• Gente di cinema – Interviste ai grandi registi – Werner Herzog

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    Pubblicato il 18 gennaio 2008 da Marco Di Cesare

    Porge la mano per primo, Werner Herzog, con sorriso gentile, mentre prende posto in uno dei salottini del bar dentro il Museo Nazionale del Cinema, pronto per una delle tante interviste della giornata, inframezzate da sedute per i ritratti fotografici.

    Innanzitutto vorrei ringraziarla, a nome mio e di tutta la redazione di ’Close-Up’, per il tempo che ci ha concesso e per il cinema che ci ha regalato, per tutte le emozioni e il piacere e anche, aggiungo io, quella carica eversiva e anticonformista che, personalmente, apprezzo in modo particolare.
    Allora, proprio…

    Io rimbalzo i tuoi ringraziamenti a questo tempio dell’immaginazione che è il Museo del Cinema di Torino. Probabilmente, tra tremila anni, quando tutto questo non ci sarà più e resteranno soltanto le fondamenta, ci saranno comunque dei devoti che verranno a venerare questo tempio, come si faceva col Tempio di Salomone; e pregheranno, e si lamenteranno, perché il cinema non esisterà più!

    Il cinema, allora, potrebbe anche finire?

    Sì.

    Nei suoi film, mi chiedo, c’è quasi questa sensazione di fine della civiltà, del mondo, c’è la morte. Ma lei rende tutto ciò in maniera stilizzata, attraverso le immagini e la musica. Vorrei capire, però, se questa fine è cercata, o se c’è il timore verso di essa, oppure se l’uomo è talmente inutile che questa fine sarebbe un bene per tutto il resto della Terra.

    Sì, in realtà io credo che l’essere umano sia inutile su questo pianeta, perché la civiltà dei consumi è manifestamente non sostenibile: in Italia un esempio lo vediamo nella situazione di Napoli dove, aldilà dell’istanza politica, si vede un prodotto della civiltà dei consumi. Quindi io credo che effettivamente la razza umana, biologicamente, a lungo andare non è sostenibile. Mi rendo conto che tutto questo suona molto tedesco e teutonico, quando i miei film presentano anche una leggerezza e un umorismo: quindi iniziare un discorso sul cinema così, è un po’ cupo. Sono molto bavarese e mi piace la vita! E sono innamorato del mondo!

    Appunto, ci sono tutte queste varie sensazioni nel suo cinema: ma, sottofondo, si sente un’ironia tragica, come ne La Soufrèrie, dove c’è il rischio, ma anche la tristezza, perché quella che lei ha fatto è stato utile, ma forse anche no.

    Forse è corretta come osservazione, ma, in realtà, io non mi sento così tragico, e, a volte, le cose in un film si traducono nella posizione che hanno.

    Lei ha affermato che procede per illuminazioni. Ero molto interessato alla fase di scrittura: il film lo vede prima come immagine e solo in seguito lo scrive? E poi vorrei sapere se la sceneggiatura assume più la forma di un copione vero e proprio, oppure quella di un racconto che può essere ritoccato durante le riprese.

    Non è facile descriverlo: so solo che scrivo molto in fretta, con urgenza, motivo per cui non scrivo una sceneggiatura per più di una settimana. Ma non sviluppo i personaggi, come spesso, invece, insegnano alle scuole di cinema, secondo un primo, un secondo e un terzo atto, ad esempio: non so cosa significhi tutto ciò. Ed è tutto così vivido che non ho bisogno di pensarci. E in nessuno dei miei film ho mai costruito una storia. In molti dei film narrativi di Hollywood si percepisce la costruzione che, in quanto tale, è prevedibile, contrariamente alla vita, la quale non lo è. È come scrivere un libro di prosa: non c’è mai una costruzione, è una forma diretta di vita che si traduce in un testo.

    È questo il motivo per cui nei suoi film non c’è più una distinzione netta tra documentario e fiction, se mai nel cinema questa distinzione sia mai stata netta?

    Esiste comunque una forma di distinzione che non si può formulare in modo chiaro: di solito il documentario non viene organizzato, non ha una parte di invenzione, è come se si sviluppasse da solo. Io, invece, amo inventare anche nei documentari, amo cambiare prospettiva con l’aiuto anche della musica e del commento, che normalmente non sono presenti nei documentari. E molti dei miei documentari sono film di finzione mascherati.

    Non ’scegliendo’ una sceneggiatura è come se non scegliesse un genere come scappatoia. Però in alcuni suoi film c’è una scelta per contrastare e cambiare il genere: penso ad Aguirre, Kaspar Hauser (un giallo senza soluzione, non classico) e anche Nosferatu, dove, però, forse, lei era più interessato a Murnau che all’horror in sé.

    Forse l’unico film veramente di genere è Nosferatu, che è un horror. Però io coi generi non mi sono mai sentito a mio agio, motivo per cui non potrei mai realizzare un western o un giallo.

    Il road movie, ad esempio, prevede una crescita del personaggio: ma ne Il grido e in Professione: reporter Antonioni mette in scena la decadenza, fino alla morte, dei suoi protagonisti. Aguirre sembrerebbe una rilettura del genere avventuroso. Secondo me in alcuni suoi film si sente una volontà di trascendere il genere; negli altri no.

    Non so se sono di grande aiuto, ma non ho mai considerato Aguirre come un film di genere, né come un film di avventura; so che ho scritto la sceneggiatura in due giorni e mezzo, mentre ero sul pullman della mia squadra di calcio e i miei compagni erano tutti ubriachi. Non mi sono mai posto delle domande sul genere e su come lo ho trasgredito. L’unico film dove, in un orizzonte lontano, c’è un riferimento a un genere è, appunto, Nosferatu: però, in vita mia, non ho visto più di due horror. Per esempio ne L’ignoto spazio profondo, che è un film di fantascienza, non mi sono mai interessato alle regole e ai canoni della fantascienza: è un film completamente libero, dove non ci sono regole.

    E, secondo me, L’ignoto spazio profondo violava molte delle regole della fantascienza; l’ho visto anche come una forma di Odissea nello spazio, per la sua unione tra musica e immagini, ma dove l’utopia ha lasciato il posto alla distopia.

    No, questo film non ha regole e non cambia alcuna regola: è un film che si costituisce da sé. E anche Aguirre costituisce se stesso come se nessun altro film fosse mai esistito. Poche ora fa ho visto alcuni dei filmati che sono presenti qui al Museo del Cinema, tra cui uno dei fratelli Lumiere, una sequenza di un nano e un gigante che lottano insieme e ammiravo il modo in cui agli albori del cinema c’era una capacità di invenzione. Quando io ho cominciato a fare cinema ho avuto lo stesso tipo di approccio: la voglia di inventare il cinema. Proprio perché ho scoperto il cinema più avanti nella mia vita, non ha avuto un ruolo formativo nella mia infanzia e nella mia adolescenza.

    Non ha mai visto molti film negli anni dell’apprendistato?

    No: non ho mai visto un film di Ford, o di Preminger, e la storia del cinema per me è fatta di vuoti e di buchi; tuttora vedo un massimo di dieci film all’anno, a volte anche solo due

    .

    Lei ha sempre affermato di avere un approccio artigianale al cinema e di appartenere a un mondo pre-moderno. Mi piace immaginarla a lavorare come in una bottega, con tanti collaboratori; vorrei sapere, però, se i membri dei vari gruppi che ha avuto al seguito hanno avuto delle resistenze a seguirla nei suoi viaggi.

    Le persone che ho avuto con me naturalmente sono cambiate nel corso del tempo; alla fine, comunque, i collaboratori abituali mi hanno sempre seguito perché sentivano la sostanza del progetto. È ovvio che in situazioni complesse come quelle che si possono essere verificate nella giungla, ci sono state delle tensioni e dei conflitti; ma è naturale in un contesto di lavoro come quello. Ma non si è mai trattato di conflitti che hanno portato a un’interruzione del progetto o che hanno radicalmente cambiato l’evoluzione del progetto stesso. Erano tipologie di conflitti come possono normalmente accadere.

    Klaus Kinski e Bruno S. secondo me rappresentano due tipologie di personaggi all’opposto: anche se Kinski è stato Woyzeck, comunque possedeva un istinto animalesco; invece Bruno appariva come più passivo.

    Non sarebbe giusto, comunque, limitare il discorso a loro due: pensiamo anche alle recenti collaborazioni con Christian Bale e altri. E non condivido, per esempio, il modo con cui consideri Kinski, che, a prescindere dall’istinto che poteva avere avuto sul set, era un attore molto professionale e molto attrezzato. E anche Bruno S. era molto professionale.

    Sì, certamente: due grandissimi attori che meritano ogni rispetto. Pensavo solamente alle sensazioni che riuscivano a trasmettere.

    Riesco sempre a tirare fuori il meglio dagli attori quando lavorano con me. Kinski ha realizzato probabilmente 210 film, dei quali 205 senza di me: ma i cinque che ha fatto con me, probabilmente, sono quelli in cui ha fornito la sua migliore interpretazione. Nessuno sa con esattezza il numero dei film che lui ha interpretato, perché ha lavorato anche in dei porno: gli vengono attribuiti dai 170 ai 210 film.

    Di certo un attore, per quanto grande, ha bisogno del film giusto e del regista che lo diriga.
    Lei segue tutte le fasi di lavorazione di un film, dalla prima all’ultima, compresa la produzione. Mi chiedevo quanto questa capacità di controllo, tipica di ogni regista, ma in situazioni radicali, in lei arrivi all’estremo.

    Non mi sono mai posto in realtà la domanda: è tipico del mio lavoro e non vi è nulla di particolare.

    Potrebbe dirmi qualcosa su Walter Steiner, che è così centrale nella sua filmografia? Qualcosa sul film, sul personaggio, sul raggiungimento dell’estasi?

    Ho sempre sognato da giovane di fare anch’io il salto con gli sci e di volare: sono sempre stati i miei sogni e, un bel momento, ho incontrato quest’uomo che ha volato per me, quindi è una persona che è molta vicina al mo cuore. È quasi un autoritratto interpretato da qualcun altro!

    In Kalachakra vi è il rapporto di lei, cattolico, con un’altra religione. Lei ha affermato che il dialogo è fondamentale per il mantenimento della pace. Potrebbe parlarmi di questo viaggio in Tibet?

    È un film che non sentivo: mi avevano invitato a farlo, ma io inizialmente avevo risposto di no, perché ritenevo di non avere una sufficiente conoscenza del buddismo. A un certo punto, poi, il Dalai Lama ha mandato un suo emissario e, al suo secondo invito, ho accettato, a condizione di poter realizzare il film dalla mia prospettiva e dicendo chiaramente che non mi sarei mai convertito al Buddismo. Una volta che ho cominciato a viaggiare per l’India e per il Tibet, ho trovato qualche cosa che mi interessava e che poteva diventare un film. Mi sono accorto mentre giravo che avrebbe preso il corpo di un film.

    Lei ha affermato che una mdp su un treppiede è qualche cosa di implacabile, perché è bello che si senta il respiro dell’operatore, anche quando l’inquadratura è ferma.

    Bisogna stare attenti a generalizzare, perché questa affermazione va applicata solamente a determinate situazioni come, per esempio, quando giravo Il paese del silenzio e dell’oscurità.

    In Kalachakra ha mai usato il treppiede?

    Sì, come nella conversazione col Dalai Lama, perché è una situazione controllata di ripresa.

    Mi scusi se torno indietro nel tempo, ma vorrei sapere come sono stati accolti, in particolare, Anche i nani hanno cominciato da piccoli e Aguirre: negli anni ’60 vi era una certa ideologia imperante contro cui combattere?

    Tanti miei film, particolarmente in Germania, sono stati ignorati e liquidati dal pubblico. Il postulato, allora, è che il cinema dovesse servire alla rivoluzione mondiale, cosa che io trovavo ridicola: e dal momento che io non ho partecipato e non ho condiviso la rivoluzione del ’68, per più di dieci anni sono stato definito come un cineasta fascista, il cineasta fascista che ha realizzato Aguirre, Segni di vita e Anche i nani hanno cominciato da piccoli. Però io non ci badavo, convinto che poi la rivoluzione sarebbe finita, svanita dunque, mentre i film sarebbero rimasti. Non era una rivoluzione. Era una posa da rivoluzionari, aspetto che io ho percepito immediatamente.

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