi spingeva ogni giorno a chiudere i libri di scuola e i quaderni per aprire i miei e su di essi leggere e scrivere, giocherellando col sintonizzatore della radiolina, fino all’ora di cena e anche dopo. Fu una ribellione, insomma, ma così mite che non mi accorsi di ribellarmi ed ero, anzi, pieno di vergogna e paura per i compiti non fatti e per i sotterfugi con cui sfuggivo ai controlli. E nondimeno imparavo così tanto liberamente e per conto mio, mentre mi sottraevo a ciò che mi era imposto, che solo agli esami di terza media l’Istituto scoprì che in tre anni non avevo appreso niente di quel che mi veniva da lui!

     

    So, oggi scopro solo oggi che alle medie l’Istituto mi prese in tale antipatia e odio, che preti e professori vollero mettermi in condizione di farmi espellere o schiattare. E che la mia ribellione, il mio rifiuto dei compiti e dello studio, scaturirono dal non percepire quell’antipatia e quell’odio, ben dissimulati com’erano, altro che nella fredda costrizione a cui compiti e studio a un tratto si ridussero, venendo da quei preti e professori, dopo che per cinque anni erano stati un gioco e un piacere. E quantunque continuassero misteriosamente a esserlo, purché ad assegnarmeli fossi io e non loro!

     

    Ma come mi ero attirato tanta avversione?

     

    Il fatto è che metà del mio disprezzo mi si leggeva in faccia, malgrado la maschera da giocatore che credevo d’aver sempre sul viso; e l’altra metà, quella che da ingenuo piccolo spaccone verbalizzavo, veniva sùbito riferita a chi di dovere (omettendo, del disprezzo, le motivazioni) da questo o quello dei miei coetanei ascoltatori. Il disprezzo, per esempio, per i ridicoli tic, la malvagità o la sfacciata depravazione della maggior parte degli insegnanti il depresso che in classe non faceva che gemere come se la nostra vista lo torturasse; il vecchio fascista obeso che girava con una verga camuffata da bastone da passeggio e all’improvviso la sbatteva sulla cattedra per spaventarci nel bel mezzo di un compito; il demente che, fatto scacciare un bravo insegnante d’inglese con una spiata sui suoi titoli di studio, ne aveva preso il posto solo per dedicarsi, credendo che la cattedra lo nascondesse, alla prediletta attività d’infilarsi una penna nei pantaloni per poi annusarla. Il disprezzo che lasciavo scorgere nella noia in cui sprofondavo durante la messa obbligatoria ogni mattina, dal lunedì al sabato, e nell’indifferenza con cui ripetevo a pappagallo i salamelecchi e le giaculatorie che dovevamo mimare e salmodiare al seguito del celebrante. Il disprezzo che traspariva dalle mie “confessioni”, rapide e stereotipate come se ne avessi una provvista di fotocopie. Il disprezzo evidente nella mia mancanza di entusiasmo per la miriade di attività che portavano spesso la giornata scolastica al tardo pomeriggio a maggiore scempio delle nostre menti e a maggior lucro delle casse dell’Istituto. Il disprezzo con cui mi tenevo lontano dai più esaltati o ipocriti fra i miei compagni, i Virginio, i Pio, faccia e corporatura e maniere grottescamente femminee, che in chiesa si percuotevano il petto e guaivano Domine, non sum dignus con la più penosa delle voci falsificata dall’odio di sé: la voce del vinto dall’odio pretesco per l’umano e poi, dopo la quotidiana comunione, tornavano ai banchi con occhi spiritati di cui io, più che riderne, non riuscivo a non meravigliarmi, e non solo fra me e me, illudendomi che il mio sconcerto sarebbe rimasto fra me e loro.

    padressse

     

    Ma quel che più mi rese inviso all’Istituto fu che a un certo momento, credo in prima media, io mi lamentai in confessione (e con mia madre, che aggravò il mio sbaglio andando a parlarne col preside) perché i più strani fra quei santarellini erano i “cocchetti” di alcuni insegnanti e di certi “padri” cristaldi. Non so cos’avessi intuito e non ricordo bene cosa pensavo: so solo che due o tre coetanei mi allarmavano e mi affascinavano (poiché li vedevo, sì, grottescamemente contraffatti e perciò sconvenienti, ma al tempo stesso capisco oggi constatavo che dagli adulti ottenevano in cambio un riguardo, una sollecitudine, che forse li risarcivano di quella deformazione e li preservavano da ciò che soffrivo io) e che una certa parola, che avevo captato senza capirla davvero, mi era sembrata adatta non solo a designarli, ma anche a stigmatizzarli, nella speranza che fossero rimessi al loro posto fra noi tutti, e soprattutto a proteggere me, chiudendomi in una corazza di sdegno, dal rischio di diventare come loro.

     

    Certo, chiamando un rischio l’interesse suscitato in me dai loro strani modi sembro voler accreditare il significato spregiativo dell’epiteto con cui allora li marchiai presso chiunque, grande o piccolo, fosse disposto ad ascoltarmi: epiteto che oggi, invece, giustamente e civilmente, nessuno osa scagliare su chicchessia. Ma è pur vero che quelli erano ragazzini di undici, dodici, tredici anni, mentre chi li portava in palma di mano lusingandoli ad atteggiarsi come monachelle erano uomini adulti. E che un ragazzino ero anch’io, e non avevo altra via, per difendermi da quella lusinga, che farne, ai miei occhi innanzi tutto, uno stigma ripugnante che per niente al mondo avrei desiderato condividere.

     

    Non accadde alcunché. Nessuno fu danneggiato dalle mie accuse. Nessuno dovette cambiare atteggiamento. Il preside tranquillizzò mia madre dicendole che quei casi erano noti all’Istituto, il quale opportunamente vigilava su di essi; mia madre si tranquillizzò e mi propose di tranquillizzarmi a mia volta; e tutto sembrò finire lì. Ma da quel momento fu su di me che l’Istituto vigilò. Dall’oggi al domani, senza che nulla fosse detto né alluso, non solo divenni un sorvegliato speciale, per aver osato smascherare (sia pur con i miei poveri mezzi) le relazioni distruttive e autodistruttive tra quei ragazzini e quegli adulti, ma ogni rapporto con me dei prefetti, degli insegnanti, dei “padri” cristaldi e di quasi tutti i miei compagni, che sùbito ne percepirono la mutata natura si fece strano in modo indefinibile. Come se fossi io, ora, che camminavo dinanzi agli altri senza poter nascondere il mio piccolo cranio senza un capello.

     

    In “compenso”, due “padri” tentarono di far di me una pecorella e ricondurmi all’ovile. Uno, l’insegnante di religione, mi propose di meritarmi un 10 e di capovolgere così la mia immagine agli occhi dellIstituto imparando a memoria il Discorso della Montagna: beati i poveri in ispirito, ecc. ecc. Solo che, data la sua lunghezza, non poteva sacrificare un’intera lezione per interrogarmi in classe, davanti a tutti: dovevo tornare nel pomeriggio e recitarlo dinanzi a lui, in privato, in camera sua. Io acconsentii, imparai a memoria la sfilza delle beatitudini e verso le sei, attraversato l’EUR sul 97, mi presentai a scuola e chiesi di lui. Egli venne a prendermi e mi fece strada. Faceva buio, ma in tutto l’Istituto erano accese solo poche lampade qua e là: sembrava deserto. Il “padre”, camminando a grandi passi a cui facevo un po’ fatica a tener dietro, mi condusse per corridoi e corridoi senza luce fino a pianterreno di un edificio in cui non ero mai entrato, il più alto dell’Istituto: solo lì incontrammo un altro “padre”, che senza una parola ma con un lieve e indecifrabile sorriso prese l’ascensore con noi portandosi in camera, un po’ come il primo portava me, una bottiglia nera senza etichette che immaginai di vino. E sùbito mi ritrovai in una stanzetta angusta, con un’unica finestra che dava sulla campagna, e nella luce sempre più scarsa che ne veniva io in piedi, il “padre” seduto dinanzi a me ad ascoltarmi recitai senza incertezze e perfino con sfrontatezza il Discorso della Montagna e ottenni il 10 che mi era stato promesso. Non so, a tutt’oggi, cosa mi salvò. Fu come nei documentari di Super Quark, quando il piccolo gnu sfugge alla leonessa e si ricongiunge alla madre e al branco mentre Piero Angela, affabile, commenta che la vita dei predatori non è meno dura di quella delle prede, poiché il più delle volte restano a bocca asciutta.

     

    L’altro, invece ma già al ginnasio fui io a cercarlo, anche se malvolentieri: per accontentare mia madre, che dalla sua cara cugina aveva saputo che era un “padre” straordinario, amato da tutti gli alunni dell’Istituto per la bonomia e la capacità di comprendere i giovani e perfino di condividerne le idee e il linguaggio, e che già molti ragazzi in difficoltà aveva aiutato con successo a uscirne e a star di nuovo bene con gli altri e con sé stessi. Andai: per far contenta mia madre, appunto, e tuttavia non così scettico, data la mia generosità e innocenza di ragazzino non ancora perduto, da aspettarmi ciò che trovai. Anche questa volta da solo, anche questa volta in una stanza anche se non da letto che ununica finestra illuminava poco, fui ricevuto da un “padre” così obeso che mi domandai come potesse districarsi dalla scrivania a cui sedeva: obeso perfino nelle mani, nelle dita, nelle guance, negli occhi, nella testa, nei ciuffi di capelli rigogliosi ma così distanziati da non poter uscire che da bulbi enormi, mi guardò attraverso occhiali così spessi e neri che non mi parve possibile che mi vedesse e disse: “Allora, cosa c’è che non va?” “Non lo so…” dissi io. E lui: “Ti masturbi?” Dopodiché, sebbene non conoscessi ancora avevo già quattordici anni, ma erano altri tempi né la parola né ciò che significava, eppure come per magia lo intuii, benché pur sempre confusamente, come se quell’incomprensibile domanda avesse all’improvviso messo in relazione e in moto, nella mia mente, tutto quello che avevo già udito in proposito senza capirlo. E mi sentii così a disagio che con la scusa che non mi sentivo bene il peggior pretesto possibile, vista lagitazione in cui lo mise dinanzi a mia madre, che mi attendeva nell’atrio e dovette salire a prendermi mi congedai da lui e me ne andai anche da quella stanza per non tornarci mai più.

     

    Ma nessun bambino esce senza ferite da una scuola come l’Istituto, laica o religiosa che sia. Già “solo” dover pagare, per un’istruzione che a ogni altro è donata per l’amore della Società per i suoi figli, fa del rapito alla Scuola di Tutti non soltanto un bambino abbandonato ed escluso, ma già un piccolo sfruttato nell’età che a tutt’oggi è l’unica che fra mille perduranti resistenze siamo riusciti a sottrarre alla riduzione degli esseri umani a oggetti, a mezzi per far soldi. Se poi il bambino abbandonato, oltre che pagare, deve anche credere, allora la condizione d’inferiorità a cui il suo essere sfruttato lo abbandona per un tempo che benché della massima importanza, in quanto dovrebbe essere dedicato alla sua realizzazione, tuttavia non è che una parte della sua giornata da parziale si fa totale: egli non viene diminuito solo per alcune ore a fini di lucro, egli è reso inferiore di fatto, se non trova la forza di rifiutarsi di credere al “divino”, e ai suoi “rappresentanti”, che nella sua mente si rendono a lui superiori una volta per sempre. Ma soffre anche se resiste, e tanto più quanto più resiste, poiché resiste costringendosi a fare a meno di coloro a cui resiste pur non potendo fare a meno dell’affetto, della comprensione e dell’aiuto che non avrà da altri, finché non sarà libero di cercarne altrove. E così il bambino, abbandonato, sfruttato, restituito a Dio, resistendo si avvia talora a morire fisicamente per non morire dentro (come per poco non accadde a me) poiché la sua resistenza acuisce l’odio per l’umano su cui gli Istituti si fondano, e tanto più quanto più essa inconsapevolmente è perspicace e smaschera la dissimulata violenza di rapporti resi i più distruttivi dall’annullamento e dalla negazione dell’umano.

    padremad2

    Apparentemente, solo i compiti e lo studio (quelli che non mi assegnavo io stesso) erano diventati miei nemici. Nella realtà, invece, era l’atmosfera dell’Istituto ad avercela con me. Qualcosa emanato dagli sguardi e dai modi dimessi, come velati da un sapere troppo penoso per essere condiviso, dei “padri” cristaldi e degli insegnanti nei miei confronti passava senza che me ne accorgessi nei miei quaderni e nei libri di testo e li rendeva insopportabili al mio sguardo e ai miei pensieri come lo ero io, ignaro di esserlo, per quei “padri” e per quegli insegnanti. E lo stesso qualcosa passava nei miei compagni, senza che neanche loro se ne accorgessero, e prendeva nelle loro menti la forma di un’incapacità di amicizia per me che forse li turbava, a cui forse desideravano essere aiutati a opporsi, ma che i loro confessori preferiti invece assolvevano senza disapprovarla. Solo un bambino o due, immuni a quell’influsso per chissà quale “magia” che inconsapevolmente tenevano viva, continuavano a essermi amici facendosi esclusi insieme a me. Ma finite le medie fummo separati e io fui assegnato alla quarta di Dario Rigorini, un insegnante così rigido, invasivo, sarcastico e psichicamente violento che già dopo poche settimane nessun alunno, in sua presenza o meno, riusciva più a rimanere in rapporto con altri che con lui. Al quale fui certo presentato, prim’ancora che mi conoscesse (al pari di David Copperfield, mandato in collegio con un cartello al collo: attenzione, morde!) come una sorta di corpo estraneo che bisognava arrivare a espellere: prima di tutto per quel ch’ero andato insinuando alle medie su certi bambini e le relazioni con loro di certi insegnanti e certi “padri”; poi perché non ero religioso, fingevo di esserlo; e infine per la sfrontata astuzia con cui avevo rubato l’ammissione agli esami di licenza e la promozione in quarta dando a bere a tutti per ben tre anni di meritare voti che non meritavo, perché non facevo i compiti e non studiavo. E Rigorini mi prese sùbito di mira: mi avvisò, già al primo appello, che mi avrebbe tenuto d’occhio, e da allora non perse occasione per deridermi non solo per i compiti non fatti e le scene mute alle interrogazioni, ma anche per l’aspetto fisico, i modi, il tono della voce, il sorriso le rare volte che in quella classe si aveva loccasione di sorridere non contro qualcuno e perfino per gli sbadigli, che benché tenessi la bocca ermeticamente chiusa non riuscivo a nascondergli. Ma nonostante ciò non poté mai darmi meno di 8 nei temi di italiano, benché non meritassi mai più di 4 in tutto il resto. E per questa mia lieve difformità dall’immagine che l’Istituto aveva di me, anziché domandarsi se tale immagine non fosse almeno in parte malevola, mi odiò così tanto, perfino più di quanto gli era richiesto, che mi separò anche fisicamente dai miei compagni isolandomi vicino a una finestra all’altezza della cattedra, ma lontano perfino da essa in modo che tutti potessero constatare che più nessuno mi era ancora vicino.

     

    Non è meno doloroso oggi di quarantacinque anni fa (e neanche è diventato meno difficile) realizzare quanto soffrivo, in quella situazione, a dispetto della durezza con cui guardavo fuori e dentro di me nel tentativo di fingere, anche ai miei occhi, di non star poi così male e anzi di cavarmela, in qualche modo, contro tutti e tutto. Quanto soffrivo per non poter prendermela che con me stesso, poiché nessuno apparentemente aveva colpa se io non studiavo, e se non studiando facevo arrabbiare genitori e insegnanti, e se meritando continue punizioni diventavo oggetto di sempre più intensa diffidenza per i compagni che sempre più temevano il mio contagio, e se la solitudine in cui sempre più venivo allontanato fin quasi a sparire all’orizzonte m’incattiviva al punto di voler scientemente far peggio ancora, per infuriare e perdere una volta per sempre tutti quelli che mi legavano a quella situazione, i “padri”, gli insegnanti, i compagni, i genitori, e così restar solo davvero e del tutto. Quanto soffrivo per non aver la benché minima idea, per non poter neanche immaginare che dopo tutto potevo anche non esser io quello che non riusciva a esser altro che la causa di tutto ciò: quello che soltanto andandosene e perdendo tutti una volta per sempre, se solo ne avesse avuto il coraggio, avrebbe potuto dimenticare di essere qual era.

     

    Cominciai a “provare”, sempre più spesso, la fuga almeno da scuola, e mi sembrò che “funzionasse”: da solo su un autobus pieno di estranei che non si curavano di me, da solo su una corriera o un treno che si allontanavano nella campagna, da solo su una panchina in un parco o in riva al mare, fuoriuscire dalla situazione di cui non potevo accusare che me stesso mi faceva sentire “bene”, per qualche ora, tra me e me, per quanto era possibile sentirmi bene sapendo che tutto sarebbe ricominciato l’indomani mattina. Ma le mie continue assenze da scuola invece aggravarono quella situazione, poiché mi resero ancor più evidentemente colpevole agli occhi di tutti, me compreso, e di conseguenza ancor più giustificati il disprezzo, il dileggio o come minimo l’imbarazzato distacco di cui ero oggetto. Finché, a metà della Quinta, tentai davvero di scappare di casa gettando nell’angoscia i miei genitori. Finché giunsi, facendo leva sul potere che la loro angoscia mi conferiva, a rifiutarmi di continuare ad andare a scuola anche a costo di perdere l’anno; e così mi tolsi, senza rendermene conto, oltre che dalla scuola anche dalla vita, mettendomi in una sorta di “animazione sospesa” in cui più niente alla vita mi legava se non quel che inconsapevolmente mi era forse rimasto, come un segreto che la mente e il cuore fossero riusciti a serbare a tutti e perfino a me stesso, dei lontani primi nove anni e dei nove mesi prima di essi in cui l’Istituto non mi aveva ancora preso. Finché un giorno attraversando la strada di corsa per prendere un autobus che niente, nella mia situazione, mi autorizzava a sperare che avrebbe aspettato a ripartire per uno come me fui investito da una macchina e per un soffio, per un millimetro, per un millesimo di secondo mi ruppi solo qualche osso e non ci lasciai la pelle. Ma fui ricoverato in ospedale, e per alcuni giorni, pallido come un morto e istupidito dagli anestetici, ebbi anch’io nello sguardo la mostruosa dolcezza degli angeli a cui il bambino senza più un capello non aveva potuto sfuggire. Tanto che perfino mia madre riuscì a vederla, una buona volta, e le porte dell’Istituto si chiusero per sempre alle mie spalle.

     

    118ixrq

     

    L’anno dopo ammesso in un Liceo Classico (un Liceo dello Stato ch’è di Tutti) dopo aver studiato come un Leopardi per l’intera estate e aver superato a settembre con voti più che buoni, in quello stesso Liceo, l’esame di Quinta cominciai a poco a poco a ritrovare interesse e piacere nell’andare a scuola, nel fare amicizia con i miei compagni (e compagne!) e perfino nel riuscire cosa che ero giunto a credere impossibile a stimare qualche insegnante. All’esame di maturità, nel 1970, fui il secondo su venticinque con 52/60: non eccelso, lo so, ma tuttavia ottimo io dico e rivendico per un ragazzo che in Quarta e Quinta ginnasio era arrivato a prender pagelle il cui voto più alto era 4, a parte l8 in Italiano scritto. E allUniversità benché con l’annosa lentezza e cautela di chi continua a vedere un possibile nemico in chiunque eserciti una qualsiasi autorità mi laureai in Filosofia moderna e contemporanea solo con 110, senza la lode, perché mi ostinai a scrivere la tesi senza alcun aiuto da parte del professor Nicolao Merker, il relatore, e addirittura contro le sue idee su Thomas Hobbes a mio avviso il maggior teorico di tutti i tempi del controllo religioso della mente da parte dello Stato e su come si debba scrivere una tesi di laurea. Niente di eccezionale, lo so, ma pur sempre un risultato abbastanza dignitoso per un ragazzo che l’Istituto aveva quasi ucciso. Anche se quei sette anni di lotta per la sopravvivenza, quei sette anni tra i 9 e i 16 della mia infanzia e della prima adolescenza so anche questo sono ancor’oggi quelli che per tutta la vita mi mancheranno ad arrivare a essere qualcosa di più di ciò che sono.

     

    hqdefault

     

    Si conclude qui, finalmente a cinquantanove anni e su queste pagine la storia dei miei rapporti con lIstituto e con le nere ombre dei “padri” cristaldi. Manca solo l’epilogo, che adesso arriva…

     

    Nel 1987, insegnante da appena tre anni, accompagnai a Venezia la Classe 1984-1987 di Roviano. Io e loro. Per risparmiare due notti d’albergo, all’andata e al ritorno dormimmo in cuccetta su un treno (oggi soppresso) che partiva da Termini alle undici di sera e arrivava a Santa Lucia alle sei del mattino. I ragazzi, com’è facile immaginare, si addormentarono piuttosto tardi se si addormentarono: è un mistero ancora irrisolto e io mi svegliai (se mi svegliai) piuttosto presto: alle cinque ero già nel corridoio e mi fumavo la prima gauloise senza filtro della giornata ne fumavo più di trenta al giorno, smisi undici anni dopo cercando di soffiar via il fumo da uno spiraglio del finestrino senza far entrare l’aria fredda del mattino, quando da uno scompartimento uscì un signore fra i trenta e i quaranta, mi venne vicino, mi guardò negli occhi e disse: “Ma davvero non mi riconosci? Sono Marco Pellicani.” Lo riconobbi sùbito: non era cambiato molto. La sera prima non l’avevo riconosciuto e lui, come mi disse, aveva temuto che non volessi riconoscerlo perché come sempre ero troppo concentrato sugli alunni e su ciò che poteva in un modo o nell’altro riguardarli, per accorgermi di qualsiasi altra cosa. Ma quando mi apostrofò lo riconobbi, sùbito: era Marco Pellicani, uno dei pochi che in Quarta e Quinta ginnasio nellIstituto dei “padri” cristaldi, nella classe di Dario Rigorini non era arrivato nei miei confronti a un aperto disprezzo, non si era sganasciato alle battute di quel mentecatto sulla qualità più o meno umana del mio sorriso, ma era riuscito a limitarsi a un imbarazzato distacco. “Sai,” mi disse vent’anni dopo mentre il treno, su cui ci trovavamo per motivi del tutto diversi, si avvicinava con entrambi a Mestre, “sento che devo dirti che mi dispiace per come mi comportai allora. Per come tutti ci comportammo. Tu avevi ragione, e Rigorini e gli altri torto. Ci tenevo a dirtelo. A dirti che mi dispiace molto, mi è sempre dispiaciuto, sapere che allora non fui capace di avere per te alcuna solidarietà”. Fu bello sentirglielo dire. Gliene fui grato, e gliene sarò sempre. Fu bello soprattutto perché in quel momento, mentre lui lo diceva, i ragazzi dormivano tranquilli a un metro da noi, nessuna ombra nera di “padre” malefico turbava i loro sogni, e io capivo e sapevo che era stato per aver visto com’ero io con gli alunni che il mio antico compagno Marco Pellicani, fin dalla sera prima, aveva desiderato dirmi quel che mi stava dicendo.

     

    D’altra parte son contento, oggi, di aver appreso che l’Istituto Massimiliano Massimo e i “padri” gesuiti sono per Mario Draghi governatore della Banca dItalia per meriti certo mille volte più ragguardevoli di quello di aver frequentato una scuola così prestigiosa ricordi infinitamente più lieti di quanto lo sono per me l’Istituto di cui non faccio il nome e i “padri” cristaldi. È bello sapere che non tutti erano infelici, quando alla nera ombra di quei “padri” lo ero io così tanto da non veder più luce nel mondo, ovunque guardassi, che quell’ombra non oscurasse e insozzasse. Sì, ne sono proprio contento per lui. E però sento di dover dire che non cambierei la mia vita con quella di Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia per meriti certo mille volte più ragguardevoli di quello di essersi adattato ai suoi “padri” gesuiti mentre io non riuscivo ad adattarmi ai miei padri “cristaldi” e ai loro cocchetti: non la cambierei la mia vita con la sua perché, se lo facessi, anchio crederei che la responsabilità di compiere al meglio il proprio dovere non sia solo terrena, ma spirituale. E se lo credessi, come sarei infelice! Come sarei infelice, se cercar di far bene quel che faccio non mi venisse naturale come a un gatto o a un delfino cercar di far bene quel che fanno loro, ma fosse per me responsabilità, continuo costringermi a corrispondere a volontà superiori anziché spontaneo mettermi in rapporto con realtà umane. Come sarei infelice, se il mio lavoro non mi venisse naturale come a un castoro far la diga o a una rondine il nido, ma fosse per me dovere, continuo comandare a me stesso secondo gli ordini di volontà superiori. Come sarei infelice, se l’evoluzione umana non mi avesse reso terrenamente del tutto adeguato al rapporto con gli altri, con me stesso, col mondo, e fossi invece costretto, dal primo all’ultimo giorno di vita, a continui sforzi mai coronati da pieno successo per adeguarmi al modello chiamato spirito che nere ombre impongono e gestiscono in qualità di “rappresentanti di Dio”. No, grazie. Non mi cambierei con un uomo che crede cose come queste o che non può dire liberamente che non ci crede. Neanche se quell’uomo, nell’infanzia e nell’adolescenza, fosse stato di gran lunga più felice, nell’Istituto Massimiliano Massimo e coi suoi “padri” gesuiti, di quanto lo fui io nell’Istituto di cui non faccio il nome e coi miei “padri” cristaldi.

     

    Poi, certo, posso aver frainteso e sbagliato tutto. Forse anche l’Istituto di cui non faccio il nome era un’ottima scuola, e ottimi educatori i “padri” cristaldi e i loro insegnanti. In fondo gli Istituti e i “padri”, si chiamino gesuiti o si chiamino cristaldi, hanno dalla loro parte fior di testimonial prestigiosi come Mario Draghi, arrivato dov’è arrivato. Sì, effettivamente posso aver frainteso e sbagliato… Però non sono solo, nel mio fraintendere e sbagliare. Anch’io ho dalla mia un testimonial, e anche più prestigioso di un Mario Draghi qualsiasi: Francis Scott Fitzgerald1). Che nel 1924 dedicò ai suoi “padri” e alla loro nera ombra uno straordinario e bellissimo racconto: Assoluzione1).

     

    1) Francis Scott Fitzgerald, 28 racconti, trad. di Bruno Oddera, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, febbraio 1960 (!), pp 311 – 333

     

    Nel_nome_del_Padre_2_l250

    Un’inquadratura de In nome del Padre, (1972), di Marco Bellocchio. Dalla finestra di un’aula, dietro lo studente in primo piano, è chiaramente riconoscibile uno scorcio di piazza dei Cinquecento, a Roma.

     

     

     

    Le foto dell’articolo  sono tratte dal film In nome del Padre di Marco Bellocchio

    • Mi sono imbattuto casualmente in questa pagina e ho ammirato tantissimo la “delicatezza”, nella crudeltà del tuo vissuto, nel raccontare cose che chi riesce può intuire.
      Grazie per aver condiviso anche con me questi ricordi, sicuramente scomodi ma espressione di modi di fare e condurre che, in maniera più dissimulata ed evanescente, credo abbiano, purtroppo, ancora modo di esistere odiernamente.

    • Potrei sapere il nome dell’Istituto? Quello che negli anni 60 si è trasferito come il Massimo all’Eur?
      Grazie

      • chiediamo all’autore e le facciamo sapere al più presto

        Redazione

      • Gentile lettore, l’autore, per motivi personali, preferisce non precisare il nome dell’Istituto in questione. Leggendo però il secondo paragrafo dell’articolo esluderei che si tratti del Massimo “Più o meno in quegli stessi anni (il Draghi è del ’47, chi scrive del ’51) anch’io fui costretto dai genitori in una scuola del genere: gli ultimi due delle elementari, i tre delle medie e i due del ginnasio.”

        La ringraziamo per il suo interessamento.

        G.C.Z. (Per la Redazione)

    • Io credo invece che si tratti proprio dell’ Istituto Massimo.
      Infatti alcune circostanze e in paio di personaggi corrispondono
      perfettamente a quello che sperimentai io tra il 1966 e il 1974.
      Ex alunno di quasi 60 anni, venni messo contro la mia volonta’
      in questa scuola e il mio debutto fu traumatico: alcune delle peggiori
      violenze fisiche e morali della mia vita le ho subite li’ dentro.
      Non voglio specificare nulla in proposito salvo di aver avuto
      anche insegnanti mediocri,tra cui un miserabile frustrato e vigliacco ,
      persino per entrare in empatia con i suoi alunni.
      L’unica scusante poteva essere il compenso misero che ricevevano.
      Al ginnasio inoltre il bullismo e la violenza morale si sono fatti sentire.
      Solo al liceo ho cominciato a respirare meglio, col cambio di sezione.
      a quel punto pero’ contavo solo il tempo che mancava per finire il liceo.
      anche li’ comunque trovammo chi ci vessava ed era per noi un incubo. Oggi capita che ci si riveda talvolta con i vecchi compagni di liceo, ma non parliamo piu’ tanto del passato

    Scrivi un commento