• Realtà parallele o molteplicità dello sguardo? – Mitos e logos

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    Mito e Logos

    Salvo Carfì

    Buongiorrrrrrrrrrrrrrno cari lettori,

     

    Come avete dormito? A cosa stavate pensando? Beh si fanno domande così tanto per sembrare civili … in realtà non mi interessa che giorno è oggi, né se c’è il sole o piove … e del vostro status  …non me ne può fregar di meno perché oggi si parla di cose importanti … allacciate le cinture di castità e tenetevi forte … oggi si parla di Mitos e Logos.

     

    Come certamente non saprete, nella culture precedenti alla nascita della filosofia, l’esigenza di spiegare i fenomeni naturali e la realtà umana era ‘soddisfatta’ dal mito.  Il mito è dunque originariamente uno strumento per conoscere, spiegare poeticamente, e quindi rappresentare, la realtà visibile ed invisibile. Strutturato in forma narrativa  usava come strumento di diffusione la voce dell’aedo che a volte si accompagnava strimpellando strumenti a corda, tipo cetra per intenderci.

     

    Per i greci arcaici i suoni articolati dell’aedo erano la verità  – l’aletheia ovvero ciò che non è più nascosto – . La narrazione dei miti però non è propriamente vissuta dagli ascoltatori né come una favola né come realtà. La parola mitica è parola assertoria: nessuno la contesta, nessuno la deve dimostrare (perché dimostrare una rappresentazione? ) Attraverso il mito l’aedo disegna un affresco di norme sociali, della loro evoluzione, della loro crisi e del modo in cui risolvere i nodi del divenire delle società. Società che andavano via via assumendo forme sempre più complesse: ad esempio il passaggio drammatico tra matriarcato e patriarcato veniva rappresentato nel mito di Oreste il matricida, ma anche in quello di Edipo Tyrannos.

    Ogni cambiamento sociale doveva essere filtrato nel setaccio della rappresentazione mitica. Le due realtà parallele ovvero pensiero e atto dovevano, dopo la crisi  dovuta ad un nuovo perturbante, tornare a coincidere pena il dissolvimento della società. Il mito raccontando il momento della crisi, del suo superamento, della nemesis che doveva riequilibrare il caos venutosi a creare, ed infine il ripristino del cosmos ovvero dell’ordine sociale.

    Ogni mito non nasce casualmente. Nelle sue forme più arcaiche ha la funzione di raccontare semplicemente il farsi della realtà; e quindi nascono le varie cosmogonie che raccontano le unioni tra Gea/madre terra ed Ouranos/cielo che generano i venti, i fiumi, le folgori, il tempo, i Giganti e i Titani, che a loro volta generano dei e semidei e così via.

     

     

    Man mano che la società si evolve, per agglutinamento delle tribù sparse nel territorio creando le nuove polis, sono necessarie altre forme etiche che presuppongono delle trasformazioni anche radicali di pensiero e quindi i miti vengono modificati , sostituiti, eliminati. La stessa cosa accade per gli dei e gli eroi che essendo creati dagli esseri umani a loro immagine e somiglianza, con qualche superpotere in più, si modificano anch’essi seguendo passo passo gli esseri umani nella loro mutazione antropologica.

    Se studiamo il mito di Oreste attraverso le intuizioni di Johann Jakob Bachofen e di Graves, ci rendiamo conto di come questa leggenda sancisca e legittimi i cambiamenti ideologici che avvengono drammaticamente nel passaggio tra matriarcato e patriarcato. Il mito da cui Eschilo trae il materiale epico per l’Orestea narra della sparizione definitiva del matriarcato e del consolidamento del patriarcato avvenuto intorno al 1200 a.C. a opera dei Dori che invasero l’Attica e il Peloponneso. Il mito rappresenta l’assassinio della madre da parte del figlio maschio, la sua crisi per i sensi di colpa, e la sua assoluzione nel processo da parte di Apollo. Con questo mito che diventa etica e legge che assolve il matricidio, quando questo avviene per difendere i valori paterni, la società si trasforma: diviene più razionale e sorda alle istanze umane. Con l’uccisione della madre, il primo anno di vita, con il suo contenuto di immagini e suoni che davano spessore e significato alla realtà, viene annullato, sacrificato in nome delle leggi patriarcali.

     

     

    L’eroe, divenuto anaffettivo, indifferente, perde la sua immagine inconscia, non riesce a decifrare il reale, non può più conoscere. Il mondo si trasforma in Sfinge che fa intravedere solo verità parziali, oggettive. La parola, che si è ormai mutata in logos non contiene più il vero, è doppia, sibillina, ingannevole. La realtà si biforca, iniziano le due realtà parallele di cui stiamo parlando da tre settimane.

     

    Da quel momento ci saranno due realtà separate tra loro, legittimate poi dal sistema filosofico cristiano, la cosciente e l’inconscia. L’atto non seguirà più il pensiero, la fisiognomica del volto non esprimerà più l’intenzionalità nascosta nella mente. Achille l’eroe che non metteva filtri tra sentimento e azione si trasforma in Odisseo, “l’uomo dal polimorfo ingegno”, o meglio il furbo che supera gli ostacoli ingannando: ingannando il Ciclope, ingannando Circe, ingannando i Proci…ingannando se stesso quando lascia Calipso, colei che nasconde, colei che gli avrebbe dato l’immortalità di un sogno d’amore.

     

     

    Con la legittimazione del delitto di Clitennestra, da parte di Apollo e di Atena, si consuma un evento tragico dalla portata dirompente per il pensiero occidentale. Le Erinni, divinità ctonie, immagini femminili dai volti e dai corpi mostruosi a rappresentare  i sensi di colpa deturpate, vengono relegate nell’Erebo. Al loro posto vengono poste delle divinità pacificate, figure femminili “concilianti”, le Eumenidi.

     

     

    E così il mito che persuadeva profondamente perché poteva giungere nelle profondità psichiche di chi ascoltava affascinandolo con i suoi vincoli invisibili si trasforma in logos , la parola, il discorso razionale che spiega la realtà indicandola.

    Prima che ciò accadesse, prima che i presocratici iniziassero a corrompere la realtà spogliandola dagli dei/contenuti che davano ad essa spessore e senso, il mito era pervasivo. Non c’era nessuna scissione tra mito, ethos e legge non scritta che vietano l’incesto, il matricidio, che divengono senso comune; il mito narra rappresentando la realtà delle cose che esistono, visibili ed invisibili. La parola Eros evoca le immagini degli amplessi tra Zeus e le donne mortali,  di Afrodite e Ares,  di Odisseo e Calipso. La parola odio fa emergere l’immagine delle Mura di Troia, l’odio tra Achille e Agamennone; dalla  parola delusione e follia  sgorga la tragica figura di Aiace.  E così le parole imbevute nel mito dicevano dei moti invisibili  della psiche ed evocavano l’odio, l’amore, l’invidia ; e così il desiderio aveva un’immagine. Nel mito i cittadini delle polis trovavano conferma del loro sentire corporeo, dell’esistenza degli affetti, dell’essere del desiderio. Con il mito le passioni umane avevano un’immagine tangibile, si era certi dell’odio e dell’amore perché si riconoscevano, non era possibile ingannarsi.

    Gli dei e gli eroi, vivendo nei canti aedici, raccontavano della giustizia, dell’invidia e della bramosia, del desiderio e della speranza, dando così un’immagine alle passioni, alle pulsioni e agli affetti che invisibili animavano i corpi degli uomini. Anche quando, ammansiti dal logos-ragione, ritennero i contenuti etici del mito superati, i Greci non cessarono mai di riferirsi ad esso come ad un tesoro comune di cui doveva alimentarsi la propria cultura per rimanere viva.

     

    È con il mito che l’uomo arcaico greco dinamizza il proprio pensiero, la propria visione del mondo, attraverso i racconti aedici prima, e con la tragedia poi. La tragedia ed il mito danno alla koinè greca i valori etici a cui tutti devono fare riferimento. Ma non lo fa nei modi in cui lo farà in seguito la filosofia, vale a dire utilizzando il logos, ma attraverso la rappresentazione, che in modo inconscio insinua  immagini; immagini subliminali capaci di persuadere, immagine che divengono patrimonio interno dello spettatore . La tragedia , che non è altro che un codice culturale, utilizza il mito rielaborandolo o , addirittura cambiandolo radicalmente, per ricodificare continuamente l’ethos della società che si evolve elaborando idee e sentimenti fusi insieme.

    Nella Grecia arcaica era l’aedo, il cantore viandante che, narrando il mito, evocava nella mente degli spettatori gli dei, raccontava di divinità telluriche della prima generazione, di dei Upoctoni della seconda, ed infine degli dei Olimpici. L’aedo che raccontava i miti, vale a dire le storie di uomini ed eroi, inseriva nella trama del racconto gli dei che altro non erano che rappresentazioni dell’invisibile che agiva all’interno delle passioni umane; a volte, come nel caso di Afrodite ed Eros, gli dei erano le passioni stesse:  “sono stato catturato da Afrodite” equivaleva a confessare la propria passione per una donna.

    Inoltre l’aedo aveva un’altra importante funzione di cui non si parla mai: con la sua caratteristica di viandante egli dà una lingua comune ad una popolazione sparsa in centinaia di chilometri. Queste funzioni linguistiche ed etiche vengono raccontate da Vargas Llosa nel suo romanzo”El Ablador” dove un novello Omero, nelle foreste amazzoniche, raccontando i miti agli indios, cerca di modificare alcune usanze divenute ormai troppo crudeli per la realtà contingente degli indigeni che nel frattempo si era modificata.

    Poi gli uomini scoprirono il logos, e le realtà parallele dalle quali potevano entrare ed uscire senza problemi, e cominciarono i guai …

     

    Ma si è fatto tardi e del logos … forse… ve ne parlerò un’altra volta

     

    12 maggio 2012

     

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