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di Giulia De Baudi
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.Ieri, durante il suo viaggio nelle Filippine Bergoglio, rispondendo alla domanda di un cronista francese che, facendo riferimento alla strage al Charlie Hebdo, gli chiedeva «fino a che punto si può andare con la libertà di espressione» ha affermato: «La religione non può mai uccidere, non si può farlo in nome di Dio- ma ha aggiunto – non si può provocare, non si può prendere in giro la religione di un altro. Non va bene».
Mi chiedo come si potrebbe interpretare una frase del genere. Cos’è una minaccia? Un avvertimento? Una censura? Qualunque cosa sia contiene un giudizio negativo e una condanna contro Charlie Hebdo. Chi meglio dei giornalisti /disegnatori di quel giornale irrideva le religioni monoteiste?
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Il sovrano cattolico dovrebbe pur sapere che la storia del cristianesimo è una storia criminale. Essendo argentino ed avendo fatto parte, negli anni bui della dittatura militare,- 1976-1983 – della gerarchia della chiesa argentina, dovrebbe sapere che la chiesa fu ispiratrice dei Crociati del nuovo millennio che armati dal dio di Bergoglio compirono un genocidio: trentamila desaparecidos. La stessa cosa successe in Ruanda nel 1994. E questa volta le vittime furono 800.000.
Ma, dice Bergoglio, ”Non si può insultare la fede degli altri”, chi lo fa paga pegno.
Il graffito di Alessameno o graffito blasfemo del Palatino è una raffigurazione, accompagnata da un’iscrizione in greco che gli archeologi interpretano come irridente rispetto al culto del Cristianesimo. III sec. d. C..
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Certo, dice l’ex generale dei gesuiti argentini, “La religione non può mai uccidere, non si può farlo in nome di Dio”. Eppure la storia, anche quella recente, dice esattamente il contrario. Lo dice anche la storia delle città catare del sud della Francia distrutte nel XIII per volere di Innocenzo III. Lo dicono sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti che erano cristiani e che erano andati al potere aiutati dalla chiesa cattolica. Ricordiamo il Reichskonkordat vale a dire il concordato tra la Santa Sede e la Germania nazista che fu firmato il 20 luglio 1933 da Eugenio Pacelli, il futuro papa Pio XII, e da Franz von Papen. Ma Bergoglio ha la memoria corta.
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Ma che significa non si può insultare la religione degli altri: la preghiera “Contro i perfidi giudei” reintrodotta da Ratzinger non è un’offesa ad una religione? Perfido non è un’offesa?
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Cosa vuole dire Bergoglio? Che la redazione di Charlie Hebdo andava, e va a messa a tacere visto che la sua religione e lui stesso vengono ridicolizzati, anche oggi, sul giornale francese?
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Lascio queste ardue domande ai posteri e mi chiedo cosa ci sia di più ridicolo di un essere umano che, durante la comunione, crede di ingoiare un dio incarnato. E purtroppo non è una barzelletta … è ciò che credono – o dicono di credere – in molti!!! Comunque sia è uno di quei dogmi assurdi che secondo Bergoglio non si possono ridicolizzare … altrimenti lui tira pugni come se avessero offeso la sua mamma che naturalmente non sapeva cosa sarebbe diventato suo figlio; quindi lei poverina non va offesa perché non ha nessuna colpa …
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Per la storia criminale del cristianesimo leggi qui
Per il Ruanda leggi qui e qui
Leggi qui le sentenze contro la chiesa e qui il Dossier Bergoglio
ipazia......e bakunin
18 Gennaio 2015 @ 20:34
ciao giulia!!!la religione è un’insulto ,alla dignità, alla libertà,alla gioia ,alla felicità…….alla vita.bisognerebbe che qualcuno lo ricordasse al giuda megalomane vestito di bianco……..ALLA MORTE DELLE RELIGIONI,CHE SPEGNE E UCCIDE ,IL PENSIERO E LA VITA…….. ANTEPONGO CHI LA VITA LA ACCENDE ,CON IL LiBERO PENSIERO E CON L’AZIONE………..al perfido e squallido bergoglio…….. il furore poetico dell’anarchico novatore!
Novant’anni fa, il 29 novembre 1922, in un conflitto a fuoco con i Regi Carabinieri veniva ucciso a Teglia (Ge) l’anarchico individualista Abele Ricieri Ferrari, più noto come Renzo Novatore. Giovane iconoclasta al tempo delle proteste contro la persecuzione di Francisco Ferrer, antimilitarista condannato a morte per diserzione durante la prima guerra mondiale, ladro e rapinatore, assalitore di polveriere durante il «biennio rosso», attentatore di fascisti e dinamitardo delle loro sedi.. Autore di moltissimi testi, la sua opera ha sempre fatto storcere il naso sia ai militanti della prassi politica che ai cultori del cicisbeo letterario. Gli uni, inorriditi di fronte a chi non credeva nella suprema elevazione delle folle e perciò negava la realizzazione dell’anarchia intesa come forma sociale di umana convivenza; gli altri, indignati per le ridondanti incursioni in ambito poetico e filosofico da parte di un semplice autodidatta figlio di contadini.
In occasione dell’anniversario della sua morte, rendiamo omaggio a questo poeta della canaglia che si batté fino alla fine a favore di un’anarchia che fosse nettare per l’individuo, non droga per la collettività. Perché, che senso ha conquistare il pane, se non possiamo inebriarci con le rose?
Renzo Novatore
I
Sono individualista perché anarchico, e sono anarchico perché sono nichilista. Ma anche il nichilismo lo intendo a modo mio…
Non mi occupo di sapere se esso sia nordico od orientale, né se abbia o non abbia una tradizione storica, politica, pratica o teorica, filosofica, spirituale od intellettuale. Mi dico nichilista solo perché so che nichilismo vuol dire negazione! Negazione di ogni società, di ogni culto, di ogni regola e di ogni religione. Ma non agogno al Nirvana come non anelo al pessimismo disperato ed impotente dello Schopenhauer, che è qualche cosa di peggio della stessa rinnegazione violenta della vita. Il mio, è un pessimismo entusiasta e dionisiaco come le fiamme che incendiano la mia esuberanza vitale, che irride a qualsiasi prigione teoretica, scientifica e morale.
E se mi dico anarchico individualista, iconoclasta e nichilista, è appunto perché credo che in questi aggettivi siavi l’espressione massima e completa della mia volitiva e scapigliata individualità, che, come un fiume straripante, vuole espandersi impetuosamente travolgendo argini e siepi, fintanto che, urtando in un granitico masso, s’infranga e si disperda a sua volta. Io non rinnego la vita. La sublimo e la canto.
II
Chi rinnega la vita perché crede che questa non sia che Male e Dolore e non trova in se stesso l’eroico coraggio dell’autosoppressione è — per me — un grottesco posatore, un impotente; come è un essere compassionevolmente inferiore colui che crede che l’albero santo della felicità sia una pianta contorta sulla quale tutte le scimmie possono arrampicarsi in un più o meno prossimo avvenire, e che allora la tenebra del male sarà fugata dai razzi fosforescenti del vero Bene…
III
La vita — per me — non è né un bene né un male, né una teoria né un’idea. La vita è una realtà, e la realtà della vita è la guerra. Per chi è nato guerriero la vita è una sorgente di gioia, per gli altri non è che una sorgente di umiliazione e di dolore. Io non chiedo più alla vita la gioia spensierata. Essa non potrebbe darmela ed io non saprei più che farmene ormai che l’adolescenza è passata…
Le chiedo invece la gioia perversa delle battaglie che mi danno i fremiti dolorosi delle sconfitte ed i voluttuosi brividi delle vittorie.
Vinto sul fango o vittorioso nel sole, io canto la vita e l’amo!
Per l’anima mia ribelle non vi è pace che nella guerra, come, per il mio spirito vagabondo e negatore, non vi è felicità più grande della spregiudicata affermazione della mia capacità di vivere e di tripudiare. Ogni mia sconfitta mi serve soltanto come preludio sinfonico ad una nuova vittoria.
IV
Dal giorno ch’io venni alla luce — per una casuale combinazione che non mi importa ora di approfondire — portai con me il mio Bene ed il mio Male.
Vale a dire: la mia gioia e il mio dolore ancora in embrione. L’uno e l’altro progredirono con me nel cammino del tempo. Quanto più intensa ho provata la gioia tanto più profondo ho inteso il dolore.
Ma questo non può essere soppresso senza la soppressione di quello.
Ora ho scardinato la porta del mistero ed ho sciolto l’enigma della Sfinge. La gioia ed il dolore sono i due soli liquori componenti la bevanda eroica colla quale si ubriaca allegramente la vita. Perché non è vero che questa sia uno squallido e pauroso deserto ove non germina più nessun fiore né più matura nessun frutto vermiglio.
Ed anche il più possente di tutti i dolori, quello che sospinge il forte verso lo sfasciamento cosciente e tragico della propria individualità, non è che una vigorosa manifestazione d’arte e di bellezza.
Ed anch’esso rientra nella corrente universale dell’umano pensiero coi raggi folgoreggianti del crimine che scardina e travolge ogni cristallizzata realtà del circoscritto mondo dei più per ascendere verso l’ultima fiamma ideale e disperdersi nel sempiterno fuoco del nuovo.
V
La rivolta dell’uomo libero contro il dolore non è che l’intimo passionale desiderio d’una gioia più intensa e più grande. Ma la gioia più grande non sa mostrarsi all’uomo che nello specchio del più profondo dolore, per poscia fondersi con questo in un enorme e barbaro amplesso. Ed è da questo enorme e fecondo amplesso che scaturisce il superiore e saettante sorriso del forte, che attraverso la lotta canta l’inno più scrosciante alla vita.
Inno intessuto di disprezzo e di scherno, di volontà e di potenza. Inno che vibra e palpita fra la luce del sole che irradia le tombe; inno che rianima il nulla e lo riempie di suoni.
VI
Sopra lo spirito schiavo di Socrate che accetta stoicamente la morte e lo spirito libero di Diogene che accetta cinicamente la vita, si erge l’arco trionfale sul quale danza il sacrilego frantumatore de’ nuovi fantasmi, il radicale distruttore di ogni mondo morale. È l’uomo libero che danza in alto, fra le magnifiche fosforescenze del sole.
E quando si alzano dai paludosi abissi le gigantesche nubi gonfie di cupa tenebra per impedirci la vista della luce ed ostacolarci il cammino, egli si apre il varco a colpi di Browning o ferma il loro corso colla fiamma del suo pensiero e della sua fantasia dominatrice, imponendo loro di soggiacere come umili schiave ai suoi piedi.
Ma solo chi conosce e pratica i furori iconoclastici della distruzione può possedere la gioia nata dalla libertà, di quella unica libertà fecondata dal dolore. Io mi ergo contro la realtà del mondo esteriore per il trionfo della realtà del mio mondo interiore.
Nego la società per il trionfo dell’io. Nego la stabilità di ogni regola, di ogni costume, di ogni morale, per l’affermazione di ogni istinto volitivo, di ogni libera sentimentalità, di ogni passione e di ogni fantasia. Irrido ad ogni dovere ad ogni diritto per cantare il libero arbitrio.
Schernisco l’avvenire per soffrire e godere nel presente il mio bene ed il mio male. L’umanità la disprezzo perché non è la mia umanità. Odio i tiranni e detesto gli schiavi. Non voglio e non concedo solidarietà perché credo che sia una nuova catena, e perché credo con Ibsen che l’uomo più solo è l’uomo più forte.
Questo è il mio Nichilismo. La vita, per me, non è che un eroico poema di gioia e di perversità scritto dalle mani sanguinanti del dolore e del male o un sogno tragico d’arte e di bellezza!
[Nichilismo, Anno I, n. 4, 21 maggio 1920]
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