• RIBELLIONE E POTERE IN SCENA A SIRACUSA FINO AL 30 GIUGNO – Video

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    di Rita De Petra

    Il pubblico si fa attento, tace. Entrano in scena due personaggi dagli abiti sgargianti, uno con braghe rosso porpora e lustrini, Pistetero (Mario Avogadro), l’altro ha per vestito un paniere di vimini privo di drappeggi e copertura, Evelpide (Sergio Mancinelli). Già sorpresi dall’invasione di uccelli, sciamati dall’alto ponteggio che chiude le estremità della cavea, cinguettanti e dispettosi alle spalle degli spettatori, accorsi numerosi alla prima degli “Uccelli” di Aristofane, in scena questa sera a Siracusa.

    Il mio biglietto è stato il primo ad essere staccato, ho visto il teatro totalmente vuoto mentre il sole calante inondava tutte le scalinate, ora lambite dalle prime ombre, stracolmo di una folla di giovani e di autorità. Ho gustato tutto il piacere che la dolcezza di questo luogo è capace ogni volta di darmi, nel trovarlo vuoto e nel vederlo riempirsi fino ad un secondo dall’inizio.

    C’è attesa per la novità di questa stagione teatrale, il lunedì Aristofane, gli “Uccelli”, commedia di grande attualità, quasi scontato il riferimento all’antipolitica, ai grillini ed al loro leader ben fornito di riccioli sparsi e barbone come Pistetero, ma poco sfruttato.

    Sono le scurrilità aristofanesche a strappare risate al pubblico. Siamo costretti a pensare che ci voleva maggior coraggio da parte della regista (Roberta Torre) per “beccare” i politici ed il malcostume di oggi, non basta una battuta sulle badanti a caccia di polli da sposare o su red bull che «…mette le ali!”»  ad interpretare in termini moderni Aristofane.

    Guardiamo tutti ammirati i bellissimi costumi degli uccelli, le parrucche settecentesche, le musiche, tutto sembra rubato a Papagheno e Papaghena, di grande effetto il recitativo gorgheggiato, straordinario l’insieme visivo e sonoro. Avremmo gradito un audio migliore, ma non si può avere tutto. Lo spettacolo procede a gonfie vele anche per il bel vento che si è levato e che rovescia i rossi alberi mobili, case degli uccelli. Bravi gli attori che danno vita, con grande disinvoltura, ad un balletto fuoriprogramma e li recuperano.

     

    Ma di fuoriprogramma sembra che ce ne sia stato anche un altro. All’ingresso ho colto la battuta di una maschera che diceva ad una compagna: «Se passa il sindaco, mi raccomando, salutalo!» pare infatti che al sindaco di Siracusa, non riconosciuto, sia stato chiesto di esibire il biglietto con grande scandalo da parte del primo cittadino.

    Intanto i nostri due eroi, lasciata Atene a causa dei processi, in cerca di un mondo migliore, di una città in cui realizzare i propri sogni, riescono a scovare l’Upupa, una volta Tereo, e lo convincono a portare il loro messaggio agli uccelli, prevenuti verso gli uomini-cacciatori.

    Pistetero parla agli uccelli ricordando il passato glorioso in cui erano signori del mondo, potere usurpato dagli dei ma che possono riconquistare fondando una città posta tra cielo e terra. Da qui possono impedire alleanze e comunicazioni tra uomini e divinità.

    Cucubilandia, mal resa con “La città dei sogni”, realizzata in un battibaleno dal lavoro degli uccelli, sarà governata da una nuova etica. Crolleranno tutti i tabù dando la stura a tutte le voglie. Ma la città non è ancora completata che già si riempie dei soliti profittatori: poeti, venditori di leggi, venditori di oracoli, sicofanti ed ispettori, tutti da cacciare a calci in culo, come fa Pistetero.

    Tutti gli uomini ora vogliono diventare uccelli, avere le ali ed abitare Nubicuculia. Tutto è come prima, Pistetero vuole il potere, quello più grande ed impone agli dei le nozze con Basileia, detentrice del fulmine. Nozze celebrate con un bel banchetto a base di uccelli. Arrostiti allo spiedo tutti coloro che si oppongono alla realizzazione di questo progetto agghiacciante . il potere non cambia, si rigenera. Aristofane ci lascia l’amaro in bocca, il ghigno dietro la risata. L’ Utopia non esiste. Gli sciocchi creduloni ci rimetteranno le penne finendo arrosto in salsa piccante.

     

    SIRACUSA 15 Maggio 2012

    Dopo l’introduzione ironico – sarcastica al tema di questa stagione teatrale, tutta centrata sul potere e sulla possibilità di una ribellione, questa sera il piatto forte, il “Prometeo”di Eschilo, regia di Claudio Longhi.

    Il titano (Massimo Popolizio) viene trascinato in scena da Kratos e Bia, servi di Zeus e Vulcano, Gaetano Bruni in un bellissimo costume tutto nero- fuliggine come braccia e viso. Vulcano mostra pietà per il prigioniero ed esegue la condanna a malincuore, duramente sollecitato da Kratos (Massimo Nicolini).

    Prometeo viene incatenato ad un’alta gabbia mobile, in modo da mostrarsi al pubblico o rivolgersi alle Oceanine che scendono numerose dal monte, attirate dal dolore che, il titano, rimasto solo, può finalmente esprimere. La scena della tortura del dio, a cui abbiamo assistito, è una delle più cruente di tutto il teatro classico, che non amava mostrare la violenza, e viene solo in parte stemperata dal coro tutto femminile delle figlie di Oceano, che piangono questa sorte destinata a durare per sempre. Una condanna senza appello.

    Bellissimi i costumi del coro, un copricapo con intarsi azzurri ed una veste beige con una balza più scura, su una calzamaglia color carne. Le lacrime versate sono tutta l’acqua della terra. Oceano in persona (Mauro Avogadro) interviene in soccorso di questo suo nipote. Vuole perorare la sua causa con Zeus, ma prima Prometeo deve chinare la fronte dinanzi a chi detiene il potere. Ma si può chiedere a chi ha agito con la convinzione profonda di essere nel giusto di rinnegare tutta la propria vita? Prometeo è stato condannato da Zeus per il furto del fuoco agli dei per donarlo agli uomini, con la tecnica e la scienza, dando inizio ad un processo di sviluppo e progresso umano. Tra atroci lamenti, il prigioniero racconta alle figlie di Oceano le sue disavventure e come ha partecipato alla lotta per il potere tra Zeus ed i suoi fratelli titani, schierandosi, seppure alla fine, col signore dell’Olimpo, che ora lo punisce, privo di ogni riconoscenza: «è una peste connaturata al potere, non avere fiducia degli amici.» questo l’amaro commento teso ad universalizzare un comportamento individuale, questo è l’insegnamento che il poeta ci suggerisce dalla profondità del tempo. Prometeo, colui che legge nel futuro, non si piegherà, questa è la sua hybris, la sua tracotanza, il trascendere ogni limite. Questo il motivo più profondo per cui il potere punisce coloro che non si chinano.

    L’irrompere in scene di Io (Gaia Aprea) aggiunge smarrimento e dolore alle sofferenze che la sola vista di Prometeo incatenato già procurava. In verità un dolore troppo urlato per commuovere fino in fondo quello di una Io, che porta sulle proprie carni, nei piedi ridotti a zoccoli ferini, il segno lacerante di una trasformazione, regressiva, “La vergine dalle corna di giovenca.”

    I due disgraziati hanno in comune l’origine delle proprie sofferenze, Zeus e la discendenza da Oceano insieme alla pietà per il dolore altrui. Io, al limite di ogni sopportazione agogna la fine della sua fuga attraverso terre inospitali, ma Prometeo le rivela il futuro, la spinge a tener cara la vita poiché dalla sua progenie nascerà il suo liberatore mentre Giove contrarrà nozze di cui dovrà pentirsi.» Nemmeno ad Ermes vorrà rivelare il nome della ninfa fatale a Zeus andando incontro ad una punizione ancor più violenta, sarà sprofondato nelle viscere del monte, insieme alle oceanine che non lo abbandoneranno.

     

    SIRACUSA 16 Maggio 2012

    Questa sera assisteremo di nuovo alla rivolta agli dei tiranni, detentori di un potere assoluto. Il ribelle non è più un dio ma un umano, Penteo re di Tebe (Massimo Nicolini). Davvero superba la messa in scena delle Baccanti per la regia di Antonio Calenda e che vede nella parte di Dioniso Maurizio Donadoni, in sostituzione di Giorgio Albertazzi, assente dalla scena per motivi di salute.

    Sorprendente, e per certi versi gratificante, Daniela Giovanetti nelle difficili vesti di Agave, la madre assassina del proprio figlio Penteo, colui che si era opposto all’introduzione del culto dionisiaco a Tebe, mentre il vecchio Tiresia ed il nonno Cadmo, indossate le vesti del thiasos, impugnato il tirso, si dirigono verso i monti per ballare in onore del dio.

    Spettacolare l’ingresso in scena di Dióniso su un enorme carro bardato di stoffe nere listate di rosso,  colori riproposti dalle vesti delle baccanti e dalle pettinature a treccine, a simulare serpentelli. La voce del dio ci giunge strana, come proveniente da distanze remote, parla dentro una maschera, dandoci l’emozione degli antichi spettatori. Maschera abbandonata per assumere le sembianze umane di un fedele seguace del dio, uno straniero che ci rivela l’obiettivo di Dióniso: «Cadmo ha trasmesso a Penteo onore e regno. Nato da una sua figlia, egli è in guerra contro di me, ed in me combatte i numi.» In verità è tornato per vendicare la madre Semele, figlia di Cadmo, vittima dell’incredulità delle sorelle sulle sue nozze divine, morta per la folgore di Zeus, che salva il feto che lei porta in grembo e lo nasconde in una sua coscia, per nasconderlo alla vendetta di Era, fino alla nascita. Dióniso nato due volte.

    Dio potente e vendicativo a cui si contrappone un Penteo molto giovane, razionalista ed illuminista, la cui ribellione non sempre appare ben motivata. Personaggio complesso ma debole, le ragioni della sua rivolta non sempre sono ben argomentate, egli traballa tra l’invidia per lo straniero, così fortunato con le donne, l’insistenza sui piaceri di Venere, vero scopo delle baccanti ed un cedimento troppo facile alla curiosità. Da sfrontato oppositore si trasforma ben presto in duttile preda del dio che lo induce ad indossare vesti femminee con le quali lo guiderà verso il suo terribile destino.

    In montagna la madre e le sorelle lo attendono per assalirlo e squartarlo, vedendo in lui un feroce nemico leonino. Povero Penteo, dimostrazione vivente dell’impotenza della ragione umana di fronte alla brutale forza di una divina follia. I greci ricorrevano a queste favole per darsi una spiegazione di azioni delittuose incomprensibili, che quotidianamente riempiono le pagine di cronaca dei nostri giornali. Come può una madre squartare il figlio che ha dato alla luce? Che ha cullato infante nelle proprie braccia? È stato certamente in preda ad un delirio, indotto da un dio, che ha potuto scambiare l’amato figlio in un nemico terribile da fare a pezzi.

    Eccezionale la resa di Agave, mai sopratono, sia nella esaltata follia sia nel dolore incontenibile del riconoscimento e del ritorno alla realtà condotto abilmente e con estrema dolcezza dal vecchio Cadmo, che ha recuperato le povere spoglie del nipote. «Orrore, orrore! Quando arriverete a capire cosa avete fatto , il dolore per voi sarà terribile! Ché se doveste rimanere sempre […] nello stesso stato nel quale vi trovate ora non sarà una fortuna, ma neanche crederete di essere infelici!»

    È questo il bivio che si pone dopo ogni atto di follia omicida. Essere folli per sempre o far ritorno ad una realtà terribile, forse insostenibile.

    Commovente fino alle lacrime l’abbraccio tra padre e figlia, una volta superato il delirio. Un abbraccio tutto umano che supera le barriere del patriarcato e delle sue leggi, supera tutta una cultura che vede nella donna più che un essere inferiore, un non essere dal momento che non è uomo.

    Cadmo: “Il dio era nel suo diritto con noi, ma è andato oltre il limite.” Di fronte ad una tale sciagura agli uomini rimane solo un lungo e penoso cammino per comprendere e se possibile riconquistare una dimensione di umanità, al dio l’abbandono e la solitudine.

     

    SIRACUSA 14 Maggio 2012

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