• Riverberi – Francesca Gentili – “Supposizioni errate”

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     “Senti, ma tu che hai da fare adesso?” devi avermelo chiesto a un tratto, sennò non si spiegherebbe il seguito della nostra mattinata.

    “Veramente niente…io vengo da fuori, ma tanto devo restare a Roma, perché ho un impegno alle quattro, quindi fino a quell’ora sono senza fare niente.”

    “Ma allora andiamocene da qui…andiamo a fare una passeggiata, almeno fino all’ora di pranzo ci teniamo compagnia, poi io devo andare.”

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    Accettai senza esitare e devo dire che in quel momento non mi sembrò vero, forse perché almeno, così, non sarei stata sola.

    Accettai, inoltre, nella sciocca convinzione che tu fossi venuto a piedi o con i mezzi all’università e il mio “si” all’idea di passare la mattinata insieme sarebbe costato tutt’al più un’altra lunga serie di passi infilati l’uno dietro l’altro, insieme.

    Supposizioni errate.

    Tu non eri a piedi, eri venuto con la tua macchina ed io non ero mai salita in auto con uno sconosciuto!

    A un tratto mi sentii una stupida ad averti detto di si.

    Come avevo fatto a non capirlo?

    A un tratto mi sembrò evidente.

    Uno che parla in continuazione, uno che vuole avere con fretta qualsiasi cosa, anche gli stupidi oggetti esposti alle bancarelle, quelli che io non degnavo di uno sguardo; uno che poi smette di volere quegli stessi oggetti  con altrettanta fretta, che si concede di disapprovare o approvare qualsiasi cosa sfacciatamente, uno che studia ma “non gliene frega”, che tenta l’esame quattro volte senza avere neppure una colica, uno che ci aveva provato subito con me ma chissà se veramente gliene importava anche di questo, uno che fa tutto così, di getto, senza porsi il minimo problema…beh uno così si muove con la sua auto.

    Anche se si tratta di andare a dare un esame.

    Perché non c’ero arrivata subito?

    Ero io che andavo a piedi!

    Io, che non ero sicura di volere una cosa se prima non l’avevo concepita e pensata in ottocento forme diverse, io che una volta convinta di ciò che volevo non l’avrei mai confessato apertamente.

    Io, che leggevo l’oroscopo con dovizia di particolari e mi ricordavo sempre di raccogliere quel quotidiano gratuito dal cestino di distribuzione; io che avevo i pantaloni appositi per dare l’esame, gli stessi da anni. Che avevo i capelli lisci e simmetrici. Che dovevo preparare tutti a un mio possibile fallimento, controllare gli eventi, mettere tutto in chiaro sempre, anche quando non poteva esserlo. Che non dovevo creare mai problemi, né parlare troppo. E se poi trovavo traffico? E se poi mi perdevo? E se tamponavo qualcuno e gli rovinavo la giornata?

    Ero io che andavo a piedi.

    Si, ero io.

    E soprattutto ero io che non salivo mai in auto con gli sconosciuti. Ci stavo giusto pensando di nuovo mentre posavo sotto il cruscotto la mia borsa nera, la solita, vecchia sacca rotta, di ogni esame, appesantita dal libro di macroeconomia, perfettamente a mio agio mentre tu mettevi in moto, neanche ci fossi salita altre mille volte, sulla tua stupida auto.

    Ma che mi importava poi di quanto fosse rovinata la mia borsa? Tanto eri solo il classico bullo dall’accento romano ed io non ci tenevo proprio a fare bella figura con te, volevo solo rilassarmi e lasciare che il tempo passasse!

    Tanto di sicuro non mi avresti potuto fare del male, c’era troppa gente in giro e poi per quel giorno già mi era andata abbastanza storta.

    Tu non ti eri portato nemmeno i libri per ripassare. Tu eri uno di quelli che non si portano i libri.

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