• Tempo imperfetto di Massimo D’orzi – Quella “misteriosa forma del tempo” che dà vita alla polifonia del suo romanzo

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    di Gian Carlo Zanon

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    Il romanzo è figlio dell’epica cantata dagli aedi che accompagnavano le narrazioni toccando le corde della cetra.  Così si narra e senza dubbio qualcuno prima di me avrà paragonato il romanzo a una sinfonia. Senza dubbio  il romanzo ha un proprio ritmo interno e un proprio tema principale che si sviluppa. Il romanzo ha le sue pause e le sue fughe. Protagonisti e personaggi secondari del romanzo svolgono l’identica funzione degli strumenti: i primi prevalgono determinando gli eventi, gli altri sottolineano, colmano spazi lasciati liberi, gremiscono le zone spopolate di senso.

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    Romanzo e sinfonia vivono della coralità indispensabile ad entrambi. Entrambi sono polifonici: gli strumenti e le voci – quelle del narratore e dei personaggi – si distinguono e si sovrappongono, scompaiono o si appropriano della scena in grandiosi assolo. Pensiamo ad esempio alla  Leggenda del Grande inquisitore incastonata nell’opera di F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov . (leggi qui)

    Entrambi hanno anche un tempo interno, invisibile, inudibile, che però non tutti i romanzi hanno e non tutti i lettori avvertono.  Parlo di quella «misteriosa forma del tempo», non disegnata nel pentagramma né stampata fra le righe dei testi letterari, di cui parlava Antonio Tabucchi.(1)

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    «L’idea di partenza del regista era forte poiché si trattava di restituire con il montaggio il particolare rapporto che gli zingari hanno col tempo. (…) A tale proposito mi aveva molto colpito scoprire che nella lingua romanès non esistono i nomi dei mesi, confermando la loro estraneità profonda all’idea di scandire il tempo così come facciamo nella nostra cultura».

    È Paola Traverso che parla, narrando nelle pagine del libro che contiene il DVD di Adisa o la storia di mille anni, il suo vissuto, nel ruolo di responsabile del montaggio, al fianco di Massino D’orzi, ideatore regista, nella realizzazione di questo stupendo film documentario girato nei pressi di Sarajevo poco tempo dopo la fine della devastante guerra tra bosniaci e  serbi. (qui il trailer)

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    Anche il regista di Adisa nel libro parla del tempo: «Sono molto legato all’immagine di Tarkovskij; “il cinema è un mosaico di tempo”. (…) Fra quelle montagne, le famiglie Rom vivevano di pastorizia, le ragazze pascolavano le pecore. E il tempo, quel maledetto tempo che si dilata in un giorno che sembra eterno».

    Il tempo zingaro si deve essere coagulato in qualche angolo del pensiero di M. D’orzi, visto che il tempo è divenuto il leitmotiv del suo romanzo «noir capovolto» Tempo imperfetto, pubblicato poco prima dell’estate per i tipi della casa editrice L’Asino d’Oro.

    Un tempo epico che scorre sotterraneo al romanzo di M. D’orzi e che lo marca fortemente: c’è il tempo dilatato della provincia dove il protagonista del romanzo, il giornalista di nera Isidoro Ducassi, viene mandato da un burbero direttore per seguire le vicende giudiziarie di un crimine tanto efferato quanto assurdo: un ragazzo e una ragazza di quindici anni hanno ammazzato per futili motivi con cento coltellate la madre e il fratellino di lei.

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    Poi c’è il tempo rubato degli incontri con Gaia. C’è il tempo scenico della Commedia dell’Arte in cui due maschere di provincia e il protagonista traggono da un incerto canovaccio una inaspettata farsa esilarante.

    C’è il tempo cristallizzato della pazzia della quindicenne Isabel – una novella Lady Macbeth che come lei invoca gli spiriti della crudeltà e dell’orrore chiedendo loro di mutare la propria natura femminea –  la matricida/fratricida così ben delineata negli inenarrabili assoli in cui i deliri dell’assassina si sostituiscono alla voce narrante svelando la sua malattia mentale.

    Un tempo che nel romanzo si dilata e si comprime seguendo i moti della natura umana dei personaggi e dell’epidermide della realtà in continuo divenire.

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    Nel testo qua e là  si avvertono contaminazioni della filmografia noir francese: Louis Malle, (Ascensore per il patibolo), Henri Clouzot (I diabolici) e nel tono umorale del protagonista si odono gli echi del noir dei romanzieri americani della taglia di Dashiell Hammet (Falcone maltese) e di Raymond Chandler (Il grande sonno). Ma anche se i fraseggi cinico/depressivi di Ducassi ricordano moltissimo Philip Marlowe, l’autore non ha certamente debiti da saldare col noir d’oltralpe e d’oltreoceano: il suo romanzo è assolutamente originale per molti motivi il primo dei quali è il continuo mutare ritmi della narrazione, tempi letterari, voci narranti e colori dell’umano che dipingono scena dopo scena l’ambiente romanzesco.

     

    Tempo imperfetto è un “imperfetto romanzo polifonico”, che non ha né la forma letteraria dostoevskiana – penso al capolavoro dello scrittore russo I fratelli Karamazov citato nel romanzo, in cui i personaggi sono monadi che non interagiscono realmente tra loro – né quella di un Faulkner – penso a Luce d’agosto – in cui ogni singolo movimento di un personaggio provoca lunghe onde che si ripercuotono sulla natura e sul destino degli altri attori del racconto modificandone comportamenti e pensieri. Niente di tutto questo.

    Qui i vari personaggi il giudice, la psichiatra, l’avvocato, la pazza assassina, – che apparentemente entrano in campo “a casaccio” come attori che escono dalle quinte senza seguire il copione consequenziale degli avvenimenti – per buona parte del romanzo vengono sapientemente spostati come pedine su una scacchiera atemporale. Tutto questo anziché provocare disorientamento catapulta il lettore nella profondità drammatica a tratti mitigata persino da attimi di “metaromanzo” come quando il protagonista si rivolge direttamente al lettore: «Ecco, adesso sapete il mio nome, il direttore non perde mai l’occasione per tacere».

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    Giunto qui mi rendo conto che occorrerebbero decine di pagine per recensire degnamente Tempo imperfetto. Un romanzo questo che tiene svegli di notte vuoi per la capacità dell’autore di alleggerire anche un racconto che scava nel “cuore di tenebra” di due quindicenni che uccidono con decine e decine di coltellate una donna e un bambino, vuoi per la profondità della ricerca che affonda nei labirinti della psiche smantellando improponibili vulgate psicanalitiche ancora, aimè, esistenti.

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    Un romanzo importante questo di Massimo D’orzi che sorprende anche quando, giunti quasi alla fine e solo per due o tre pagine, si ha l’impressione che il romanzo si stia incamminando verso un finale scontato. Invece, giunti il capitolo 41, (2) intitolato La morte di Dio, l’autore improvvisamente vira la barra del timone e il romanzo ha un guizzo finale che stronca ogni possibilità di possibili critiche su alcuni momenti della narrazione apparentemente meno felici. Critiche che ora di fronte a tanta bravura e a tanto coraggio letterario divengono persino squallide.

    Il magone che qui prende alla gola è sintomo e eco di corde profonde sapientemente sfiorate.

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    7 settembre 2016

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    Note

    (1) «L’unica cosa che non esiste è l’oblio. E tutto il resto esiste, tutto il resto è rappresentabile. La vita fugge, tu l’attraversi e fugge. La morte fugge, ti afferra e fugge. Le città fuggono, tu le attraversi e fuggono. E anche tu fuggi, non puoi raccontarti, perché fuggi. E invece la mano corre sulla carta, guida il pennino o il pennello, la vita è fuggita, ma vi resta la sua immagine. La musica è suonata, le note sono svanite nell’aria. Ma resta lo spartito. È qui davanti a voi.(…) Suonatelo. Ognuno con i suoi strumenti. (…) Eseguitelo con la vostra musica, tornando a casa, anche se siete stonati, fatelo, per gli intimi doni che non elenco, per la musica, misteriosa forma del tempo. Il giorno entra nella notte. Non se n’è andato.» Antonio Tabucchi. Racconti con figure. Sellerio Editore

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    (2) Il numero del capitolo (41) corrisponde a quello attorno al quale Julio Cortázar costruì Rayuela.

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