• Abelardo e Eloisa – Le lettere “mi è sempre stato più dolce il nome di amica e quello di amante o prostituta”

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    di Gian Carlo Zanon

    «Tutti si precipitavano a vederti quando apparivi in pubblico e le donne ti seguivano con gli occhi voltando indietro il capo quando ti incrociavano per la via […] Quale regina, quale donna potente non invidiava le mie gioie e il mio letto? Avevi due cose in particolare che ti rendevano subito caro: la grazia della tua poesia e il fascino delle tue canzoni, talenti davvero rari per un filosofo quale tu eri […] Eri giovane, bello, intelligente»

    Lettera di Eloisa ad Abelardo

    Nel quinto canto dell’Inferno – il più potente della Divina Commedia dantesca – Francesca da Rimini, narra al poeta la propria passione d’amore, finita tragicamente. Il racconto della donna è così drammatico, che Dante perde i sensi e si accascia: «io venni men così com’io morisse. E caddi come corpo morto cade».

    È una donna quindi che racconta il desiderio per l’altro da sé. La passione amorosa per Paolo, il suo amante, non si estingue né con la morte, né con le assurde condanne del contrappasso : «Amor, c’ha nullo amato amar perdona/ mi prese per costui piacer sì forte,/ che, come vedi, ancor non m’abbandona». Francesca si innamora di chi non si può innamorare perché fratello del marito; ella, ci dicono, esce dalla ragionevolezza… ed è la sua voce femminile che ci fa trasalire mentre ci racconta la storia della passione travolgente per l’amante, rivendicandone la forza e la grandezza, mentre Paolo è piangente e muto.

    Lo stesso succede nel rapporto epistolario più famoso della storia: le lettere che Eloisa e Abelardo si scambiarono. In quelle lettere tra il grande filosofo medioevale e colei che fu sua allieva, e poi amante e moglie, sono presenti entrambe le voci dei due protagonisti; ma mentre Abelardo è così “ragionevolmente pentito”, fino a diventare anaffettivo, Eloisa, come Francesca, rivendica la propria passione amorosa senza alcun rimorso. Semmai è il rimpianto per la felicità perduta che la sgomenta. All’ex amante che le chiede di pentirsi ella risponde: «È facile accusare se stessi confessando i peccati, o anche punire il corpo, in una soddisfazione tutta esteriore. Ma è difficilissimo strappare dall’animo il dolce desiderio del piacere. (…) Quei piaceri ai quali entrambi ci dedicammo totalmente quando eravamo amanti furono tanto dolci per me che non posso dispiacermene, né essi possono svanire dalla mia memoria nemmeno un poco.»

    Teniamo presente che queste parole furono scritte nella prima metà del XII secolo.

    Se la passione di Abelardo era solo erotismo, per Eloisa era amore pieno e dedizione assoluta: «Al mio signore, anzi padre, al mio sposo anzi fratello, la sua serva o piuttosto figlia, la sua sposa o meglio sorella… ti ho amato di un amore sconfinato… mi è sempre stato più dolce il nome di amica e quello di amante o prostituta, il mio cuore non era con me ma con te, Abelardo con te».

    E ancora: «Il piacere che ho conosciuto è stato così forte che non posso odiarlo». Scrive Eloisa al suo ex amante Abelardo. E a lui che fu anche il suo maestro pone questa lacerante domanda: «Perché la sublimazione si dovrebbe raggiungere soltanto annichilendo i sensi e il sentimento d’amore che si prova verso un’altra persona?» Ma Abelardo, ormai non più uomo, è irremovibile: da abate, qual è, le ricorda severamente il suo ruolo di badessa, invitandola a dedicarsi allo studio e alla preghiera. Eloisa questa volta obbedisce e, nella sua terza e ultima lettera dal Paràclito, il convento in cui si era ritirata, promette che non parlerà mai più del passato e dei propri sentimenti ad Abelardo.

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    Abelardo ormai ha poco da opporre a questa donna così decisa a non permettere che la propria identità femminile venga intorbidita: «…l’innocenza delle mie intenzioni impedisce che il mio animo sia macchiato…»

    Quest’uomo che fu un grande filosofo, offeso nel fisico – egli viene fatto castrare per vendetta da Fulberto tutore di Eloisa – ha perduto forza e onestà intellettuale, ed il suo dire ormai non è altro che un triste balbettio mistico. Non è un caso che solo dopo la perdita del contatto con Eloisa, che avviene però prima del dramma, egli si dedichi interamente alla teologia.

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     Particolare dell mausoleo ove giaccino i resti di Eloisa e di Abelardo

    Viene da seguire un pensiero: se è apparentemente vero che la lirica, la poesia che parla di sé, del proprio io, inizia con il eimì d’egò, cioè con “’io sono” di Archiloco, è certamente vero che sono soprattutto le donne, in un percorso letterario che dura da tremila anni, ad esprimere verbalmente la passione ed il loro “sentire” con le immagini del corpo. In una bellissima poesia, che fu copiata integralmente da Catullo, Saffo, la divina poetessa , esprime la sua gelosia: «oh, a me il cuore si spaura. (…) la lingua è rotta; un brivido / di fuoco è nelle carni, / sottile; (…) Cola sudore, un tremito mi preda.».

    Come vediamo non sono concetti che vengono utilizzati per raccontare i moti della psiche ma immagini corporee che sono la rappresentazione di quei movimenti interni. Eloisa: «Da qualsiasi parte mi volga, quelle voluttà si mostrano sempre al mio sguardo, e anche al mio desiderio. (…) Persino durante la solennità della messa, quando la preghiera deve essere più pura, le immagini oscene di quelle voluttà si impossessano della mia infelicissima anima a tal punto che penso più ai piaceri sensuali che alla preghiera…».

    Saffo, Eloisa, Francesca, Joyce Mansur e altre migliaia di donne conosciute e sconosciute nel corso della storia della rappresentazione letteraria, hanno pensato, si sono espresse, hanno scritto del loro desiderio e del loro odio, utilizzando un linguaggio capace di mostrare le invisibili sensazioni corporee. E lo hanno potuto fare perché sicure della propria identità intellettuale fusa con il proprio corpo.

    Gli uomini…bah, gli uomini quasi sempre, troppo spesso, hanno preferito la filosofia. E credendo di fare filosofia, hanno, in realtà, sempre scritto di teologia. Potrei dire, andando incontro alla ire degli studiosi di storia della filosofia, che l’unico pensiero filosofico che possa vestirsi di tale nome è quello dei filosofi della natura, vale a dire gli scienziati ante‘litteram: i primi presocratici, Talete, Anassimene, Anassimandro, Eraclito, Lucrezio, e anche, naturalmente, Giordano Bruno. Questi poeti della realtà, come scrisse Hölderlin, nella tragedia La morte di Empedocle, hanno cercato l’archè, il principio delle cose e tentato per tutta la vita di svelare gli enigmi dell’esistente visibile ed invisibile: «E apertamente dedicai il cuore alla terra grave e sofferente, e spesso, nella notte sacra, promisi d’ amarla fedelmente fino alla morte, senza paura, col suo greve carico di fatalità, e di non spregiare alcuno dei suoi enigmi».

    Anche Abelardo, finché ebbe accanto a sé Eloisa fu fedele alla vera ricerca filosofica nonostante l’opprimente cappa religiosa del XII secolo, ma, perduta per sempre l’immagine femminile, si perse nelle sabbie mobili dell’alienazione religiosa e i suoi enigmi ebbero una sola risposta…Dio.

    20 maggio 2005

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