• Assolutamente presente – racconto breve di Gian Carlo Zanon

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    Vi voglio raccontare la storia di un mattino; una bella mattina piovosa di fine autunno, ‘l’amico mio’ si era svegliato ‘ma-la-men-te’. Apparentemente aveva consumato la notte senza disturbi e non permanevano nella sua mente sogni che evocassero la morte. Chi meglio di me lo poteva sapere.

     

    Certo l’ultimo naufragio non lo aveva lasciato indenne e le profonde ferite non volevano sparire.

     

    Nel dormiveglia si erano presentati pensieri su una possibile malattia mortale e forse aveva pensato anche al suicidio. Ma erano onanismi mentali. L’alito della morte in realtà non lo sfiorava. Era lui che quel mattino si era svegliato storto e di solito bastava l’evidenza della mia realtà umana, che lui a volte avvertiva, per sgomberare quelle nubi fastidiose. Ma quella mattina aveva deciso di pensare alla morte, «intellettualmente» diceva a se stesso rabbonendo la vergogna per il proprio mal de vivre.

    Lo so anch’io che certi rapporti umani non lasciano illesi; lo so da sempre, ma non è il caso di farne sempre una tragedia, un po’ di indifferenza non ha mai ammazzato nessuno …nooo?

     

    E poi tutto quel rimuginare depressivo offuscava la fiducia illimitata che avevo in lui e mi impauriva: troppo spesso, in passato, per fuggire la depressione, mi aveva, se non completamente annichilita, relegata in stati d’essere banali e lucidamente razionali. Certo ora non ero più quella ragazzina senza spina dorsale di vent’anni fa, con lui avevo fatto molta strada … ma non si sa mai, era meglio stare in campana non volevo risvegliarmi in una casa abbandonata o dopo il culo che mi ero fatta per avere un’esistenza più che dignitosa, dover affondare di nuovo con lui nelle paludi della depressione.

     

     

     

    «Dicono – pensava – che quando si è prossimi a morire tutto il vissuto ti passa nella mente come un film o un treno dell’alta velocità che sfreccia su dei binari morti». A lui ora sarebbe bastato un accelerato, ne aveva di tempo per pensare a ‘ste cazzate.

     

    Gli era già accaduto di stare accanto alla morte, quella vera, non ‘ste fantasticherie. Due volte era accaduto nell’acqua, la prima da bambino, in un lago, aveva bevuto ed era andato sotto annaspando; la seconda in un maledetto cenote in Messico. Poi c’era stata quella volta in montagna: settecento metri di strapiombo innevato gli avevano fatto temere il non ritorno. Ma ogni volta aveva ritrovato la mia calma ed era riuscito a raccogliere le ultime forze per salvarsi: aveva nuotato sott’acqua per sfuggire alle onde, o nell’acqua gelata del cenote, in ipotermia, si era detto che solo acquietandosi sarebbe riuscito a superare i pochi metri che lo separavano dalla salvezza; o, quella volta sulla torre Stadler, uno strapiombo di roccia dipinto nel nulla: mandando a fan culo la morte, si era fatto gatto per superare quei maledetti quattro metri di roccia gelida alla quale stava abbracciato da ore.

     

     

    E si, lo sapeva che aveva tempo per incontrare la Vecchia Signora: l’incontrabile. E filosoficamente si ripeteva l’antico aforisma di Epicuro, quello che dice che non si deve aver paura della morte perché quando tu ci sei lei non c’è e quando lei c’è… ecc. ecc.. Eppure quella mattina, invece di svegliarsi trasformato in un insetto immondo, si svegliò stronzo pensando alla morte.

     

    Quella mattina, tra sonno e veglia, tentava di instupidirmi ma io non ero disponibile a vili compromessi. Avevo passato la notte ad improvvisare tirando fuori come per magia, da un canovaccio banale quanto reale, superbe immagini e mi sentivo addosso tutto il narcisismo dell’artista. Quindi, come dicevo, non ero disposta a vili compromessi. Che si crogiolasse pure nei suoi torbidi pensieri coscienti, io mi chiamavo fuori, mi dissociavo … beh non proprio, meglio non usarla quella parola. Comunque sarebbero andate le cose, Lui sentiva e ‘sapeva’ che sarei stata sempre assolutamente presente.

     

    Lui voleva la mano di un complice per crogiolarsi nell’idea della morte ma io col cazzo che gliela avrei data una mano.

    E anche se quei ‘pensieri’ li consideravo un abuso alla mia voglia di vivere non volevo ancora incazzarmi e farlo precipitare magari in quell’angoscia tanto di moda che ora chiamano  ‘attacco di panico’. Era meglio aspettare. E io aspettavo.

     

    Tanto sapevo che sarebbe bastato una sola nota di fisarmonica o una poesia o qualcosa del genere a cancellare di colpo quell’inutile masturbazione mentale. E si, a lui bastavano le note di una  fisarmonica perché aveva memoria della mano del padre che nella notte era diventata più calda al suono che veniva dalla festa nei campi. Pensava che forse quella notte il padre aveva pensato a un amore nascosto nelle pieghe degli anni, e lui, in quel momento, e solo in quel momento, si era sentito amato da un padre buono.

    Il suono della fisarmonica però ‘sta volta non c’era. Ah, se ci fosse la penicillina per curare i pensieri. Era meglio aspettare. E io aspettavo. Tirarlo per la giacca era inutile, tanto si rendeva conto della mia esistenza solo quando una femmina gli piaceva. Gli piaceva veramente.

     

     

    Certo non era un bel periodo anche dal punto di vista materiale. Da quando lo avevano gettato nella cassa integrazione, la morsa depressiva lo mordeva. Aveva fatto delle domande, curriculum e curriculum, ma con la crisi trovare qualcos’altro era un problema. Non era a rischio sopravvivenza tale da dover andare a mangiare al Sant’Egidio «da quei pederasti dei preti» diceva. Il mutuo della casa l’aveva finito di pagare da un pezzo, e l’altra casa, quella lasciata dai genitori, era diventata una buona rendita. Non erano le cose materiali a condizionare il suo umore. Non era mica un topo.

    Era che, in questa depressione aristocratica, ci si crogiolava. E questo lo potevo ben capire e anche condividere. Ma solo in parte. Lo so, glielo avevo indotto io questo narcisismo, ma non bisogna mica esagerare, nooo?

     

    Si, era diventato un aristocratico del cazzo e come me provava spesso un malcelato schifo per l’idiozia – soprattutto quella maschile – che gli faceva riconquistare l’amata solitudine. Nondimeno, come me,  bramava insaziabilmente la compagnia dei suoi simili. Così aveva imparato nel tempo a vivere gli altri a piccole dosi come fossero un farmaco pericoloso. Il sentimento della mia esistenza – lo aveva obbligato da tempo, dopo innumerevoli moti di disprezzo, a disertare i luoghi affollati dal nulla. Lui era l’esatto opposto del protagonista de L’uomo della folla di Poe che prende vita dal turbinio dalle strade affollate, non importa da chi. Lui no; Lui, ormai da tempo non subiva più la seduzione della civiltà. Civiltà, parola che veniva da Lui sempre sussurrata sillabandola come a rimarcare i propri dubbi sui suoi contenuti etici: «ci-vil-tà – diceva – si va beh, ci-vil-tà!».

     

     

    Eppure non si era mai stancato della varia umanità che osservava famelico come un gatto alla vista dei volatili. E tutto, o quasi, era affascinante finché gli altri rimanevano sconosciuti, e fintanto che si poteva divertire ad immaginarli osservando attentamente i loro vestiti, la vitalità dei corpi, gli sguardi, i rossetti, i tatuaggi, persino le unghie, e, da qualche anno ormai, ascoltando anche le loro conversazione telefoniche divenute pubbliche. Li osservava al bar, in libreria, sulla metropolitana. Anche quando la loro fisionomia silente raccontava di città e territori a lui sconosciuti insisteva e immaginava la loro vita … e guai se qualcuno lo tradiva disturbando il suo fantastichio … quando succedeva disertava quell’umanità tornata ad essere sconosciuta … solo per qualche minuto. Poi non appena una preda si affacciava al suo sguardo ricominciava a costruire per lei un altro fato.

     

    Quella mattina si era guardato persino allo specchio per controllare la sua faccia: e ammirò soddisfatto quella poche rughe che egli chiamò con orgoglio veemente «Le profonde crepe che annunciano il crollo» e poi l’iride che quel mattino definì «opacissima». Anche le borse sotto gli occhi, simboli della propria sigla araldica del ‘marchesato de Depression’,lo avevano abbastanza soddisfatto. Quel mattino l’amica Saudade, gran nobildonna che un tempo gli presentai, era stata scelta come accompagnatrice del giorno.

     

    In quel tempo soffriva di alcune idiosincrasie: ad esempio udendo parole svuotate di senso taceva, non rispondeva all’interlocutore; alcuni colleghi avevano pensato che fosse un po’ sordo, altri che non ci stava con la capoccia. Lui se ne fregava e si allontanava frettolosamente come se si fosse ricordato improvvisamente di un impegno improrogabile. Ormai aveva capito che doveva stare lontano dalle frasi quando queste divenivano un indissolubile nido di serpi. Era finito quel tempo in cui era convinto che per accedere alla sapienza dei maître à penser servissero astratte parole d’ordine. Nondimeno era pronto a rimanere estasiato di fronte ad una parola … che poi veniva quasi subito dimenticata per un’altra che lo conquistava.

     

     

     

    Dopo l’esame specchio – tutto sommato era un fottuto narcisista – si mise la giacca ed uscì di casa. Io lo vedevo come, penso, una sarta vede passare un signore ben vestito, o un tifoso ‘vede’ il suo idolo in campo. Si lo ‘percepivo’ come qualcosa che appartiene per diritto di nascita, come l’amante vede l’amante. Non per questo mi sentivo a lui identificata: lui era lui, io ero io. Qualche imbecille con manie psicoanalitiche diceva che ero l’Es. Ma io non me ne curavo e ribellandomi ad un infausto destino coltivavo la mia assoluta … quasi assoluta asimmetria. Potrebbe sembrare un controsenso ma anche se vivevamo in una sorta di universi collaterali non era vero che vivevamo due esistenze separate. Discorso un po’ complicato, vero? Come dire, è che a volte non eravamo coscientemente presenti l’uno all’altra. È normale. Si potrebbe comunque dire che stavamo spesso insieme … spessissimo.

     

    Quel giorno ad esempio mi sarei allontanata da lui ben volentieri. Quando si metteva gli abiti della malinconia, la mia esistenza si ritraeva impoverendosi e, anche se sempre reagivo a queste dimensioni depressive, la vitalità veniva fiaccata nello sforzo per difendere la mia … indefinita essenza.

     

    E Lui, che palle, quel mattino aveva deciso di fermare il movimento del pensiero per ricordare quell’amore, l’ultimo, quello del naufragio, che gli diceva “senza di te non posso vivere” e quell’altro amore che diceva “preferisco pensarti morto che separato da me” o quell’altro ancora che diceva “tu non esisti, sei come un sogno che mi viene ad incontrare nella notte. Così dev’essere, devi rimanere un sogno”. E si chiedeva cos’era poi st’amore e si chiedeva se qualche volta, spaventandosi, lo aveva confuso con qualcos’altro. Ma erano solo ricordi ruminati all’infinito che fermavano il tempo. Il mio tempo.

     

     

     

    Quel mattino uscì dal portone di casa un po’più curvo del solito, noblesse oblige per recarsi nella libreria di Mario. Aveva deciso di vedere il suo amico libraio di libri usati «Vieni da me se ti annoi – gli aveva detto Mario quando aveva saputo della cassa integrazione – qui c’è sempre da fare qualcosa, e se vuoi ti metti da una parte a leggere, magari puoi scrivere qualche breve scheda che aiuta alla scelta dei libri e se vendo un po’ di più do qualcosa anche a te … in nero naturalmente.» A Lui piacevano i libri e c’era andato spesso da Mario ad annusarli e ad udire le pagine dei vecchi tomi scricchiolare a causa degli anni polverosi che avevano inaridito la carta. Nelle vie percorse che conducevano alla libreria si scoprì ad odorare la vita o meglio i profumi ancora freschi miscelati a odor di femmina mattutina.

     

    Anche se Lui continuava in un estenuante hesitation a bamboleggiarsi per rappresentare la figura dell’uomo distrutto dalla femme fatale che deve pagare un tributo a una qualche divinità … sapevo bene che in realtà si rifiutava di disimparare l’odore della femmina, o di dubitare del suo sentire … pardon, del mio sentire.

     

    Per Lui le donne erano delle vere e proprie mutanti. Lo affascinava la naturale irrazionalità con cui contaminavano il suo mondo e non aspettava altro di consentire a una di loro di divenire padrona del suo pensiero. Agognava, senza mai confessarselo, una metamorfosi ‘genetica’ del pensiero che lo portasse a condividere quelle che lui chiamava “le mie impossibili esigenze”. E in quella splendida piovosa mattina di fine novembre, senza che lui se ne rendesse conto, i suoi sentimenti superstiti alle ultime mareggiate lo spingevano verso altri occhi e il pensiero della morte ritornava al di là dello Stige, che aveva dato l’invulnerabilità a quel fanatico di Achille, per rivedere lo spirito della luce.

     

    Per strada un profumo lo tradì perché la voce che usciva da quella pelle profumata era metallica e lo feriva … odiava il suono metallico delle voci, lo riconosceva e lo fuggiva anche quando questo si incatenava a un bel volto di donna … divenuta … così sterile … «Ma poi le passerà, – pensò – succede, poi passa. A volte passa.»

     

    Wow, stava migliorando, stava uscendo dal torpore … ero restata per mesi silente lasciandogli vivere la sua ennesima bonaccia sentimentale, ma era ora di armare le vele per un altro viaggio. E sì, era proprio tempo di scompigliargli i pensieri. Comunque sarebbero andato il viaggio Lui sapeva che sarei stata come sempre assolutamente presente.

     

    “Torno subito” c’era scritto sul piccolo post it  giallo appiccicato alla porta a vetri del negozio. Si avviò verso il bar sapeva che avrebbe trovato Mario intento a far le fusa con Ninetta quella che «come fa lei il cappuccino come non lo fa nessuno». Infatti stava lì con gli occhi da pesce lesso a far finta di sorseggiare un cappuccino finito da tempo e a taliare la ragazza. Accanto a Mario c’era un tizio che mimava, con manierismo esasperato, impeccabilmente i gesti del vivere femminile. Mah.

     

    Mentre riapriva il negozio Mario dopo un profondo sospiro proruppe con un «A Vincè, che te devo dì, a me Ninetta me fa sangue … e nu me guardà co sti occhi, e quanno succede a te? Mbeh, te ricordi o nun te ricordi? Beh se nun te ricordi te me te ricordo io quann’eri ‘nammorato frascico!».

     

    «Si ma te mica sei innamorato, te la vorresti solo fare …».

     

    «Ma che cazzo ne sai te, a saputone! Che te sei messo a fa er pisicologo? magari me voglio pure sposà. Vabbeh».

     

    «Ma se ha è già sposata e c’ha pure due figli!».

     

    «Mbeh! Perché nun ce sta er divorzio?».

     

    Andarono avanti così per un po’; forse erano discorsi inutili ma inaspettatamente le cose inanimate iniziarono a riempirsi di vita, anche le parole che trovava sui libri  avevano preso vita; come la parola destino dal suono tanto odiato che ora assumeva un altro senso. Ero io il suo unico destino, scritto nell’acqua di mare. Lui lo aveva sempre negato ma non quella mattina che conteneva in sé i semi di un’oscura avventura.

     

     

     

    “L’oscura avventura” entrò nel negozio «molto seria, aria da studiosa, non porta la fede né anelli e anellini…» aveva già iniziato a scannerizzarla quando “L’oscura avventura” gli chiese di un libro che aveva preso da uno scaffale, se lo conosceva … se lo conosceva? Certo che conosceva Odile di Raymond Queneau e le parlò del romanzo che conosceva bene, e che aveva amato e le citò un colloquio che il protagonista ha con Odile «…sapete cosa ho scoperto?» «Che cosa?» «Che la gente non dice nulla» «Oh, parlerà pure di qualche cosa, la gente!» «No, vi assicuro» e Lei disse che era d’accordo e che la gente parla senza dire nulla e lui pensò che era anche molto carina, forse un po’ troppo giovane ma carina … e io dopo mesi di invisibilità entrai in lei e per volere dei suoi occhi mi rivide senza riconoscermi. Anche lui, dopo qualche giorno entrò, wow,  in lei, e in me … ma questa è un’altra storia.

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    • bello giancà!!

    • Incommentabile. Bello. Modo interessante di scrivere. Si pensa ma è così che viene da scrivere anche a me, come un pensare a voce alta , in realtà uno scrivere in silenzio.

      • Ma sai che c’hai ragione. Quando riesco a scrivere pensando di parlare diviene tutto più leggero … e magari più vero.

        Grazie Claudio

        Gian Carlo

    • La curiosità non mi ha dato tempo e così ho letto direttamente dal tuo blog.. Ma non rinuncio al piacere di stampare..e rileggere in un altro modo, quello che preferisco. E poi sottolineare quelle parti che appartengono anche a chi legge. Passaggi che stupiscono particolarmente….e dici a te stessa, ecco, ha saputo dire quello che sento anch’io e mi riguarda. Una bella scrittura, Gian Carlo, immediata, a tratti piacevolmente irriverente. E ancora, il quotidiano che si accompagna a pennellate di poesia, quasi furtiva, ma assolutamente evidenti.
      La prima che andrò a rileggere e sottolineare:
      ” a lui bastava il suono della fisarmonica perché aveva memoria della mano del padre che nella notte era diventata più calda al suono che veniva dalla festa nei campi. Pensava che forse quella notte il padre aveva pensato a un amore nascosto nelle pieghe degli anni, e lui, in quel momento, e solo in quel momento, si era sentito amato da un padre buono ”

      Grazie..e mi raccomando facci sapere che succede poi..

      Rosa

      • Il linguaggio irrazionale è universale perché appartiene a tutti; a tutti coloro che non si sono persi nei rumori del mondo … comunque grazie Rosa, grazie per aver guardato dentro le mie parole

        Gian Carlo

    • Grazie Mario…io sono Rosa :))))))))))

      http://www.youtube.com/watch?v=h_GNH5D3wCQ

    • besos a te! così ci abbiamo anche messo un bel sorriso :)))

      Rosa

    • Hello. And Bye.

    • Ho letto questo racconto a voce alta (nella mia vita mi hanno sempre rimproverato di pensare “a voce alta”), ma stavolta se ho letto (e, non ho invece pensato “a voce alta”, lo stò facendo qui ed ora; spero tanto che non sia “labirintite”)…. dicevo: …se ho letto questo racconto a voce alta è stato per una nobilissima causa, cioè, ha avuto l’effetto di far addormentare la mia compagna di vita e di arricchire il mio livello culturale. Saluti.

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