• Ma allora è vero che Freud è un imbecille !!!

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    di Gian Carlo Zanon

     

    Negli ultimi anni l’immagine di Sigmund Freud ha subito un notevole ridimensionamento verso il basso. Anche se in Italia i media finora hanno tenuto sotto controllo le notizie della crisi della psicanalisi puntellando la diga del freudismo, che ormai fa acqua da tutte le parti,  la talking cure tanto celebrata del medico viennese, sta inesorabilmente scomparendo dalla faccia della terra. Leggendo questo articolo Psicoanalisi: aspetti di una crisi annunciata di Maria Tereza Mantovanini potrete rendervi conto dell’implosione che la psicanalisi ha subito in questi ultimi anni. Leggi QUI

    Certamente i più accorti, o forse sarebbe meglio dire i più intellettualmente onesti, si erano accorti da anni della caduta di quel castello di carte che gli epigoni avevano costruito attorno al totem di Freud. E non è stato certamente il libro di gossip di Michel Onfray, Crépuscule d’une idole a far franare definitivamente la cosiddetta “teoria freudiana” e forse neppure il buon lavoro fatto da un nutrito stuolo di psichiatri francesi pubblicato in Italia nel 2006: Il libro nero della psicanalisi.

    A minare le pseudo fondamenta freudiane, come aveva già fatto notare, in una intervista rilasciata nelle nostre pagine, la psichiatra Francesca Padrevecchi, ci aveva già pensato, più di quarant’anni fa uno psichiatra italiano:

    «Intanto – rispondeva la psichiatra nell’intervista – va subito precisato che “ad onor del vero”, più che riferirsi ad Onfray bisogna tenere a mente che dagli anni ‘60 una critica serrata al pensiero freudiano è stata condotta in Italia dal prof. Massimo Fagioli che, nel noto libro “Istinto di morte e conoscenza” e nei suoi numerosi altri scritti, oltre a smascherare le bugie sulla realtà umana che si leggevano nei libri di Freud, e su cui si basa la cultura occidentale, ha proposto un pensiero nuovo sulla realtà dell’uomo.»

    Ora la chiesa freudiana, che ormai in America è percepita più o meno come una associazione truffaldina. Tant’è vero che già nel 1989  la Corte Federale di New York aveva condannato varie istituzioni psicoanalitiche a pagare le spese processuali (650.000 dollari) perché,secondo la sentenza, alcuni psicologi avevano facilmente dimostrato che il vero motivo per cui la pratica della psicoanalisi rimaneva privilegio di pochi adepti non era affatto “scientifico” o “terapeutico” ma, al contrario, puramente economico: c’era un vero e proprio piano per cercare di limitare la diffusione della psicoanalisi nel paese, impedendone la pratica da parte di molti validi terapeuti e senza alcun riguardo per i bisogni dei cittadini, al solo scopo di mantenere alti i prezzi.

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    Ma allora la psicanalisi era ancora richiesta mentre ora sta subendo un inesorabile declino. E non è neppure un fatto puramente economico. In Norvegia, scrive nell’articolo citato la Mantovanini: «sebbene le sedute fossero rimborsate integralmente dalle assicurazioni sulla salute e indipendentemente dalla loro frequenza, pochi pazienti hanno accettato di presentarsi quattro o cinque volte a settimana».

    L’ultima spallata al freudismo l’ha data proprio Nino Ferro, il nuovo presidente della Società psicoanalitica italiana, il quale per salvare ciò che resta di questa di questa armata Brancaleone ha deciso di voltare pagina. In articolo di Luciana Sica, pubblicato da La Repubblica  il 18 dicembre 2012,  l’analista un po’ istrionicamente e con il chiaro intento di rigirare come un pedalino l’istituzione dogmatica freudiana strilla: «Basta con i dogmi: è ora di aprirsi all’esterno, di dialogare con gli altri» – «La psicoanalisi italiana non può fermarsi a Freud servono idee diverse altrimenti diventa un culto». Poi Ferro sollecitato dalla Sica, pur cercando di essere il più possibile pacato nelle sua affermazioni, fa capire che quella freudiana «era una psicoanalisi isolata con una sua riconoscibilità esclusivamente interna, altrove non sapevano neppure che esistesse… »  e che ha bisogno soprattutto di «pluralismo» vale a dire che il monoteismo psicanalitico viene a cadere in favore di una apertura ad altre discipline per uscire così «da un isolamento antistorico».

    Non so se Ferro si renda conto di ciò che sta affermando. È come se il papa domenica sporgendosi dal davanzale di piazza San Pietro dicesse: «Scusate abbiamo scherzato dicendo che il dio giudaico cristiano è uno e assoluto. In effetti vi sono altre religioni provenienti dall’America, ad esempio quella del dio Manitù; vi posso assicurare che è altrettanto valida e potrebbe portare idee rigeneranti  al nostro credo che è stato per troppo tempo (tremila anni) chiuso in se stesso. »E poi parafrasando Nino Ferro, e cambiando solo pochissime parole, continuasse dicendo «Come papa di tutti, garantirò che ogni modello religioso riconosciuto sia considerato legittimo e con pari dignità. Nessun credo sarà minoritario, ma nessuno – in nome dell’ortodossia cattolica – potrà più permettersi di scagliare anatemi del tipo “questa non è la vera parola di dio”».

     

    Assurdo ed esilerante non trovate?

    Ora però la domanda che sorge spontanea è: ma gli psicologi e gli psichiatri che hanno fatto la cosiddetta “formazione psicoanalitica” basandosi sulla cosiddetta “teoria freudiana” del cosiddetto “scopritore dell’inconscio”, ora che faranno? Continueranno a truffare i clienti convinti a torto o a ragione che li si stia curando con la terapia freudiana o dovranno rifare tutto il percorso formativo? E il ritratto del vegliardo viennese con tanto di sigaro dove lo metteranno? Nella spazzatura?

    Questo articolo di Luciana Sica citato e quello seguente, sempre della Sica, del 7 gennaio dove vi è un’accanita polemica tra coloro che vogliono mantenere l’ortodossia freudiana e quelli che invece la ritengono, bene che vada, obsoleta, li potete leggere qui di seguito.

    I nostri articoli sull’argomento li potete trovare QUI e QUI

    10 gennaio 2013

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    Repubblica 18 dicembre 2012

    L’istituzione analitica volta pagina con la presidenza di Nino Ferro

    “Basta con i dogmi: è ora di aprirsi all’esterno, di dialogare con gli altri”


    Una nuova anima


    “La psicoanalisi italiana non può fermarsi a Freud servono idee diverse altrimenti diventa un culto”


    di Luciana Sica

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    “L’epoca d’oro della psicoanalisi italiana è ormai alle spalle? Ma che idea assolutamente demenziale. Quella lì era una psicoanalisi isolata, con una sua riconoscibilità esclusivamente interna, altrove non sapevano neppure che esistesse… Una ventina d’anni fa avrei voluto che il mio primo libro uscisse anche in inglese, ma fu rifiutato sempre con lo stesso argomento: bel lavoro il suo, peccato sia scritto da un italiano, non lo comprerebbe nessuno… Tanto che dissi: allora firmatelo Iron!».

    Iron come Ferro. Come Nino Ferro, il nuovo presidente della Società psicoanalitica italiana, sessantacinque anni, palermitano trapiantato a Pavia, autore di libri tradotti in più di dieci lingue (un suo nuovo saggio su Le viscere della mente uscirà il prossimo anno da Cortina). È un analista conosciuto ovunque: l’americano Thomas Ogden – tra le teste più brillanti della psicoanalisi mondiale – avrà anche esagerato, ma è lui a considerare Nino Ferro «il migliore teorico e clinico psicoanalitico che attualmente scrive». Il neopresidente, più incline all’understatement, sembra però determinato a far voltare pagina alla psicoanalisi di casa nostra. Con due parole chiave – “pluralismo” e “internazionalizzazione” – e la consapevolezza che potrà giocare di sponda con Stefano Bolognini, alla guida dell’International Psychoanalytical Association, primo italiano al vertice dell’istituzione fondata da Freud nel 1910.

    Lei vuole “sprovincializzare” la Società psicoanalitica italiana… Non sarà un’impresa facilissima, perché si direbbe un’organizzazione chiusa, che pretende di accreditarsi da sola, un po’ compiaciuta di sé. Come pensa di renderla più aperta, più dialogante? «Alcuni segnali di cambiamento sono importanti da subito per uscire da un isolamento antistorico che a volte ci fa ancora ragionare in termini localistici. Come presidente di tutti, garantirò che ogni modello riconosciuto sia considerato legittimo e con pari dignità. Nessun pensiero sarà minoritario, ma nessuno – in nome dell’ortodossia freudiana – potrà più permettersi di scagliare anatemi del tipo “questa non è psicoanalisi”». Da chi vengono le scomuniche e a chi sono dirette?

    «Vengono da chi ama marcare a ogni riga e a ogni frase il senso dell’appartenenza, senza sentire il bisogno di una qualche originalità. In genere gli anatemi vengono scaraventati contro gli “altri”, quelli che si preferisce non studiare ma demonizzare».

    Fa almeno un esempio del cambiamento che ha in mente? «Mettiamo la nostra Rivista di psicoanalisi, diretta da Giuseppe Civitarese. Andrà aperta a maggiori contatti e scambi internazionali, compresa la psicoanalisi americana che potremo anche criticare, ma a patto di conoscerla bene, senza i soliti arroccamenti sul già noto».

    Cosa dicono o fanno di così scabroso gli analisti americani? «Si mettono in gioco nel rapporto analitico senza escludere neppure l’“auto-rivelamento”: possono anche raccontare qualcosa di sé, seppure in un legame stretto con quanto va dicendo il paziente. La loro è un’impostazione teorica e clinica fortemente “relazionale”».

    Un peccato mortale per un analista classico? «Un tabù che forse vale la pena d’infrangere. Del resto, se oggi Freud vedesse analizzare i pazienti come nei primi decenni del Novecento avrebbe una crisi di disperazione. Non era una scienza infertile che voleva, ma una scienza capace di svilupparsi, di trasformarsi, di volare…».

    Non pensa che alcuni voli possano risultare azzardati? «Penso che ognuno ha il diritto di approfondire il suo modello in modo libero e creativo, senza eclettismi, senza fare pastrocchi, ma anche senza ignorare tutto il resto. Soprattutto nel training – nella formazione degli allievi che costituisce per serietà e impegno il nostro marchio di fabbrica – non basterà più lo studio pur fondamentale dei classici, ma dovrà esserci una forte presenza della psicoanalisi contemporanea».

    Sembrerebbe del tutto ovvio. Ma forse c’è un altro problema: non le risulta che gli analisti italiani difettano nella padronanza dell’inglese?

    «E questo è davvero tragico, perché così non ci si può muovere nel mondo scientifico. Lo studio dell’inglese andrà inserito obbligatoriamente negli anni della formazione dei nostri analisti: lo considero un punto centrale del mio programma». Il suo competitor nella corsa alla presidenza, Alberto Semi, ha accusato l’establishment della vostra istituzione di accentrare ogni decisione senza favorire la partecipazione e il talento creativo dei soci… Avrà qualche ragione? «Non è certo la creatività che manca alla psicoanalisi italiana. Il problema è che finora non abbiamo avuto adisposizione dei canali agili per farla conoscere all’estero. Bisogna che ci siano. E comunque senza più dogmatismi: se una cosa non l’ha detta Freud, può andar bene lo stesso».

    Ma c’è psicoanalisi senza Freud? O meglio: c’è una continuità o una rottura tra Freud e “le” psicoanalisi contemporanee? «Mi verrebbe da dire: c’è microbiologia senza Pasteur? Certamente sì, grazie anche a Pasteur! Il punto è che bisogna avere il coraggio di proporre nuove idee anziché celebrare le vecchie. Non guarderei ai fasti del passato, ma al brillante futuro che la psicoanalisi saprà dare a se stessa con la ricerca e l’impegno nella cura delle nuove patologie. Fermarsi a Freud significherebbe trasformare una disciplina basata sull’esperienza in un credo religioso».

    Secondo Semi, si rischia di perdere di vista nientemeno che l’inconscio… Lei ne difende o no la centralità? «Ma assolutamente sì. Non a caso, l’anno scorso, ero tra i cinque analisti a organizzare l’appuntamento internazionale a Città del Messico, e ho insistito moltissimo per quel titolo sui tre pilastri della psicoanalisi: “Sessualità, Sogni e Inconscio”… Ma mi è sembrato che al congresso Semi non ci fosse».

    Che ci fosse o meno, non importa. Piuttosto qual è la sua idea dell’inconscio? E quanto conterà ancora il passato del paziente? «Seguendo il modello di Bion, penso che l’inconscio venga formato e trasformato nella relazione analitica, nell’incontro singolare tra due menti che costituiscono una nuova entità e danno vita a scenari nuovi e imprevedibili. Certo che il passato conta, ma forse il problema riguarda quelle storie che non ci è stato dato di vivere o – come direbbe Ogden – di sognare».

    Lei ha un’aria conciliante, ma da voi i conflitti a tratti sono feroci…Non è deludente tra gente che fa il vostro mestiere? «Gli analisti esistono soltanto nel rapporto col paziente. Nella vita sono uomini e donne come tutti gli altri, né migliori né peggiori».

    Ma la Società psicoanalitica non ha proposto l’immagine di un cenacolo di anime belle? «Anime belle, noi? Via, le cattiverie e le generosità sono assolutamente identiche in ogni ambiente professionale. Anzi, da noi forse è un poco peggio, visto che se siamo dei bravi analisti siamo tenuti a contenere tutto il giorno le angosce dei pazienti. E quindi poi magari dobbiamo anche sfogarci un po’…»

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    Repubblica 7 gennaio 2013


    Polemiche. Perché non possiamo non dirci freudiani

    L’intervista di Nino Ferro a Repubblica del 18 dicembre

    Dopo l’articolo di “Repubblica” le reazioni del mondo analitico

    di Luciana Sica

    «Questa idea che esistano preti freudiani è un’invenzione polemica di Nino Ferro, ma la sua è una logica politica che scivola nella mediocrità sul piano teorico… Siamo tutti post-freudiani: basta leggere i più grandi autori ancorati alla psicoanalisi classica – da Laplanche a Green, ma anche allo stesso Winnicott – per rendersi conto che davvero non c’è il rischio di un culto religioso».

    Alberto Semi, sconfitto da Nino Ferro nella corsa alla guida della Società psicoanalitica italiana, non ha gradito l’intervista che il neopresidente ha rilasciato a Repubblica (il 18 dicembre scorso) e caduta come una bomba nel mondo analitico, ma non ne fa una questione di beghe interne. Tutt’altro: «Ben venga un dibattito libero e pubblico, per la sua funzione civile, perché anche all’esterno si possano assaporare almeno le grandi linee di una questione culturale fondamentale, e cioè chi sia l’essere umano e come possiamo pensarlo».
    Semi non enfatizza le tensioni personali con Ferro, ma è un uomo che ama la polemica: «Che senso ha parlare di “psicoanalisi italiana”? Da noi non c’è mai stata una monocultura analitica, ma piuttosto una “psicoanalisi in Italia” con la presenza da sempre di correnti diverse – isolata in passato, questo è vero – mai provinciale però. Soprattutto non esistono idee vecchie e nuove, ma idee valide e non valide: ipotesi diverse per spiegare gli stessi fenomeni. Bisogna discuterne, sapendo che oggi ci sono nel mondo più psicoanalisi che pensano e lavorano, che la collaborazione è possibile a patto di chiarire quali sono le differenze. E senza mai avere paura del conflitto, perché il conflitto è il sale della vita. Ferro è più legato alla professione clinica, nel senso stretto del termine, mentre io considero importante che la psicoanalisi possa dire qualcosa sulla cultura in cui viviamo, anche in senso antropologico: dallo sgretolamento della famiglia ai nuovi modi di procreazione, dalla considerazione dei generi sessuali alla fine della vita…».
    Ma qual è il vero oggetto del contendere? Prova a spiegarlo Stefano Bolognini, in qualche modo super partes nel suo ruolo di primo italiano al vertice dell’International Psychoanalytical Association: «Certamente il dilemma non è “Freud sì/Freud no” o anche “solo Freud/niente Freud”, ma piuttosto se sono più importanti le pulsioni – quelle spinte aggressive e sessuali dovute a fattori biologici e a processi inconsci– o se invece a prevalere è la relazione tra analista e paziente. In altre parole, cambia di più la vita ricordare, abbattendo i meccanismi difensivi della rimozione, oppure arricchire il pensiero?

    La cura analitica è solo un recupero della consapevolezza o un fattore trasformativo della mente? Il punto è dove cade l’accento, anche se in realtà la psicoanalisi è come un albero, il cui tronco (Freud) è importante quanto i rami e le foglie (gli sviluppi post-freudiani degli ultimi cinquant’anni): questo Ferro e Semi lo sanno benissimo, e la loro querelle insaporisce lo scenario di una psicoanalisi ormai irrimediabilmente pluralista. Unita però dall’irrinunciabilità, per qualsiasi albero, di avere radici, tronco, rami e foglie – anche se ognuno ha le sue preferenze, un suo modello teorico e clinico che non andrebbe comunque mai assolutizzato».
    Sarebbe però un’ingenuità credere che la psicoanalisi in Italia si riduca a un duello a distanza tra Ferro e Semi, con una qualche mediazione di Bolognini. C’è tutto un mondo analitico in subbuglio e posizioni per niente faziose di tutto rispetto. Come quella di Sarantis Thanopulos, collaboratore del manifesto – con una rubrica che esce il sabato – e autore di libri non solo raffinati, ma innovativi: s’intitola Ipotesi gay il volume a più voci sull’omosessualità, curato con Olga Pozzi per Borla.
    Non procede per semplificazioni quest’analista di origini greche, che rifiuta di schierarsi nella contrapposizione tra psicoanalisi classica e contemporanea, giudicandola ideologica e di scarsa consistenza culturale. Thanopulos non esita ad ammettere che «il pericolo di un uso esegetico del pensiero di Freud esiste davvero», ma esclude sia questa la tendenza dominante: «Piuttosto il rischio è che prevalga l’idea di considerare l’opera freudiana come un ferro vecchio e inutilizzabile, da archiviare sbrigativamente. Il pensiero di Freud va innanzitutto conosciuto a fondo e poi magari smontato dov’è necessario, anche radicalmente trasformato, ma sapendo che resta ancora vivo in tante sue intuizioni e soprattutto in certe sue impasse e contraddizioni. Ha ragione Ferro quando invita a non arroccarsi sul già noto e a non demonizzare altri modelli, compresi quelli americani, basta però che il rigetto di Freud non somigli a una via di fuga dall’obbligo del rigore a cui gli analisti sono comunque tenuti, qualunque cosa pensino del fondatore della loro disciplina».

    Molto più “indignato” è Alberto Luchetti, che ha scritto una lettera furente al nostro giornale. Precisa di essere ancora lui il direttore della Rivista di Psicoanalisi (fino a marzo, quando gli succederà Giuseppe Civitarese) e soprattutto difende il suo lavoro e gli articoli scritti in questi anni da analisti di altri Paesi. Secondo la sua versione, «la Rivista non ha bisogno di una “apertura ai contatti e agli scambi internazionali”, per il semplice motivo che c’è già, ma evidentemente i nomi dei nostri articolisti, non essendo stati scelti da Ferro, non contano…». Peccato che – trattandosi di un trimestrale molto di nicchia – sia impossibile dare conto ai nostri lettori di una polemica, questa sì, decisamente interna.

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