• Amleto e la verità svelata dalla rappresentazione

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      C’è del marcio: c’è per caso un Amleto?

    ovvero: È sulla scena che (anche nei piccoli comuni) si può mettere a nudo la coscienza dei re

    di Luigi Scialanca

    (con tre esempi di soggetti che sulla pubblica piazza di un piccolo comune potrebbero essere rappresentati, se lo si facesse con adeguata passione, in modo da risultare sconvolgenti per alcuni e indimenticabili per tutti)

     

    A torto o a ragione, Amleto dubita che suo padre, re di Danimarca, sia stato ucciso dal fratello Claudio, zio di Amleto; e che sua madre Gertrude, vedova dell’assassinato, abbia sposato Claudio dopo poche settimane di lutto perché da tempo sua amante nonché sua complice nell’orribile delitto.

     

    Non ne ha la certezza. È vero che gliel’ha detto lo spettro del padre in persona, ma – dubita Amleto dubitando anche di sé – “lo spirito che ho veduto, può essere un diavolo, e il diavolo ha il potere di prendere una forma piacente, sì, e forse a causa della mia debolezza e della mia malinconia, poiché è su tali spiriti che egli ha più influenza, m’inganna per dannarmi”.[1]

     

    Come dimostrare – a sé stesso, almeno – la colpevolezza di Claudio? Del delitto (se delitto è stato) non vi sono testimoni. Né si può contare – nel buio Medio Evo danese, o nella Londra elisabettiana – su impronte digitali, intercettazioni telefoniche e analisi del dna. L’unica sarebbe che il fratricida e usurpatore crollasse sotto il peso della colpevolezza e si smascherasse da sé. Ma come ottenerlo?

     

    Dicono che l’Amleto – rappresentato per la prima volta a Londra nel 1600 o nel 1601, quando Shakespeare aveva 36 o 37 anni – sia il dramma “dell’indecisione”. Dell’incapacità di Amleto di agire: di vendicare il padre, cioè – come lo spettro gli ha chiesto – e di ripulire la Danimarca dal “marcio” in cui sta rapidamente imputridendo. Lo pensa e se lo rimprovera Amleto stesso! E dopo di lui lo hanno pensato e gliel’hanno rimproverato quasi tutti per più di quattro secoli.

     

    Sarà così. Ma non tra la fine del secondo atto e la metà del terzo, quando Amleto decide in un batter d’occhi – senza indugi, senza incertezze – non solo che la colpevolezza dello zio, per poter agire contro di lui, dev’essere dimostrata, ma anche con quali mezzi si possa – senza perder tempo – dimostrarla.

     

    Accade quando entrano Rosencranz e Guildenstern. I quali, dopo uno scambio di convenevoli e qualche tentativo di Amleto di sondarne le intenzioni, annunciano al principe l’arrivo a palazzo di una compagnia di attori. La decisione di Amleto è immediata: “Quello che fa la parte del re sarà il benvenuto”[2]. Segno che il piano che fra poco metterà in atto sta già prendendo forma nella sua mente.

     

    Un istante dopo, gli attori arrivano. Sùbito, Amleto ne mette alla prova la bravura: se fossero dei “cani”, infatti, come potrebbero sconvolgere Claudio fino a indurlo a tradirsi? Ma anzi: son così bravi, che l’esame a cui li sottopone mette in difficoltà più lui che loro: “Oh, quale ribaldo e vile servo son io! Non è mostruoso che questo commediante, in una pura finzione, in una passione solo sognata, possa forzare la sua anima ad aderire alla sua fantasia, così che sotto l’operare di essa tutto il suo volto impallidisce, gli occhi gli s’inondano di lacrime, la faccia viene stravolta, la voce rotta, e tutta la sua azione si conforma all’idea; e tutto questo per niente! Per Ecuba! Che cos’è Ecuba per lui, o lui per Ecuba, perché egli debba piangere per lei? Come si comporterebbe se avesse il motivo e lo stimolo alla passione che ho io?[3]

     

    Eppure Amleto sta agendo. La comparsa degli attori gli ha suggerito di servirsene per ottenere la prova che cerca, e immediatamente all’idea è seguita l’azione: “Ho sentito dire che gli uomini in colpa, assistendo a una rappresentazione, sono stati colpiti [naturalmente se gli attori riescono a “colpirli”, ma di ciò Amleto si è appena accertato, n.d.r.] dall’inganno della scena fin nel profondo dell’anima, tanto da gridare sùbito i loro misfatti; perché l’assassinio, se anche non ha lingua, può parlare con un organo miracolosissimo [For murder, though it have no tongue, will speak With most miraculous organ]. Da questi attori farò recitare qualcosa che assomigli all’assassinio di mio padre, davanti a mio zio, e io osserverò le mosse del suo viso, lo sonderò nel profondo e, se egli avrà un sussulto, saprò come dovrò agire. […] Voglio agire su prove più sicure di quelle che ho sinora: la scena è quello che ci vuole per mettere a nudo la coscienza del re [the play’s the thing Wherein I’ll catch the conscience of the king]”.[4]

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    C’è una teoria del teatro molto poco “amletica”, nella così poco scientifica teoria “criminologica” di Amleto: che il teatro – se recitato con passione – possa cambiare il mondo sull’istante [presently]!

     

    Un’idea illusoria? Peggio: consolatoria? Può darsi. Ma estremamente decisa, in compenso, su come si debba fare teatro. Il teatro può, dice Amleto, e guai se non lo fa: “Scopo del teatro è, ora come sempre, [both at the first and now, was and is: com’è poco “indecisa”, questa indicazione di tempo!] quello di reggere, si potrebbe dire, lo specchio alla natura [to hold, as ’twere, the mirror up to nature], per mostrare alla virtù il suo volto, alla follia la sua immagine, e a questo nostro tempo e società la sua forma e impronta [to show virtue her own feature, scorn her own image, and the very age and body of the time his form and pressure]”.[5]

     

    Su tante altre cose, Amleto avrà anche le idee confuse, non dico di no. Ma non sul teatro. Si può non essere d’accordo con lui, naturalmente, ma non lo si può accusare di non sapere che cosa ne pensi.

     

    Claudio, il fratricida e usurpatore, ha del teatro tutt’altra idea. Quando Polonio e Rosencrantz gli annunciano che Amleto “ha dato ordine di dare spettacolo davanti a lui” quella sera stessa, il re non nasconde la propria soddisfazione: “È motivo di grande gioia per me apprendere che egli ha simile inclinazione. Buoni signori, aguzzate ancor più questo suo desiderio e indirizzate l’animo suo a questi piaceri [drive his purpose on to these delights]”.[6]

     

    Mentre per Amleto il teatro svela la verità e costringe a vederla e a riconoscerla anche chi meno vorrebbe farlo – per Claudio, al contrario, il teatro distrae dalla ricerca della verità, fa dimenticare che essa esiste, “consola” per la sua perdita e ne “cura” il tormentoso desiderio. Come se il desiderio di verità fosse una malattia mentale da cui si deve, con l’aiuto del piacere che il teatro suscita, cercar di guarire.

     

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    Quante volte si fa teatro proprio come lo vuole Claudio, in Danimarca, in tutto il mondo, e giù giù fin nelle pubbliche piazze assonnatamente estive di tanti piccoli o minuscoli comuni italiani!

     

    Ma non questa volta. Questa volta, Claudio sarà profondamente deluso dagli attori che, per essere stati da lui tollerati e ospitati e pasciuti e pagati, non per questo si considerano suoi servi:

     

    Ofelia : Il re si alza!

     

    Amleto : Come? Spaventato da un colpo a salve?

     

    […]

     

    Re : Datemi una luce! Via!

     

    Polonio : Luce, luce, luce! (Escono tutti fuorché Amleto e Orazio)”.[7]

     

    Aveva detto, poco prima, il re: “Conoscete l’argomento? Non c’è nulla che offenda?”[8]. Ché il disumano non soffre perché è disumano – se soffrisse per questo, sarebbe ancora umano – ma perché viene pubblicamente smascherato come tale. Per il disumano, essere smascherato non è un’occasione di curarsi, di ritrovare la propria umanità: è un’offesa.

     

    Domande: ci sarà ancora qualcuno oggi, in Italia, sulle pubbliche piazze di migliaia di piccoli comuni, che fa teatro come lo intende Amleto nell’Amleto di Shakespeare? O lo faranno tutti come l’intende, lo vuole e lo pretende Claudio fratricida e usurpatore?

     

    Mi spiego meglio. Se dai l’Amleto all’Argentina, a Roma (ma neanche questo mi pare che accada spesso) è possibile che “Claudio” – ovunque si trovi: al Quirinale, in Vaticano, alla Banca centrale europea, alla Goldman Sachs, o magari al Bilderberg – domandi più o meno ansiosamente: “Conoscete l’argomento? [Allude per caso a me?] Non c’è nulla che [mi] offenda?”…

     

    Lo so, sono troppo ottimista: è difficile credere che quando il primo attore, istruito da Amleto, “versa il veleno nell’orecchio del re addormentato”, qualcuno nel palco reale – oggi presidenziale – sussulti e impallidisca al pensiero – che so io? – di come indusse il Parlamento a eludere la volontà popolare chiaramente espressa dal voto del 28 febbraio 2013. Tuttavia non è impossibile.

     

    Ma se dai l’Amleto in piazza in un piccolo comune (ad Anticoli Corrado, per esempio, nella “suggestiva cornice” di piazza di Santa Vittoria) chi mai ne resterà “colpito” e “sconvolto”? Chi chiederà “Luce!” per sé affinché cali il buio su tutti gli altri? Il Padron de’ padroni del luogo? Il sindaco? Il parroco? Il comandante dei carabinieri? Il preside della locale scuola elementare e media? Nessuno farà una piega.

     

    Dai l’Amleto ad Anticoli Corrado, sia pure con Laurence Olivier redivivo, e sarà come se Amleto, in Elsinore, mettesse in scena Cappuccetto Rosso e il lupo: Claudio (a meno che non sia anche pedofilo, oltre che fratricida e usurpatore) continuerà a dormire sonni tranquilli.

     

    Si obietterà, forse, che le compagnie locali vorrebbero coraggiosamente attaccare i colpevoli altrettanto locali di questo o quel crimine o nefandezza. Vorrebbero, le compagnie locali (anziché sbeffeggiare senza rischio potenti remotissimi, come un Berlusconi o un Letta o un Napolitano, che di essere “smascherati” in una delle mille piazzette d’Italia non s’accorgono più di quanto s’accorga un leone di una pulce in lontananza) attaccare eroicamente i potenti vicini, seduti lì davanti a loro, magari in prima fila. Ma non possono, povere compagnie locali, poiché nessuno scrive per loro, come fece Amleto per i suoi bravi attori, qualcosa di così puntuto da perforare le durissime cotiche degli scellerati di paese.

     

    Detto fatto, ecco tre soggetti di mia invenzione che mi paiono atti a far gridare “Luce!” a non pochi “insospettabili” marpioni locali in molte parti d’Italia. Sono pronto, su richiesta, a trarne in breve tempo sceneggiature complete, con finali tragici o lieti a seconda delle preferenze del committente.

     

    E se qualche signora o signore li giudicasse insopportabilmente “penetranti”, si abbia fin d’ora la risposta di Amleto a Ofelia: “Troppo pungente, signora? Vi costerebbe un gemito smussarmi la punta”.

     

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    1. Lo schiavista. – 2. La lega dei picchiatori di mogli. – 3. Gli avvelenatori di bambini.

     

    Lo schiavista

     

    In un piccolo comune, un uomo diventa così potente che quasi tutti lavorano per lui. E chi ancora non lo fa lo spera, per sé o per i figli. L’uomo, scellerato, ne approfitta per imporre la sua volontà: si mette in testa che la piazza del paese, bellissima e da tutti amata, debba essere distrutta per erigervi un orribile monumento al suo bisnonno (fondatore della famiglia e ancor più scellerato di lui) e ingiunge a tutti i dipendenti di votare a favore del progetto, o farà in modo che non lavorino mai più né per lui né per altri. Uno solo ha il coraggio e l’umana dignità di resistergli, e il potente lo riduce alla fame, senza casa, e costretto all’elemosina per sopravvivere, con tutta la famiglia, in un pollaio in mezzo alle galline. E ogni sera il riccone va a trovarlo, e ogni volta la sua vittima si umilia e in ginocchio gli chiede perdono, ma invano. Finché, una sera, il figlio maggiore del poveretto, cogliendo un’orribile occhiata del padrone alla sorella non ancora adolescente, caccia di tasca un coltello e si avventa su di lui…

     

    La lega dei picchiatori di mogli

     

    In un piccolo comune, trenta capifamiglia uniti in una turpe lega picchiano ogni sera le mogli come facevano i padri, i nonni e i bisnonni prima di loro: per mantenersi sempre così cattivi, così disumani, che tutti in paese ne abbiano istintivamente paura – pur senza conoscerne l’orrendo segreto – e non osino né oggi né mai ribellarsi ai loro ordini. Capo della lega, e picchiatore più d’ogni altro, è il padrone di tutti i pozzi del paese, da lui avvelenati ogni notte, dopo aver picchiato la moglie, con una sostanza che inebetisce l’intera popolazione impedendole di reagire. Le povere donne, rintronate dal veleno e dalle botte, subiscono mordendosi le labbra per impedirsi di gridare, i mariti le colpiscono badando solo a non lasciare segni, e i figli maschi imparano a far come loro e cominciano già ad imitarli picchiando le sorelle e terrorizzando i compagni più piccoli. Finché una notte la moglie del capo, approfittando del duro sonno senza sogni del marito ubriaco di potere e d’odio, avvelena con l’arsenico il pozzo della lega…

     

    Gli avvelenatori di bambini

     

    In un piccolo comune un falso medico e uno stregone, in combutta con certe madri pazze che non sopportano e detestano i figli, li avvelenano giorno per giorno somministrando loro psicofarmaci potentissimi. Che li tramutano in passive marionette ma, al tempo stesso, a poco a poco mostruosamente accumulano odio e violenza nelle loro giovani menti, condannandoli a un futuro spaventoso. Il malvagio stregone si procura così un docile gregge infantile per i suoi riti superstiziosi e le sue turpi voglie, mentre il falso medico si procaccia in paese un occulto “prestigio” di esperto manipolatore mentale a cui tutti s’inchinano e credono come a un oracolo, e di qui un potere perfino superiore a quello dello stregone. Finché una giovane maestra, insospettita dal comportamento di molti alunni, segretamente indaga, scopre la verità e una gelida sera d’inverno s’incammina verso il comando dei carabinieri per denunciare i criminali. Non sapendo, povera, che i due turpi individui l’attendono dietro un angolo buio armati di coltelli…

     


     

    [1] William Shakespeare, Amleto, traduzione di A. Meo, Garzanti, Milano, 1974, atto secondo, scena seconda, p. 47.

     

    [2] Amleto, atto secondo, scena seconda, p. 39.

     

    [3] Ibidem, p. 46.

     

    [4] Ibidem, p. 47.

     

    [5] Amleto, atto terzo, scena seconda, p. 53. Si noti: non “reggere lo specchio alla natura” e basta, tanto per farlo e per far vedere quanto si è bravi a rispecchiarla; ma per “mostrare alla virtù il suo volto, alla follia la sua immagine, e a questo nostro tempo e società la sua forma e impronta”. E accada poi quel che può.

     

    [6] Amleto, atto terzo, scena prima, p. 48.

     

    [7] Amleto, atto terzo, scena seconda, p. 61. Si noti: un’intera Corte abbandonda la scena in pochi attimi alla luce delle torce. E s’immagini il tumulto. Suscitato dalla rappresentazione – appassionata – della verità.

     

    [8] Amleto, atto terzo, scena seconda, p. 60.

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