• Baudelaire, Rimbaud e l’unità poetica frantumata

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     di Gian Carlo Zanon

    Pere fare un tentativo di ricerca sui poeti che esprimono nelle loro liriche sentimenti di disperazione causati da sensi di colpa, ( Petrarca ) depressione, ( Baudelaire ) perdita dell’unità ontologica, (Rimbaud), si dovrebbe tentare di conoscere meglio, o perlomeno provare ad investigare, definire questo ‘male oscuro’.

    In questi poeti citati vi sono caratteristiche comuni: perdita della speranza, angoscia, disillusione, coscienza di un’unità frantumata. Diversa tra loro è però la percezione di questo male di vivere, diversa è la codificazione e naturalmente la descrizione.

    Questo malessere sembrerebbe generato da un indefinito senso di colpa più o meno consapevole più o meno inconscio. Naturalmente il senso di colpa trova la propria espressione poetica in varie forme: a secondo della realtà umana dei poeti i quali, a loro volta, hanno vissuto in un proprio spazio-tempo culturale.

    Petrarca era completamente immerso in una  società nella quale il senso di colpa era in ogni angolo della mente, anche perché il cristianesimo basa tutta il suo sistema filosofico sul peccato originale. Certamente diversa era l’interpretazione di questo mal de vivre  in Baudelaire e Rimbaud i quali vivevano in una età storica che stava facendo i conti con il positivismo e che, quindi, aveva, negando la realtà interna umana,  relegato il senso di colpa nella chimica del corpo.

    Nelle poesie di questi poètes maudits ma anche in molta letteratura dell’ottocento, il senso di colpa affiora ma viene chiamato in altro modo, appare in altro modo, viene rappresentato in altro modo: vedi il ritratto nascosto di Dorian Gray che diviene l’orribile specchio delle sue nefandezze, oppure l’intervento del William Wilson buono per fermare la crudeltà del William Wilson cattivo nel romanzo omonimo di E.A. Poe.

    Possiamo affermare che il senso di colpa ontologico, che è sicuramente radicato in tutte le latitudini, in ogni società e in ogni tempo umano, viene però codificato in modi culturali diversi. Per le società totemiche è l’infrazione di un tabù: mangiare un cibo in un certo periodo dell’anno; per le società monoteiste è il peccato: la rottura del patto con la divinità invisibile.

    Nelle società moderne e laiche è, o meglio dovrebbe essere, l’infrazione dell’etica umana  a far sorgere il senso di colpa che porta alla depressione. Infrangere, per vicissitudini di rapporto interumano,  il ‘patto’ fatto alla nascita con la pulsione fantasia, genera indubbiamente sensi di colpa.

     

    In effetti, ciò che sente l’individuo che avverte questo malessere psichico, è la rottura di un equilibrio interire, una scissione dell’essere: ha vissuto un’età dell’oro che ora non c’è più. Egli sa d’aver infranto una propria legge interna, sa di aver sfigurato una propria immagine interna, (vedi ancora Il ritratto di Dorian Gray). Egli sente, confusamente, di aver leso la propria identità umana: o ha fatto qualcosa che non doveva fare, o non ha fatto qualcosa che doveva fare.

     

    Pensiamo ad Antigone che non può tradire se stessa, ovvero il proprio daimon. Se lo facesse le Erinni, rappresentazione antica dei sensi di colpa, la tormenterebbero sino a portarla alla pazzia. Per Antigone le leggi scritte dagli uomini non valgono nulla a confronto delle leggi dettate dalle proprie divinità interne, vale a dire della propria realtà umana. Sofocle fece un tentativo disperato per far intravedere agli spettatori, assiepati nella cavea, gli ultimi fuochi di quel mondo, ormai già scomparso, dove gli affetti erano ancora fusi con il corpo, quando«dei e uomini erano un’unica stirpe  e le parole non mentivano ma esprimevano l’essenza delle cose». “De magia” Giordano Bruno.

     

    Ed è questa unità frantumata che i poeti vorrebbero ricomporre. Attraverso voces e scriptura essi cercano la tenue traccia di una lingua perduta che possa calmare l’angoscia per qualcosa che essi sentono come una minaccia: ne hanno sensazione, ma non riescono a vedere, capire. E la scrittura poetica diviene la guida che li deve/dovrebbe condurre nel “cuore di tenebra” delle profondità umane.

     

    Baudelaire fotografato da Nadar

    Splenn.  Baudelaire

    «…quando la terra è trasformata in una umida prigione dove, come un pipistrello, la Speranza sbatte contro i muri con la sua timida ala picchiando la testa sui soffitti marcescenti».

     

    Une saison en enfer. Rimbaud

     

    «Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino in cui si schiudevano tutti i cuori, scorrevano tutti i vini.

    Una sera, ho preso la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara. – E l’ho ingiuriata. »

     

    Speranza perduta; perdita della festa della vita. Scorrendo le biografie dei poeti si possono scorgere i motivi di tanta disperazione: la morte di Laura per Petrarca; l’abbandono anaffettivo della madre per Baudelaire; infinite delusioni e forse anche uno stupro, da parte della soldataglia durante la repressione della Comune parigina, per Rimbaud.

    Altra caratteristica comune è la sparizione di un immagine femminile per morte, per allontanamento affettivo, per delusione. La disperazione, la fine della speranza viene rappresentata come perdita dell’immagine femminile. Perdita che fa percepire l’altro da sé come «… angelo o troia…»  (Rimbaud – Les stupra) e non nella sua vera realtà interna.

    Arthur Rimbaud

    Nonostante siano passati quasi trecento anni siamo ben lontani dalla visione del femminile presente in Giordano Bruno: «Voglio dire che a le donne, benché talvolta non bastino gli onori ed ossequi divini, non perciò se gli denno onori ed ossequi divini. Voglio dire che le donne siano cossì onorate ed amate, come denno esser amate ed onorate le donne». “Dialoghi italiani”.


    Sin dalle prime poesie Rimbaud descrive la sensazione di piccole ferite inferte dalle donne, e a sedici anni si devono avere i polsi ben saldi per non cadere nella delusione che porta poi alla negazione del rapporto eterosessuale.

    Les riparties de Nina – Rimbaud

    “Col mio petto sul tuo petto,

    noi andremo, vuoi?

    (…)

    Tu verrai, verrai; io ti amo!

    Sarà bello, vedrai.

    Tu verrai, non è vero? e  poi…

     

    Lei. – Ed il mio ufficio? ”

    “Ed il mio ufficio?”  In questa ultima strofa, apparentemente banale, si sente come un tonfo: ma che c’entra l’ufficio? Che hanno a che vedere con il rapporto uomo donna le cose di tutti i giorni?

    Gli oggetti del rapporto con la realtà cosciente emergono dalle labbra della donna a cui è stato ceduto il cuore che viene gelato. In questo modo viene descritta da Rimbaud l’improvvisa delusione che lacera il senso del rapporto fra uomo e donna e crea un’ennesima ferita. Apparente piccola. Ma tante piccole punture di vespa possono causare la morte. Ma, nonostante tutto non è ancora finita. Il poeta francese ha 17 anni quando scrive Le bateau ivre in cui descrive un’immensa tristezza ma non la disperazione ed ha le idee chiare sul ruolo che la donna dovrebbe avere in un società più giusta: «Quando sarà spezzata l’infinita schiavitù della donna, quando vivrà per se stessa e grazie a se stessa, l’uomo – finora abominevole – le avrà dato il benservito, sarà poeta anche lei! La donna troverà l’ignoto! ».

    Le bateau ivre – Rimbaud

     

    «Ma davvero ho pianto troppo! Le albe sono strazianti.

    Ogni luna è atroce, ogni sole amaro:

    (…)

    Se io desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera

    nera e fredda in cui, nel crepuscolo profumato,

    un bambino malinconico, in ginocchio, lascia andare

    una barchetta leggera come una farfalla di maggio »

    .

    Poi, dopo il crollo della Comune parigina,  il colpo di grazia, che annichilisce ogni speranza, viene descritto con un linguaggio che sembra dissociato.

     –

    Cœur Supplicié – Rimbaud

     

    «Il mio cuore triste sbava a poppa,

    il mio cuore coperto di vile tabacco;

    sputano su di lui schizzi di zuppa,

     il mio cuore triste sbava a poppa,

    fra i lazzi volgari della truppa

    (…)

    Itifallici e soldateschi

    I loro frizzi l’hanno depravato!

    Al timone si vedono disegni

    Itifallici e soldateschi.

    O flutti abracadabranteschi

    Prendete il mio cuore e lavatelo. »

    Interessante è notare in Baudelaire come questa caduta ontologica si rifletta negativamente sull’immagine femminile che viene negata nella sua realtà divenendo femme fatal amata e odiata, femmina e demonio come in questa sua angosciante ‘visione’:

     –

    Je te donne ces vers – Baudelaire

     

    “…O tu, che come un’ombra dall’effimera orma, calpesti con piede leggero e sguardo sereno gli stupidi mortali che t’hanno giudicata amara, statua dagli occhi metallici, grande angelo dalla bronzea fronte”

     

    Possiamo azzardare una interpretazione: forse i canti dei poeti qui trattati  sono l’espressione di una vitalità che però non è sostenuta da una identità umana capace di resistere alle delusioni.

    Ed è molto difficile uscire indenni dal rapporto con l’altro da sé  –  se questo ha risvolti patologici  –   avendo perduto nei primi mesi di vita la fusione originaria dell’Io.

    Perduta questa unità primigenia non rimangono che i surrogati delle sensazioni, alcool e droga i quali, solo apparentemente, possano accompagnare nella discesa nell’inconscio. Questi paradisi artificiali, in realtà, servono solo per sedare, momentaneamente, la disperazione portando però alla desertificazione psichica.

     

    Harar – Rimbaud è il secondo da destra

    Petrarca prenderà l’abito talare; Baudelaire tornerà distrutto dalla madre tanto “amata”; Rimbaud diverrà mercante d’armi, di schiavi  e di morte.

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    • Grazie per questo articolo
      grazie per la profondità
      di questa visione

    • Grazie per l’analisi… ma lei ha mai letto Baudelaire? intendo, la raccolta nella sua interezza?

      Ridurlo al solito cliché del poeta maledetto depresso che si droga vuol dire non aver colto appieno la sua grandezza. Essa risiede infatti (tra le altre mille qualità) nell’equilibrio delicatissimo dello spirito fragile del poeta tra la caduta nello SPLEEN (mal du siècle, mal de vivre, malinconia ecc ecc), cui ci spinge un corpo dominato dai sensi, e nella tensione verso l’IDEALE, luogo dell’etere, della bellezza universale, dell’Arte perfetta, della Natura quale tempio di tutte le cose, aspirazione massima del poeta (“Re dell’azzurro (…) principe delle nubi” – L’Albatros) che usa la sua arte per decifrarne i simboli, oscuri agli uomini comuni. Non è un caso che la sezione più importante della raccolta si chiami appunto “Spleen et Idéal”. Se molte poesie, anzi forse la maggior parte, è vero, sono cupe, grigie, malinconiche, è anche vero che la tensione verso l’alto, verso il cielo, la luce, l’amore ideale, la salvezza fa sovente capolino tra i versi, e, a seconda dello stato d’animo, può essere battuta

      – E lunghi trasporti funebri, senza tamburi né bande, sfilano lentamente nella mia anima; vinta, la Speranza piange; e l’atroce Angoscia, dispotica, pianta sul mio cranio chinato il suo nero vessillo
      (Spleen IV)

      o può vincere, ed illuminare tutto, come il Sole:

      Questo padre fecondo, nemico della clorosi,
      Sveglia nei campi i vermi e le rose;
      Fa svaporare gli affanni verso il cielo,
      E colma di miele cervelli e alveari.

      È lui che infonde giovinezza agli storpi
      E li rende allegri e dolci come ragazzine,
      Ordina alle messi di screscere e maturare
      Nel cuore immortale che vuol sempre fiorire!

      Quando, al pari di un poeta, scende sulle città,
      Nobilita il destino delle cose più vili,
      E si presenta come un re, senza pompa né valletti,
      In ogni ospedale e in ogni palazzo.
      (Il Sole)

      Anche l’amore. così come il viaggio, l’arte, la musica, la bellezza, i paradisi artificiali, può offrire effimero o duraturo riparo al cuore sofferente:

      Conosco l’arte di evocare gli istanti felici.

      Giuramenti, profumi, baci senza fine rinasceranno da un
      abisso interdetto alle nostre sonde così come risalgono al
      cielo i soli, rinvigoriti, dopo essersi lavati nel profondo
      dei mari. O giuramenti, profumi, baci senza fine!
      (Il Balcone)

      Tutta la sua arte è un meraviglioso funambolismo tra vita e morte, amore ideale e amore sensuale, speranza e disperazione, abissi e infinito, sensi e spirito, luce e tenebre. E’ la storia di ogni uomo, ma raccontata come nessuno mai più ha saputo fare.

      E Rimbaud?

      Rimbaud non è depresso. Rimbaud è l’irrequietezza fatta uomo. Vive l’amore, inclusa la relazione con Verlaine, come una delle tante esperienze della sua vita, tutta tesa alla conoscenza, a questo ALTRO da sé che ricerca affannosamente attraverso la “sregolatezza di tutti i sensi”, attraverso una poesia sempre più visionaria e simbolica, sempre più scarna fino a ridursi a vocali colorate, e poi silenzio. Un silenzio tanto più eloquente di tanta spazzatura letteraria di ogni epoca. Delusioni? sicuramente, ma più che da una o più donne, da tutte quelle esperienze che non appagano il suo “sangue cattivo”. Fugge da casa, da scuola, dalla religione, dalla poesia, da Verlaine, dalla Francia, dalla società, dalla morale, alla ricerca di qualcosa di ineffabile. Non sapremo mai se lo abbia trovato. Ciò che ha trovato è senz’altro l’immortalità, e un posto tra i più grandi poeti della modernità.

      • Bellissima analisi … Il mio punto di vista è diverso … Proverò con calma a risponderle degnamente… Per il momento grazie …
        G.C. Z.

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