• Allarme farmaci: i test falsificati dalle case farmaceutiche

      0 commenti

    Cattive medicine

     –

    di Ben Goldacre

    Le case farmaceutiche ingannano i medici e danneggiano i pazienti ***

     –

    Quando prescrivono un farmaco, spesso i medici non sanno esattamente che effetto avrà sui pazienti. Perché la legge consente alle case farmaceutiche di pubblicare solo i risultati positivi dei test condotti sui medicinali. L’inchiesta di un medico britannico.

     

    La reboxetina è un farmaco che ho prescritto anch’io. Con uno dei miei pazienti le altre medicine non avevano funzionato, perciò volevamo provare qualcosa di nuovo. Prima di scrivere la ricetta avevo letto i dati dei test clinici, e avevo visto che erano ben strutturati e che i risultati erano in prevalenza positivi. La reboxetina funzionava meglio di un placebo ed era alla pari con gli altri antidepressivi con i quali era stata messa a confronto. L’Mhra, l’agenzia che regolamenta la diffusione dei farmaci e dei prodotti sanitari del Regno Unito, l’ha approvata. In tutto il mondo, se ne prescrivono milioni di dosi ogni anno. Doveva essere un farmaco efficace e sicuro. Ne ho parlato brevemente con il paziente e abbiamo concordato che era la cura giusta da provare, quindi ho firmato la ricetta.

    Ma ci eravamo sbagliati. Nell’ottobre del 2010 un’équipe di ricercatori è riuscita finalmente a mettere insieme tutti i dati disponibili sulla reboxetina, presi sia dai test clinici pubblicati sia da quelli mai apparsi sulle riviste specializzate. E il quadro che ne è uscito è stato terrificante. Erano stati condotti sette test in cui il farmaco veniva confrontato con un placebo. Solo uno, effettuato su 254 pazienti, aveva dato risultati nettamente positivi, ed era stato pubblicato su una rivista scientifica. Ma gli altri sei test, condotti su un numero di pazienti dieci volte superiore, avevano dimostrato che la reboxetina non era più efficace di una qualsiasi pillola di zucchero. Nessuno di quei test era stato pubblicato e non avevo idea che esistessero.

    Ma c’è di peggio. Dai test che confrontavano la reboxetina con altri farmaci è emerso esattamente lo stesso quadro: tre piccoli studi, su un totale di 507 pazienti, dimostravano che i farmaci davano tutti gli stessi risultati, ed erano stati tutti pubblicati. Ma i dati su uno studio con 1.6S7 partecipanti erano stati ignorati: dimostravano che i pazienti che prendevano la reboxetina stavano peggio di quelli che usavano altre medicine. Come se non bastasse, c’erano anche gli effetti collaterali. Dagli studi apparsi sulle riviste specializzate sembrava che il farmaco funzionasse, ma quando abbiamo visto quelli non pubblicati abbiamo scoperto che c’erano più probabilità che i pazienti ai quali era somministrata la reboxetina avessero effetti collaterali, smettessero di prenderla e abbandonassero la sperimentazione proprio a causa di quegli effetti.

    Avevo fatto tutto quello che un medico deve fare. Avevo letto gli articoli, li avevo valutati criticamente, ne avevo discusso con il paziente e avevamo deciso insieme sulla base delle prove a nostra disposizione.

    Secondo il materiale pubblicato, la reboxetina era un farmaco efficace e sicuro. In realtà, non era meglio di un placebo e faceva più male che bene. In pratica, avevo danneggiato il mio paziente, semplicemente perché i dati negativi sul farmaco non erano mai stati pubblicati.

    In quel caso, nessuno aveva infranto la legge. La reboxetina è ancora sul mercato e il sistema che ha permesso che questo accadesse è rimasto immutato, per tutti i farmaci, in tutti i paesi del mondo. I dati negativi spariscono in tutti i settori della medicina. Le istituzioni e le associazioni professionali che dovrebbero censurare certi comportamenti non lo fanno. Questi problemi sono sempre stati tenuti nascosti al pubblico perché sono troppo complessi da capire. Per lo stesso motivo non sono mai stati del tutto risolti dai politici, e quindi richiedono una spiegazione più dettagliata. Le persone di cui pensavamo di poterci fidare ci hanno tradito, e dato che per risolvere un problema bisogna capirlo bene, c’è una serie di cose che tutti dobbiamo sapere.

    L’efficacia dei farmaci viene verificata da quelli che li fabbricano, con test clinici mal progettati e condotti su un piccolo numero di pazienti poco rappresentativi, e analizzati con tecniche truccate che enfatizzano solo i benefici. Ovviamente, questi test tendono a creare risultati favorevoli al produttore. Quando emergono dati non graditi, alle aziende è riconosciuto il diritto di tenerli nascosti a medici e pazienti, quindi a noi arriva un quadro falsato dei veri effetti di qualsiasi medicina. Le agenzie di regolamentazione leggono la maggior parte dei risultati dei test clinici, ma solo quelli condotti nelle prime fasi di sperimentazione sul farmaco, e comunque non li danno ai medici e ai pazienti e non li rendono noti neanche alle altre istituzioni governative. Queste prove falsate vengono poi rese pubbliche e applicate in modo distorto.

    Nei loro quarant’anni di pratica, dalla laurea alla pensione, i medici raccolgono informazioni dai rappresentanti delle case farmaceutiche, dai colleghi e dalle riviste specializzate. Ma i loro colleghi possono considerazione i risultati di 192 test, che mettevano a confronto una statina con un’altra o con un trattamento diverso. I ricercatori hanno scoperto che era venti volte più probabile che gli studi finanziati dall’industria dessero risultati positivi.

     

    Questa è già una notizia preoccupante, ma riguarda i singoli studi. Proviamo a considerare indagini più sistematiche. Nel 2003 ne sono uscite due. Entrambe avevano preso in esame tutti gli studi resi noti fino ad allora sull’associazione tra finanziamenti dell’industria e risultati positivi, e avevano scoperto che era quattro volte più probabile che i test finanziati dalle case farmaceutiche dessero risultati positivi. Un’indagine del 2007 ha analizzato gli studi compiuti nei quattro anni successivi e ne L’efficacia dei farmaci viene verificata da quelli che li fabbricano, con test clinici condotti su un piccolo numero di pazienti essere pagati dalle case farmaceutiche, spesso in segreto, e così anche le riviste. A volte perfino i gruppi di pazienti sono pagati. E infine gli articoli accademici, che tutti considerano obiettivi, spesso sono scritti da persone che lavorano per l’industria del farmaco. A volte intere riviste scientifiche sono di proprietà di un’azienda. A peggiorare la situazione c’è il fatto che per quanto riguarda alcune delle questioni più importanti della medicina non abbiamo idea di quale sia la cura migliore, perché nessuno ha interesse a condurre i test clinici.

     

     

    La cura migliore

    .

    Nel 2010 un gruppo di ricercatori di Harvard e dell’università di Toronto ha preso tutti i test clinici effettuati sulle cinque categorie di medicinali più importanti- antidepressivi, farmaci per l’ulcera e così via -e ha considerato due elementi chiave: se i risultati erano positivi e se gli studi erano finanziati dall’industria farmaceutica. Nel complesso ne hanno esaminati 500, e hanno scoperto che 1’85 per cento degli studi finanziati dall’industria dava risultati positivi. Nel caso di quelli finanziati con fondi pubblici la percentuale era del 50 per cento.

    Tre anni prima un altro gruppo di ricercatori aveva esaminato tutti i test pubblicati sui benefici di una statina. Le statine sono farmaci che abbassano il colesterolo riducendo il rischio di un infarto e sono prescritti in grandi quantità. Lo studio ha preso in ha scoperti altri venti. Tutti, tranne due, dimostravano che i test sponsorizzati dall’industria davano risultati positivi. Sembra che succeda la stessa cosa con i risultati presentati durante i convegni accademici. Nel 2004 James Fries ed Eswar Krishnan della facoltà di medicina dell’università californiana di Stanford hanno analizzato tutti gli estratti delle relazioni presentate al convegno dell’American college ofrheumatology del 2001, in cui erano stati riportati i risultati di test sponsorizzati dall’industria farmaceutica, per cercare quanti di quei risultati fossero stati favorevoli al farmaco dello sponsor. Questa è stata la loro conclusione: “I risultati di tutti gli studi controllati randomizzati (45 su 45) erano a favore del farmaco dello sponsor”.

    Come fanno i test clinici sponsorizzati dall’industria a dare quasi sempre risultati positivi? A volte sono volutamente falsati. Si può scegliere di confrontare il nuovo farmaco con qualcosa che si sa essere inefficace (per esempio un medicinale già esistente in una dose inadeguata o un placebo). Si possono scegliere attentamente i pazienti che reagiranno meglio alla cura. Si può interrompere il test in anticipo quando i risultati sono buoni. A volte, le aziende conducono molti test, e semplicemente non pubblicano i risultati quando vedono che non sono quelli che vorrebbero.

    Dato che i ricercatori sono liberi di nascondere i risultati che vogliono, i pazienti corrono grossi rischi. Spesso i medici non hanno idea dei veri effetti delle cure che prescrivono. Questo farmaco funziona veramente bene o mi è stata tenuta nascosta la metà dei dati? Nessuno può saperlo. Potrebbe uccidere il paziente? Non si sa. È una situazione molto strana perla medicina, un campo in cui tutto dovrebbe basarsi su prove documentate. Questi dati vengono tenuti nascosti a tutti quelli che lavorano nel settore, nessuno escluso. Il National institute for health and clinical excellence (Nice), per esempio, è stato creato dal governo britannico per condurre un’analisi attenta e imparziale di tutte le prove raccolte sui nuovi trattamenti. Eppure non è in grado di accedere ai dati sull’efficacia di un farmaco che i ricercatori o le aziende non vogliono rivelare. Anche se deve prendere delle decisioni che riguardano milioni di persone, legalmente il Nice ha lo stesso diritto di vedere quei dati di un singolo cittadino.

    Quando un’équipe di ricerca conduce un test su un nuovo farmaco per un’azienda farmaceutica, ci aspetteremmo che firmi un contratto che prevede l’obbligo di pubblicare i risultati e che impedisce all’azienda di censurarne  una parte. Ma, anche se è risaputo che le ricerche finanziate dall’industria sono falsate, questo non succede. Al contrario, è assolutamente normale che i ricercatori e gli accademici responsabili di uno studio firmino un contratto con clausole che gli impediscono di pubblicare, discutere e analizzare i dati ottenuti senza il permesso del finanziatore.

    È una situazione così vergognosa che può essere pericoloso perfino parlarne. Nel 2006, sul Journal of the American medical association (Jama), una delle riviste specializzate più importanti del mondo, è uscito un articolo in cui si descrivevano i vincoli imposti ai ricercatori nella pubblicazione dei risultati di test farmaceutici finanziati dalla casa produttrice. Lo studio era stato condotto dal Nordic Cochrane centre, un istituto con sede in Danimarca, prendendo in esame i test effettuati a Copenaghen e Frederiksberg. I test erano quasi tutti sponsorizzati dall’industria farmaceutica (98 per cento) e le norme che regolavano la gestione dei dati erano come al solito tra l’inquietante e l’assurdo.

    In 16 casi su 44, l’azienda aveva il diritto di vedere i dati man mano che emergevano, e in altri i6 poteva decidere di interrompere lo studio in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo. Questo significa che una casa farmaceutica può verificare se i risultati vanno contro i suoi interessi e intervenire in corso d’opera, distorcendoli. E anche se autorizza a portare a termine lo studio, può sempre decidere di non rendere noti i risultati: c’erano vincoli sulla pubblicazione in 4o dei 44 test, e in metà dei casi il contratto specificava che l’azienda era proprietaria assoluta dei dati, doveva approvarne la pubblicazione finale, o entrambe le cose. Nessuno di questi vincoli era menzionato negli articoli pubblicati.

    Quando è apparso l’articolo sul Jama, la Lif, l’associazione delle case farmaceutiche danesi, ha risposto sulla rivista dell’associazione medica danese dicendo di essere “sorpresa e furiosa per queste critiche e di considerarle assolutamente infondate”. Ha reclamato un’inchiesta, senza però dire condotta da chi e su che cosa. Poi ha scritto alla commissione danese che si occupa degli illeciti in campo scientifico, accusando i ricercatori del Cochrane di scorrettezza. Non mi è stato possibile vedere la lettera, ma secondo i ricercatori le affermazioni che conteneva erano molto gravi – erano stati accusati di aver deliberatamente distorto i dati – anche se vaghe e non documentate.

    Eppure l’inchiesta è andata avanti per un anno. Peter Getzsche, che dirige il Cochrane centre, ha dichiarato al British Medical Journal che solo la terza lettera della Lif, inviata dieci mesi dopo la sua prima replica, conteneva accuse specifiche sulle quali la commissione poteva indagare. Due mesi dopo, l’istanza è stata archiviata. I ricercatori del Cochrane non avevano fatto niente di scorretto. Ma prima che fossero definitivamente prosciolti, la Lif ha mandato una copia delle lettere che li accusavano di disonestà scientifica all’ospedale dove lavoravano quattro di loro e all’azienda che lo amministrava, e ha inviato lettere simili all’associazione medica danese, al ministero della salute e al ministero della ricerca scientifica. Gatzsche e i suoi colleghi si sono sentiti “aggrediti e minacciati” dal comportamento della Lif, che ha continuato ad accusarli di scorrettezza anche dopo la chiusura dell’inchiesta.

     

     

    Un caso da manuale

    .

    La paroxetinaè un antidepressivo piuttosto comune che appartiene a una classe di farmaci noti come inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, o Ssri. E fornisce un buon esempio di come le aziende abbiano approfittato della poca attenzione dedicata dalla comunità scientifica ai risultati dei test cinici, trovando scappatoie legali. Per capire come sia possibile, dobbiamo prima di tutto accennare a un’anomalia del processo di approvazione dei medicinali. Quando un farmaco viene commercializzato non può essere destinato a qualsiasi uso: è necessaria un’autorizzazione specifica per ogni tipo di impiego. Quindi, per esempio, un medicinale può essere autorizzato per il trattamento del cancro alle ovaie ma non di quello al seno. Questo non significa che nel secondo caso non funzioni. Può anche essere di efficacia dimostrata, ma la casa produttrice non si è presa la briga di richiedere un’autorizzazione formale per quell’uso o non ha voluto affrontare la spesa che questo comporterebbe. I medici possono decidere di prescriverlo comunque per il cancro al seno, perché probabilmente funziona ed è sicuramente disponibile nelle farmacie. Possono farlo legalmente, ma in questo caso si tratta di una prescrizione off label, cioè per una patologia diversa da quella indicata nel foglio illustrativo.

    Per poter somministrare un farmaco ai bambini è necessaria un’autorizzazione separata da quella che serve per gli adulti. In tanti casi questo è comprensibile, perché i bambini possono reagire a una sostanza in modo molto diverso e quindi è necessario condurre una ricerca separata. Ma ottenere una licenza per un uso specifico è difficile, richiede un’ampia documentazione e una *** serie di studi appositi. Spesso il percorso è così costoso che le aziende non si prendono la briga di richiedere l’autorizzazione a usare un farmaco peri bambini, perché si tratta di un mercato di solito più ridotto. Quindi succede che una medicina autorizzata solo per gli adulti sia prescritta anche ai bambini. Le agenzie governative addette ai controlli si sono rese conto del problema e di recente hanno cominciato a offrire incentivi alle aziende perché conducano più studi e chiedano formalmente le licenze.

    Quando la GlaxoSmithKline (Gsk) chiese l’autorizzazione per commercializzare la paroxetina per i bambini, emerse una situazione che scatenò la più lunga inchiesta della storia nella regolamentazione dei farmaci nel Regno Unito. Tra il 1994 e il 2002, la Gsk aveva compiuto nove test clinici sull’uso della paroxetina per curare i bambini affetti da depressione. I primi due avevano dimostrato che non comportava alcun beneficio, ma l’azienda non fece nessun tentativo di informare i medici e i pazienti cambiando il foglio illustrativo. Anzi, alla fine dei test, in un documento interno si leggeva: “Sarebbe commercialmente inaccettabile inserire nel foglio l’affermazione che la sua efficacia non è stata dimostrata, perché danneggerebbe l’immagine della paroxetina”. Nell’anno successivo a questo memorandum interno, solo nel Regno Unito furono firmate 32mila ricette in cui fu prescritta la paroxetina ai bambini. Negli anni seguenti furono effettuati altri studi, nove in tutto, e nessuno dimostrò che il farmaco fosse efficace per curare la depressione nei bambini.

    Ma c’è di peggio. Non solo i bambini prendevano una medicina di cui la casa produttrice conosceva l’inefficacia; erano anche esposti ai suoi effetti collaterali. Purtroppo nessuno sapeva quanto fossero gravi gli effetti collaterali, perché l’azienda non l’aveva rivelato, neanche alle agenzie di controllo. Questo è stato possibile perché secondo la regolamentazione è obbligatorio informare le agenzie di controllo solo degli effetti collaterali emersi dagli studi sull’uso specifico per il quale si è chiesta la licenza. E dato che per i bambini la paroxetina era usata offlabel, la Gsk non era obbligata a comunicare a nessuno le sue scoperte. Si sospettava da tempo che la paroxetina potesse aumentare il rischio di suicidio, anche se questo effetto collaterale è difficile da verificare. Nel febbraio del 2003 la Gsk aveva mandato spontaneamente all’Mhra una relazione informativa sul rischio di suicidio provocato dalla paroxetina. Il rapporto era basato sui risultati di alcune analisi effettuate nel 2002 sui dati negativi emersi da test che l’azienda aveva condotto dieci anni prima. Secondo la relazione non c’era nessun aumento del rischio di suicidio. Ma era falsata. All’epoca non si sapeva che in realtà i dati relativi ai bambini erano stati mescolati con quelli di un gran numero di adulti.

     

    Nel 2003 la Gsk partecipò a una riunione con l’Mhra per discutere un’altra questione riguardante la paroxetina. Alla fine dell’incontro, i suoi rappresentanti presentarono un documento in cui si diceva che l’azienda aveva intenzione di chiedere un’autorizzazione specifica per l’uso della paroxetina nei bambini e accennava anche al fatto che l’Mhra avrebbe potuto tener conto della possibilità di un maggior rischio di suicidio tra i bambini depressi che assumevano il farmaco. Si trattava di un effetto collaterale di vitale importanza, comunicato informalmente e con enorme ritardo attraverso un canale inappropriato. Anche se i dati erano stati consegnati alle persone sbagliate, il personale dell’Mhra presente all’incontro ebbe il buon senso di capire che si trattava di un’informazione importante. Si misero subito all’opera, ordinarono delle analisi e nel giro di un mese mandarono una lettera a tutti i medici consigliando di non prescrivere la paroxetina a pazienti al di sotto dei i8 anni.

    Com’è possibile che il sistema per ottenere i dati dalle aziende sia così inefficiente da permettergli di tenere nascoste informazioni così importanti su un farmaco? È possibile perché la normativa contiene scappatoie assurde ed è preoccupante vedere come la Gsk abbia saputo sfruttarle. La conclusione dell’inchiesta, pubblicata nel 2008, era che la Gsk aveva agito in modo immorale e pericoloso per i bambini di tutto il mondo, ma le leggi britanniche erano così lacunose che l’azienda non poteva essere accusata di nulla. Dopo questo episodio, l’Mhra e l’Unione europea hanno cambiato alcune regole, che però sono ancora inadeguate. Hanno imposto alle aziende di rivelare i dati sulla sicurezza di un farmaco indipendentemente dalla richiesta di commercializzazione, ma gli studi condotti fuori dell’Ue restano esclusi da quest’obbligo. Alcuni dei test compiuti dalla Gsk sono stati in parte pubblicati, ma questo ovviamente non è sufficiente, perché sappiamo già che sono falsati. E abbiamo bisogno di tutte le informazioni anche per un motivo più semplice: i segnali di pericolosità sono spesso deboli e difficili da individuare. Nel caso della paroxetina la verità è emersa solo quando i dati negativi di tutti i test sono stati analizzati insieme.

     

     

    Sistema lacunoso

    .

    Questo ci porta a parlare del secondo difetto evidente del sistema attuale: i risultati dei test vengono consegnati in segreto alle agenzie di controllo, che devono prendere una decisione. Ma la scienza non dovrebbe funzionare così: le sue scoperte sono affidabili solo quando tutti rendono pubbliche le loro ricerche, spiegano come fanno a sapere che qualcosa è efficace e sicuro, condividono metodi e risultati e consentono agli altri di decidere se sono d’accordo sul modo in cui quei dati sono stati elaborati e analizzati. Invece nell’ambito della sicurezza dei farmaci tutto avviene a porte chiuse, perché così hanno deciso le aziende farmaceutiche. Perciò il compito più importante della medicina viene svolto in segreto. E neanche le agenzie di controllo sono infallibili, come ora vedremo.

    Il rosiglitazone fu messo in commercio nel 1999. Dopo circa un anno che era sul mercato, il dottor John Buse dell’università del North Carolina parlò in due convegni *** s accademici del rischio che il farmaco facesse aumentare i problemi cardiaci. La Gsk, produttrice del medicinale, contattò direttamente Buse nel tentativo di metterlo a tacere, poi si rivolse al suo capo dipartimento. Nel 2007 una relazione della commissione finanze del senato statunitense parlava di “intimidazione” nel caso di Buse.

    Ma quello che preoccupa di più sono i dati sull’efficaciae sulla sicurezza. Nel 2003 l’ufficio di Uppsala dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che si occupa del monitoraggio dei farmaci, contattò la Gsk a proposito di un numero insolitamente alto di rapporti che associavano il rosigli-tazone ai problemi cardiaci. La Gsk condusse due meta-analisi interne dei suoi dati nel loos e nel zoo6, che dimostrarono la fondatezza del rischio. Ma anche se l’azienda e la Food and drugs administration statunitense conoscevano i risultati, nessuna delle due fece una dichiarazione ufficiale, e non furono pubblicati fino al 2008.

    Durante quel periodo, molti pazienti hanno continuato ad assumere la sostanza, ma né loro né i medici hanno saputo niente di questo problema fino al 2007, quando il cardiologo Steve Nissen e i suoi colleghi hanno pubblicato la loro analisi, dimostrando che per i pazienti trattati con il rosiglitazone il rischio di malattie cardiache aumentava del 43 per cento. Dato che le persone affette da diabete rischiano già di avere complicazioni cardiache, e il motivo principale per cui si cura il diabete è proprio quello di ridurre questo rischio, la scoperta ha fatto scalpore. I risultati di Nissen sono stati confermati da studi successivi e nel toro il farmaco è stato ritirato dal commercio o comunque il suo uso è stato limitato in tutto il mondo.

    Ora, il punto non è che il medicinale avrebbe dovuto essere ritirato prima. Per quanto perverso possa sembrare, infatti, i medici a volte ricorrono a farmaci di qualità inferiore come ultima risorsa. Per esempio, un paziente può reagire male a un farmaco particolarmente efficace e deve smettere di assumerlo. Quando si verificano questi casi, a volte vale la pena provare un medicinale meno efficace, che è sempre meglio di niente. Il problema è che tutte queste discussioni avvenivano mentre i dati erano tenuti sotto chiave e potevano essere visti solo dalle agenzie di controllo. Anzi, Nissen aveva potuto fare la sua analisi solo grazie all’insolita sentenza di un tribunale. Nel 2004, quando si era saputo che la Gsk aveva tenuto segreti i dati sui gravi effetti collaterali della paroxetina nei bambini, il suo comportamento scorretto aveva dato origine a una causa civile per frode, alla fine della quale l’azienda, oltre a pagare i danni, aveva dovuto impegnarsi a pubblicare i risultati dei suoi test clinici su un sito web accessibile al pubblico.

    Nissen aveva analizzato i dati sul rosi-glitazone e aveva fatto una scoperta allarmante di cui aveva informato i medici, cosa che l’agenzia di controllo non aveva mai fatto pur essendo in possesso dei dati da anni. Se queste informazioni fossero state accessibili fin dall’inizio, l’agenzia forse sarebbe stata più cauta nella decisione da prendere, ma in questo modo medici e pazienti avrebbero potuto non essere d’accordo con lei e fare una scelta informata.

    È per questo che tutti i risultati dei test clinici dovrebbero essere accessibili. I dati mancanti danneggiano tutti. Se non si effettuano test seri, se i risultati negativi vengono tenuti nascosti, non possiamo sapere quali sono i veri effetti dei farmaci che usiamo. In medicina la necessità delle prove non è una questione accademica astratta. Quando ci forniscono dati falsati, possiamo prendere decisioni sbagliate e infliggere sofferenze inutili, se non addirittura la morte, a persone come noi.

     •bt L’AUTORE Ben Goldacre è un medico britannico. Questo articolo è un estratto, adattato, del suo ultimo libro, Bad Pharma, che sarà pubblicato in Italia da Mondadori nella primavera del 2013.

    Internazionale di venerdì 16 novembre 2012, pagina 40 link http://www.scribd.com/doc/113617117/Internazionale-975-Cattive-Medicine

     –

    Scrivi un commento