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Una questione privata
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dal I Capitolo
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(…)
«Quando la rivedrò? Prima della fine della guerra è impossibile. Non è nemmeno augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce correrò a Torino a cercarla. È lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria».
Il suo compagno si avvicinava, pattinando sul fango fresco.
– Perché hai deviato? – domandò Ivan. – Perché ora ti sei fermato? Cosa guardi? Quella casa? Perché ti interessi a quella casa?
– Non la vedevo dal principio della guerra, e non la rivedrò più prima della fine. Abbi pazienza cinque minuti, Ivan.
– Non è questione di pazienza, ma di pelle. Quassù è pericoloso. Le pattuglie.
– Non si azzardano fin quassù. Al massimo arrivano alla strada ferrata.
(…)
Passò il cancello che non cigolò e percorse il vialetto fino all’altezza del terzo ciliegio. Com’erano venute belle le ciliege nella primavera del quarantadue. Fulvia ci si era arrampicata per coglierne per loro due. Da mangiarsi dopo quella cioccolata svizzera autentica di cui Fulvia pareva avere una scorta inesauribile. Ci si era arrampicata come un maschiaccio, per cogliere quelle che diceva le più gloriosamente mature, si era allargata su un ramo laterale di apparenza non troppo solida. Il cestino era già pieno e ancora non scendeva, nemmeno rientrava verso il tronco. Lui arrivò a pensare che Fulvia tardasse apposta perché lui si decidesse a farlesi un po’ più sotto e scoccarle un’occhiata da sotto in su. Invece indietreggiò di qualche passo, con le punte dei capelli gelate e le labbra che gli tremavano.
«Scendi. Ora basta, scendi. Se tardi a scendere non ne mangerò nemmeno una. Scendi o rovescerò il cestino dietro la siepe. Scendi. Tu mi tieni in agonia».
Fulvia rise, un po’ stridula, e un uccello scappò via dai rami alti dell’ultimo ciliegio.
Proseguì con passo leggerissimo verso la casa ma presto si fermò e retrocesse verso i ciliegi. «Come potevo scordarmene?» pensò, molto turbato. Era successo proprio all’altezza dell’ultimo ciliegio.
Lei aveva attraversato il vialetto ed era entrata nel prato oltre i ciliegi. Si era sdraiata, sebbene vestisse di bianco e l’erba non fosse più tiepida. Si era raccolta nelle mani a conca la nuca e le trecce e fissava il sole. Ma come lui accennò ad entrare nel prato gridò di no. «Resta dove sei. Appoggiati al tronco del ciliegio. Così». Poi, guardando il sole, disse: «Sei brutto». Milton assentì con gli occhi e lei riprese: «Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto». Girò impercettibilmente la testa verso lui e disse: «Ma non sei poi così brutto. Come fanno a dire che sei brutto? Lo dicono senza… senza riflettere». Ma più tardi disse, piano ma che lui sentisse sicuramente: «Hieme et aestate, prope et procul, usque dum vivam… O grande e caro Iddio, fammi vedere per un attimo solo, nel bianco di quella nuvola, il profilo dell’uomo a cui lo dirò». Scattò tutta la testa verso di lui e disse: «Come comincerai la tua prossima lettera? Fulvia dannazione?» Lui aveva scosso la testa, frusciando i capelli contro la corteccia del ciliegio. Fulvia si affannò. «Vuoi dire che non ci sarà una prossima lettera?» «Semplicemente che non la comincerò Fulvia dannazione. Non temere, per le lettere. Mi rendo conto. Non possiamo più farne ameno. Io di scrivertele e tu di riceverle».
-Era stata Fulvia a imporgli di scriverle, al termine del primo invito alla villa. L’aveva chiamato su perché le traducesse i versi di Deep Purple.
Penso si tratti del sole al tramonto, gli disse. Lui tradusse, dal disco al minimo dei giri. Lei gli diede sigarette e una tavoletta di quella cioccolata svizzera. Lo riaccompagnò al cancello. «Potrò vederti, – domandò lui, – domattina, quando scenderai in Alba?» «No, assolutamente no». «Ma ci vieni ogni mattina, – protestò, – e fai il giro di tutte le caffetterie». «Assolutamente no. Tu ed io in città non siamo nel nostro centro». «E qui potrò tornare?» «Lo dovrai». «Quando?» «Fra una settimana esatta». Il futuro Milton brancolò di fronte all’enormità, alla invalicabilità di tutto quel tempo. Ma lei, lei come aveva potuto stabilirlo con tanta leggerezza? «Restiamo intesi fra una settimana esatta. Tu però nel frattempo mi scriverai». «Una lettera?» «Certo una lettera. Scrivimela di notte». «Sì, ma che lettera?» «Una lettera». E così Milton aveva fatto e al secondo appuntamento Fulvia gli disse che scriveva benissimo. «Sono… discreto». «Meravigliosamente, ti dico. Sai che farò la prima volta che andrò a Torino? Comprerò un cofanetto per conservarci le tue lettere. Le conserverò tutte e mai nessuno le vedrà. Forse le mie nipoti, quando avranno questa mia età». E lui non poté dir niente, oppresso dall’ombra della terribile possibilità che le nipoti di Fulvia non fossero anche le sue. «La prossima lettera come la comincerai? – aveva proseguito lei. – Questa cominciava con Fulvia splendore. Davvero sono splendida?» «No, non sei splendida». «Ah, non lo sono?» «Sei tutto lo splendore». «Tu, tu tu, – fece lei, – tu hai una maniera di metter fuori le parole… Ad esempio, è stato come se sentissi pronunziare splendore per la prima volta». «Non è strano. Non c’era splendore prima di te». «Bugiardo! – mormorò lei dopo un attimo, – guarda che bel sole meraviglioso!» E alzatasi di scatto corse al margine del vialetto, di fronte al sole.
Ora lo sguardo basso di lui rifaceva quel lontano tragitto di Fulvia, ma prima di arrivare al limite ritornò al punto di partenza, all’ultimo ciliegio. Come si era imbruttito, e invecchiato. Tremava e sgocciolava, impudicamente, di contro il cielo biancastro.
Poi si riscosse e un po’ pesantemente arrivò sulla spianata davanti al portichetto d’entrata. Il ghiaino era impastato di foglie macerate, le foglie dei due autunni di lontananza di Fulvia.
(…)
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dal XIII Capitolo
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Erano una cinquantina, sparsi per i campi, in tutte le direzioni, uno solo sulla strada, non tutti con l’arma pronta, tutti in mimetico ammollato, la pioggia si polverizzava sui loro elmetti splendenti. Il meno lontano era quello sulla strada, a trenta metri da lui, teneva il moschetto fra spalla e braccio, come se lo ninnasse.
Nessuno si era ancora accorto di lui, parevano tutti, lui compreso, in trance.
Con una zecca del pollice sbottonò la fondina, ma non estrasse la pistola. Nell’istante in cui il soldato più vicino dirigeva su di lui gli occhi frastornati dall’acqua, Milton ruotò seccamente all’indietro. Non gli arrivò l’urlo dell’allarme, solo un rantolo di stupore.
Camminava verso il culmine con passi lunghi e indifferenti, mentre il cuore gli batteva in tanti posti e tutti assurdi e sentiva la schiena allargarglisi, fino a debordare dalla strada. «Sono morto. Mi prendesse alla nuca. Ma quando arriva?»
«Arrenditi!»
Gli si ghiacciò il ventre e gli mancò netto il ginocchio sinistro, ma si raccolse e scattò verso il ciglio. Già sparavano, di moschetto e di mitra, a Milton pareva non di correre sulla terra, ma di pedalare sul vento delle pallottole. «Nella testa, nella testa!» urlava dentro di sé e in tuffo sorvolò il ciglione e atterrò sul pendio, mentre un’infinità di pallottole spazzavano il culmine e tranciavano la sua aria. Fece una lunghissima scivolata, fendendo il fango con la testa protesa, gli occhi sbarrati e ciechi, sfiorando massi emergenti e cespi di spine. Ma non aveva sensazione di ferite e di sangue spicciante, oppure il fango richiudeva, plastificava tutto. Si rialzò e corse, ma troppo lento e pesante, senza il coraggio di sbirciare all’indietro, per non vederli ormai sul ciglione, allineati come al banco di un tirasegno. Correva goffamente tra un argine e il torrente, e a un certo punto pensò di fermarsi, visto che tanto non gli riusciva di prender velocità. Sempre aspettando la scarica. «Non nelle gambe, non nella spina!» Continuò a correre verso il tratto più alberato del torrente. Quando li intravvide sull’arginello, probabilmente un’altra pattuglia, seminascosti dietro le gaggie sgrondanti, a un cinquanta passi da lui. Non l’avevano ancora individuato, lui era come uno spettro fangoso, ma ecco che ora urlavano e spianavano le armi.
«Arrenditi!»
Aveva già frenato e rinculato. Puntò dritto al ponte e dopo tre passi si avvitò su se stesso e rotolò via. Sparavano da due lati, dal ciglione e dall’arginello, urlando a lui e a se stessi, eccitandosi, indirizzandosi, rimproverandosi, incoraggiandosi. Milton era di nuovo in piedi, rotolando aveva urtato contro una gobba del terreno. Dietro, davanti e intorno a lui la terra si squarciava e ribolliva, lanci di fango svincolati dalle pallottole gli si avvinghiavano alle caviglie, di fronte a lui gli arbusti della riva saltavano con crepiti secchi.
Ripuntò al ponticello minato. Era una morte identica a quell’altra, ma agli ultimi passi il suo corpo pianse e si rifiutò di saltare in aria a brandelli. Senza l’intervento del cervello, frenò seccamente saltò nel torrente volando oltre i cespugli tranciati dalla fucileria.
Cadde in piedi e l’acqua gli grippò le ginocchia, mentre ramaglia potata dal fuoco gli crollava sulle spalle.
Non indugiò più di un secondo, ma seppe che era bastato, se solo osava girar gli occhi avrebbe certo visto i primi soldati già sulla sponda, che gli miravano il cranio con sette, otto, dieci armi. La mano gli volò alla fondina, ma la trovò vuota, sotto le dita non schizzò via che un po’ di fango. Perduta, certo gli era sfuggita in quell’enorme scivolata a capofitto giù dal ciglione. Per la disperazione voltò intera la testa e guardò tra i cespugli. Un solo soldato gli era vicino, a un venti passi, col moschetto che gli ballava tra mano e gli occhi fissi all’arcata del ponte. Con uno sciacquio assordante si tuffò avanti di ventre e con un solo guizzo si aggrappò all’altra sponda. Riscoppiò dietro l’urlio e la sparatoria. Scavalcò la riva sul ventre e si buttò per lo sconfinato, nudo prato. Ma le ginocchia gli cedettero nell’intollerabile sforzo di acquistar subito velocità. Stramazzò. Urlarono a squarciagola. Una voce terribile malediceva i soldati. Due pallottole si conficcarono in terra vicino a lui, morbide, amichevoli. Si rialzò e corse, senza forzare, rassegnatamente, senza nemmeno zigzagare. Le pallottole arrivavano innumerevoli, a branchi, a sfilze. Arrivavano anche in diagonale, alcuni si erano precipitati a sinistra per coglierlo d’infilata, e gli sparavano anche d’anticipo, come a un uccello. Queste diagonali lo atterrivano infinitamente di più, le dirette avevano tutte le probabilità di farlo secco. «Nella testa, nella testaaaa!» Non aveva più la pistola per spararsi, non vedeva un tronco contro cui fracassarsi la testa, correndo alla cieca si alzò le due mani al collo per strozzarsi.
Correva, sempre più veloce, più sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’interno, come se smaniasse di riconquistare la sua sede. Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi.
Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici. Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati. Poi, mentre ancora correva, in posti nuovi o irriconoscibili dalla sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. Ma i pensieri venivano dal di fuori, lo colpivano in fronte come ciottoli scagliati da una fionda.
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«Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi!»
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Non finiva di correre. La terra saliva sensibilmente ma a lui sembrava di correre in piano, un piano asciutto, elastico, invitante. Poi d’improvviso gli si parò dinnanzi una borgata. Mugolando Milton la scartò, l’aggirò sempre correndo a più non posso. Ma come l’ebbe sorpassata, improvvisamente tagliò a sinistra e l’aggirò di ritorno.
Aveva bisogno di veder gente e d’esser visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell’aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli. Sempre a quel ritmo di corsa riguadagnò l’imbocco del borgo e l’attraversò nel bel mezzo. C’erano ragazzini che uscivano dalla scuola e al rimbombo di quel galoppo sul selciato si fermarono sugli scalini, fissi alla svolta. Irruppe Milton, come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piede saettava fango dai fianchi. Scoppiò un grido adulto, forse della maestra alla finestra, ma lui era già lontano, presso l’ultima casa, al margine della campagna che ondava.
Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò …
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