• Albert Camus – La solitudine del portiere – Recensione

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    di Gian Carlo Zanon


    Non lo volevo leggere il libro di Emanuele Santi Il portiere e lo straniero  edito da L’asino d’oro. Non lo volevo leggere perché mi sembrava una forzatura mostrare l’opera che ha reso immortale Albert Camus attraverso uno spiraglio, quello del calcio, troppo stretto per poter dare a Lo straniero quel respiro universale che gli appartiene.

    Ieri sera ho finito di leggerlo alle due di notte: le ultime pagine sono altamente adrenaliniche. Poi mi sono rigirato per almeno un’ora nel letto, pensando a ciò che avevo letto. E ora eccomi qui per cercare di dare forma a pensieri, stimolati dal testo di Santi che urgono nella mente.

    Emanuele Santi ha il dono dell’aedo greco, dell’ablador quechua, dei pupari siciliani, vale a dire di chi riesce a trasmettere immagini leggendarie vivicandole. Immagini che trovano alvei in cui trattenersi nella realtà umana di chi ha saputo ascoltare il suono/immagine che si cela nelle parole.

     Devo confessare che non essendo un appassionato di calcio non sempre leggo la rubrica di Santi, Calcio mancino, che da anni appare sulla rivista left.  Però ogni volta ho letto i suoi articoli d’un fiato, e mi sono piaciuti, sempre

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    La sto prendendo larga perché vorrei, mi piacerebbe, parlare di questo libro che mi ha dato sensazioni divergenti con onestà intellettuale. Il pensiero, ideologico, della forzatura non mi ha abbandonato mai durante la lettura. Solo dopo il caffè del mattino mi sono reso conto che ciò che avevo nominato “forzatura” in realtà era un’interpretazione poetica. Poetica nel senso etimologico, cioè fare, in questo caso scrivere, attraverso sé stessi, attraverso la propria visione soggettiva del mondo. Quindi nel libro di Santi non vi sono “interpretazioni forzate” ma semmai una inconsapevole intenzionalità di mettere sé stesso in ciò che scrive. Descrivere, secondo il proprio punto di vista, il proprio sguardo, la propria passione. E non è poco.

    Chi interpreta la realtà, ma anche un romanzo, se è intellettualmente onesto mette qualcosa di sé, è ineluttabile, in ciò che scrive. Santi è un appassionato di calcio e filtra il vissuto dello scrittore algerino attraverso la sua passione. Io sono figlio di una pied noire tunisina e ascolto le parole di Camus irrorandole con ciò che resta del ricordo del mio vivere nel mare africano, senza mai poterlo toccare, attraverso i racconti di mia madre, della nonna, della zia, ecc. . È chiaro che le nostre interpretazioni divergono … ma non troppo.

    Ad esempio sono certamente d’accordo quando Santi dice che Camus scrive Lo straniero  «in forma stilistica assolutamente essenziale e sintetica». È il modo di scrivere dello scrittore algerino, la cifra artistica in cui la sua poetica diviene percepibile. Le sue frasi sono squadrate come tessere di mosaico. Tessere di un mosaico che dovevano ricreare, delineandolo e rendendolo intellegibile,  un pensiero/immagine presente, come traccia ancora informe, nella sua mente.

    E qui magari, quando l’autore de Il portiere e lo straniero  scrive che questo suo scrivere è un dono della sua esperienza calcistica consumata da portiere tra i pali di una porta da difendere da ogni costo, non sarei molto d’accordo. La forma della scrittura – lo sappiamo dagli articoli che Massimo Fagioli scrive ogni settimana sulla stessa rivista in cui Santi pubblica la sua rubrica, left, – è la somma di vissuti profondi che iniziano al momento della nascita. L’esperienza  del portiere Camus è solo, penso, una piccola parte di quel vissuto. Non si scrive Lo straniero perché  si è stati portieri da calcio, ben altri sono gli stimoli, le immagini e le idee che soggiacciono sotto questa opera immortale. Però come scrive Santi, c’è anche quel vissuto da portiere, quella scelta di rimanere solo tra i pali; scelta che, secondo me, è dovuta all’essenza umana di Camus. Camus esce dalla mischia e va in solitudine tra i pali perché ha dentro di sé, in nuce, Lo straniero. Come possibilità intendo.

    Emanuele Santi scrive giustamente che Camus non può essere considerato un’esistenzialista. È evidente. Basta leggere una sola frase citata da Santi a pag. 97 del suo libro, per rendersi conto che Camus non poteva appartenere a quella corrente di pensiero che fece, con Heidegger, da matrice filosofica al nazismo: «Imparavo finalmente, nel cuore dell’inverno, che c’era in me un’invincibile estate ».

    Persino Sartre, riconosce a Camus l’estraneità all’esistenzialismo «Camus non è un esistenzialista. Benché faccia riferimento a Kinkegaard, a Jaspers e a Heidegger, i suoi veri maestri sono i moralisti francesi del XVII secolo. È un classico, un mediterraneo. (…) Non esiste per me un assurdo come lo intende Camus. Quello che io chiamo assurdo è qualcosa di molto diverso: è ciò che esiste di ingiustificabile, di dato, di sempre originario». Ed è a questa idea dell‘assurdo’, che Sartre definisce “di dato, di sempre originario”  cioè di, inscritto negli esseri umani come destino ineluttabile sin dalla nascita, che Camus si ribella. Nei suoi scritti si sente sempre il suono nostalgico dell’innocenza primaria; egli non pensa, lo si evince da tutta la sua opera, che l’uomo nasca con un qualche forma di peccato originale, o di “malattia mortale” come credeva Kinkegaard.

    Non è questa la cornice per indagare cosa intendesse Camus quando usava la parola assurdo. Basti sapere che, come ha scritto Jean Daniel, per lui «il nichilismo è la matrice dell’assurdo». Se il nichilismo lo si intende come pulsione di annullamento che “fa il nulla”, l’assurdo potrebbe essere tradotto come anaffettività.

    Scrivo questo per dire che contrariamente a quanto scrive Santi  a pag. 96 il concetto di assurdo per Camus non aveva nulla a che fare con l’«assurdità della vita e dell’esistenza umana». Invece aveva molto a che fare, come scrive subito dopo l’autore – pag. 97 – con l’«assurdità di coloro che fanno di tutto al mondo per impedire agli uomini di essere felici». E questi signori li si può definire anaffettivi perché hanno  in sé una stonatura dell’umano che è, appunto, assurda.

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    Nelle splendide pagine finali, Santi attraverso tanti “Soltanto chi …”  ci dice che Camus ha trasformato il ricordo dei campi di calcio frementi e la sua visione solitaria nel ruolo di portiere, in alcune indimenticabili pagine de Lo straniero. La spiaggia assolata dove il protagonista ucciderà l’arabo è memoria dei campi di calcio assolati, così come lo è il riverbero del sole che gli sarà fatale. L’arabo che estrae il luccicante coltello è l’avversario che avanza con il pallone tra i piedi … anche il lessico scrive Santi, appartiene al mondo del calcio: «Gli spari che si sentono sono quattro, quattro palle che si insaccano – guarda un po’, si insaccano è l’espressione giusta – nel corpo inerte dell’attaccante, cioè l’arabo, senza lasciare traccia» . Ecco, qui, proprio per fare il pignolo, ma è un punto fondamentale, devo fare un appunto. Gli spari che si odono sono cinque e non quattro.  Prima di quei quattro assurdi spari che aprono a Meursault “la porta della sventura” ce n’era stato un altro : «Il grilletto ha ceduto, ho toccato il ventre liscio dell’impugnatura, ed è là, in quel rumore secco, e insieme assordante, che tutto è cominciato».

     

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    Qualche anno fa ho scritto in un piccolo saggio, Camus,‘l’assurda’ joie de vivre, una mia interpretazione di questo capolavoro esplorato da Santi.

    “Camus dal suo rifiuto all’esistenzialismo, crea un personaggio, Meursault, il quale, come direbbe Heidegger, ha un ‘progetto di esistenza’: essere per l’assenza. L’assassinio del ragazzo arabo sulla spiaggia assolata, lo sparo, quel «rumore secco e insieme assordante» rompono un equilibrio precario: «Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno». Equilibrio che Meursault si era costruito pezzo per pezzo come una muraglia: ogni pulsione di annullamento è un brick in the wall, una ‘muraglia assurda’ ed invisibile che lo separa dagli altri donandogli quella parvenza di pace, quell’atarassia tanto agognata. Meursault, dopo il primo sparo, con rabbia scarica l’arma addosso ad un essere umano, colpevole di avergli fatto fallire il suo “progetto d’esistenza”. Esistenza nel senso etimologico: ex-sisto, star fuori, essere straniero nel mondo”.

    Rubo uno dei tanti “soltanto chi …” che accendono le ultime pagine de Il portiere e lo straniero  per dire che “soltanto chi” «in mezzo ai clamori e alla violenza – riesce a – conservare nel cuore il ricordo di un mare placido, di una collina indimenticabile, il sorriso di un volto caro», – come scriveva Camus  nelle Lettere ad un amico tedesco – poteva poi scrivere Lo straniero per tentare di dare un volto all’assurdo, alias anaffetività.

    Alcune parti del racconto di Santi sulla genesi del romanzo di Camus mi convincono particolarmente. Ad esempio quando cita le ultimissime tragiche parole del romanzo: «mi resta da augurarmi che siano molti gli spettatori il giorno della mia esecuzione, e che mi accolgano con grida di odio». È molto probabile che Camus abbia inconsapevolmente attinto dalle sensazioni vissute dal suo vissuto da portiere durante le trasferte nei campi da gioco avversari, quando, oltre a dover fronteggiare dieci antagonisti, doveva vedersela con i mal di pancia causati dall’odio dei tifosi nemici che premevano alle sue spalle scaricando su di lui tutta rabbia per una vita consumata inutilmente.

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    Ma questa è stata sempre la realtà culturale che Albert Camus ha dovuto affrontare tutta la vita in solitudine.

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    Ecco ora si lo vedo anch’io: è lì fermo sulla linea della porta, che scruta l’assurdo che avanza, e lui è l’ultimo, estremo difensore dell’umano … ha ragione Emanuele Santi …

     

    • Bello, intenso ,interessante

      • Grazie Maurizio . Questa recensione è un tentativo di impostare una dialettica con l’autore di questo libro, che devo dire offre degli sguardi originali su Camus e sulla genesi della sua poetica.

        Gian Carlo Zanon

    • ciao giancarlo oggi sono andato a trovare dei cari compagni,e degli insuperabili amici,che gestiscono una libreria e un centro di documentazione anarchico,nel cuore di s.lorenzo a roma. sono ritornato a casa contento non solo di averli rivisti e abbracciati,ma con un bellissimo regalo ; l’ordine libertario.vita filosofica di albert camus . di michel onfray,ed.ponte delle grazie.

      • è bello svegliarsi tardi, dopo una lunga serata passata con amici, e trovare un messaggio come questo che da senso a una ricerca su Camus iniziata tanti anni fa quando in un cineforum di provincia del Profondo Nord italico vidi “Lo straniero” di Luchino Visconti. Non capii gran che allora ma quel romanzo ha lavorato dentro di me tutto questo tempo e “ancor mi rugge”. Grazie Antonio. Il libro di cui parli ce l’ho sul comodino, sto facendo un lavoro sulla resistenza per preparare un evento e, dopo aaver studiato Fenoglio, Pavese, Calvino e Vittorni, e molti altri tra cui “Partiggia” di Luzzzato, deve leggere ancora la Ragazza di Bube di Cassola e poi mi dedico a Camus.

        Grazie un abbraccione
        Gian Carlo

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