• Omicidi estivi – lettera di M.me Sidonie Nádherny von Borutin ad Adriano Meis

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    Pubblichimo questa gradita lettera di M.me von Buretin al nostro redattore Adriano Meis ‘sparito’ da vari giorni nel canyon de Colca. Speriamo che lo ‘scomparso’ Meis abbia la cortesia e la capacità di rispondere alle domande inquiete contenute in questa brillante epistola.

    Il direttore, Emo Bertrandino

     

     

    Caro Meis,

     

    vedo che lei è in vacanza, il suo blog è fermo da un po’. La canicola, lo so, i giorni d’evasione in cui sulla stampa fa notizia soltanto il padrone che morde il cane. Ma proprio in questi giorni di spopolamento urbano e immobilità atmosferica, mi è parso di cogliere sui giornali – cari compagni della nostra solitudine – un movimento di cui voglio darle conto.

     

    «Scrivo male, a ammazzo benissimo. Che può succedere se si confonde la finzione letteraria col True crime», così titola Mariarosa Mancuso (Il Foglio, 22 agosto 2012, p. 1) l’articolo sul presunto assassino, un aspirante scrittore valsusino, arrestato per un romanzo che teneva nel cassetto e che comproverebbe l’omicidio di una donna nigeriana. La Mancuso nell’articolo fornisce esempi di scrittori True crime e assassini comprovati, il più famoso è Jack Unterweger, noto come Jack The Writer o Prigioniero Poeta. Nel 1974 uccise una ragazza strangolandola con il reggiseno, in carcere cominciò a scrivere, finse redenzione, fu graziato nel 1990 da una petizione firmata da alcuni intellettuali austriaci, tra cui il premio Nobel Elfriede Jelinek. Lo mandarono a Los Angeles come cronista di nera, e anche lì – guarda caso – tre prostitute furono strangolate con i rispettivi reggiseni.

     

    Il caso di cronaca piemontese investe quindi il campo letterario. L’articolo della Mancuso infatti focalizza sulla “finzione letteraria” che, «serve a rassicurare la consorte che non è lei la cornuta del romanzo. Serve a zittire i parenti che dicono “quella lì somiglia tutta a zia Luigina» (la domanda infastidiva particolarmente Edith Wharton, convinta che per fare una zia romanzesca ce ne volessero almeno dieci in carne e ossa). Serve a rassicurare la giovane amante, che nel romanzo appare bruna e non bionda per un ingenuo tentativo di depistaggio, sulla sua qualità di musa ispiratrice. Serve per discolparsi davanti all’ispettore di polizia che ti interroga in questura, dopo aver perquisito la casa trovandoci un manoscritto sospetto: «É vero, racconto un delitto, ma non per questo l’ho commesso davvero.» – Da noi, se appena si conosce il giovane autore – o la non tanto giovane autrice esordiente grazie al successo in un altro mestiere – si riescono ad appiccicare nomi e cognomi veri sui personaggi…

     

     

    A pennello, a ferragosto, è caduto un bel caso letterario – se non True crime, cultural-tedesco per eccellenza, dato il punto nevralgico “poesia-verità” che, alle sue basi, caratterizza e tormenta la letteratura tedesca moderna: il caporedattore della cultura della Sűddeutsche Zeitung ha ammesso di essere lui l’autore (pseudo-svedese) di un giallo in cui la vittima d’omicidio è un noto giornalista tedesco.

    Ma caso vuole, che questa vittima – “maciullata e in parte tritata” – assomigli proprio tanto al responsabile della cultura della Frankfurter Allgemeine Zeitung. Sarebbe – versione italiana, e che i tedeschi non si offendano – il capo della cultura de La Repubblica che scrive un giallo dove viene massacrato il collega del Corsera. Anche Tomas Steinfels (l’autore del giallo) si è difeso dicendo che nel personaggio della sua vittima sono confluiti «tratti caratteriali comuni a molti giornalisti culturali». Il settimanale Der Spiegel tuttavia, analizzando le 336 pagine del romanzo criminale, ha appurato per la vittima letteraria un unico “effetto snaturante” che rende improbabile l’ipotesi che l’autore-giornalista della Sűddeutsche abbia preso a modello il collega della Frankfurter: il personaggio-vittima è direttore di un foglio scandalistico, cosa che «neanche i nemici insinuerebbero nel caso di Schirrmacher della Frankfurter Allgemeine.» (Sebastian Hammelehle, spiegelonline, 16 agosto 2012).

     

    Per la stessa vicenda, un articolo de La Repubblica (15 agosto, p.42) ricorda che, «Non è la prima volta che nella cultura tedesca si consumano vendette letterarie di questo tipo. Anni fa Martin Walser scrisse un romanzo sulla “morte di un critico letterario” […], e la vittima evocava chiaramente il principe dei critici letterari, Marcel Reich-Ranicki, ebreo sopravvissuto ai nazisti nel Ghetto di Varsavia. E allora Schirrmacher punì Walser troncando ogni rapporto.»

    Non è la prima volta, potrei ad esempio ricordare anche il caso austriaco dei primi anni Venti, che ho vissuto da vicino, dello scrittore-critico Franz Werfel che, in Magische Trilogie Spiegelmensch (Trilogia magica. Uomo specchio) calunniò Karl Kraus, il grande giornalista ribelle de Die Fackel e mio caro amico, che a Werfel rispose con una satira sferzante nel pezzo di teatro Literatur oder Man wird doch da sehn (Letteratura ovvero Si vedrà).

    “Vendetta letteraria” dunque, e il giallo di Steinfels non è che l’ultima inscenata a livelli culturali i più alti (o bassi?) in ambito germanofono. Un genere che nel miglior caso produce satira aguzza, nel peggiore calunnia-gossip, che tuttavia, sempre, assicura incassi da best-seller.

    Ma una cosa sono le invidie al vetriolo tra letterati e altra sono gli assassini che raccontano (confessano?) crimini da loro commessi.

     

    Nel caso italiano della nigeriana e del presunto omicida aspirante scrittore piemontese, la prova-movente si troverebbe nel suo manoscritto La rosa e il leone dove si legge: «L’Africa per me significava Nigeria. E Nigeria significava le donne. E le donne significavano le prostitute, così chiamate da tutti ma per me rappresentavano l’Assoluto in Terra» (Alessandro Giuli, Il Foglio 22 agosto 2012, p.1); e anche: «La sua uccisione era l’unico modo per preservarne intatta la purezza» (Donato Carrisi, La Repubblica, 22 agosto 2012, p. 21.)

     

     

    Frase delirante questa, ma che, nelle dichiarazioni di certi pazzi omicidi, risuona paradossalmente “vera”: Breivik che dichiara di aver ammazzato i giovani a Utoya per salvare la Norvegia dai musulmani e dagli stranieri, Olindo e Rosa che volevano preservare pulizia e quiete nel condominio, gli inquisitori che volevano liberare l’anima delle streghe bruciandole (questi ultimi, non so se sono da considerare pazzi).

     

    La Mancuso (e noi con lei) si augura «prove più solide di un romanzaccio» per la condanna del presunto killer che, secondo lei, «scrive maluccio ma non peggio di tanti colleghi saliti nella classifica dei bestseller». Perché, in effetti, l’autore potrebbe anche essere dotato di talento, quant’ a intuire le motivazioni psicopatologiche profonde del suo personaggio, del quale sin qui sappiamo che non ha ucciso a coltellate la donna com’è successo nella realtà, ma l’avrebbe ‘soltanto’ strangolata. E annotiamo la differenza, tra uno Steinfels che ‘immagina’ il corpo maciullato del collega, e il piemontese che, se fosse colpevole, non avrebbe affatto immaginato di infierire sul corpo del personaggio-vittima.

    Negando l’autore de La rosa e il leone il delitto e in assenza di prove concrete oltre il manoscritto, su cos’altro vorranno basarsi gli inquirenti se non su di una perizia psichiatrica che – oramai ben sappiamo – per lo stesso soggetto (vedi Breivik), a secondo dello psichiatra consultato, può variare da “capace di intendere” a “normalmente pazzo come tutti” o a una diagnosi di schizofrenia.

    Se questa fosse la diagnosi, lo psichiatra, nel caso del piemontese, dovrà senz’altro essere dotato anche di sensibilità letteraria e svolgere un’accurata analisi del testo per provare che l’autore… non si sia inventato niente: che ci sia in lui assenza della qualità che fa la scrittura letteraria, la finzione frutto dell’immaginazione, dell’invenzione, della fantasia dell’autore.

     

     

    True crime e scrittori condannati a parte (anche Cesare Battisti è uno scrittore di gialli) e volendo scansare anche il cliché che sempre vuole l’artista pazzo, difficilmente si può credere che Dostoevskij abbia commesso il delitto di Raskolnikov, come non è certo indispensabile che l’attore che recita il ruolo dell’assassino, sia un vero assassino. Ma qual è la qualità creativa che rende possibile l’immaginazione del gesto omicida nella scrittura o l’agirlo sulla scena, senza aver compiuto tal gesto nella realtà? Immedesimazione? Straniamento? Sdoppiamento?

    Mettendoci d’accordo sul fatto che l’omicidio è gesto psicopatologico, può uno scrittore immaginarlo senza essere gravemente malato di mente? E ancora, qual è la differenza tra sognare un omicidio e immaginarlo in un romanzo?

    Su queste ultime domande, mi pare abbia risposto lo psichiatra Massimo Fagioli, che lei spesso cita, dicendo che quando un malato di mente riesce a sognare un omicidio, le probabilità che egli ammazzi davvero qualcuno, siano minime. E quanto alla differenza tra sogno e arte, nota oramai è anche la formulazione di Fagioli della “percezione delirante del poeta”, che si verifica per “immagini inconsce non oniriche”. Immaginazione e sogno avrebbero quindi la meglio sull’assassino che non sogna e non scrive. Ma sognare un delitto o metterlo su carta sono sufficienti per fare letteratura?

     

    Per i grandi attori sappiamo che la loro arte consiste proprio nella capacità – dimensione interiore temporale – di rendersi completamente dimentichi di loro stessi e del mondo circostante, per poi ritornare in sé, non appena cessano di animare il personaggio. Se fuori scena fa Jago, non è attore, ma un pazzo lucido. D’altronde, che gli artisti non siano tutti pazzi per natura, forse si evince proprio dalla capacità dei grandi attori, non tanto di calarsi nel ruolo, ma di riassumersi immediatamente la propria identità fuori scena: un pazzo che recita un pazzo, contraddice il principio dell’arte, che è finzione… del verosimile! Forse i grandi artisti, attori e scrittori, sono allora coloro che, similmente al medico, conoscono la patologia. E se per il medico non è indispensabile avere la tubercolosi per curarla, per l’attore e lo scrittore non è altrettanto indispensabile essere un omicida per rappresentarlo. E il critico, come il medico, dovrebbe essere in grado di saper riconoscere l’arte vera e rifiutare quella fasulla.

    Ma esiste un’arte fasulla? O non è l’arte piuttosto tale per essere autentica per assenza di falso? Vero e falso in arte starebbero dunque come il sano al malato in medicina. E essendo la letteratura un prodotto mentale, la diagnosi di falso è senz’altro una questione di medicina della mente. Una malattia non è curabile se non grazie al concetto di sanità che essa contraddice. E un opera letteraria non è valida, se non per la certezza di una verità – la bellezza? – che palesa e contraddice il finto, l’effimero e ciò che tanto volentieri si suole dire il male innato.

     

    La verità in arte, non è l’omicida, come non lo è in psichiatria e nella giurisdizione: la verità umana è il non-omicida. Ma proprio questa verità umana nel romanzo poliziesco, per il suo principio del morto ammazzato, è elusa. E quanto più spazio il genere va prendendo sulla scena letteraria tanto più la critica diventa anche una questione di diagnosi psichiatrica. Se nei grandi si riscontra una conoscenza delle patologie mentali, in essi c’è anche, se non la certezza, l’idea che la verità umana non è la patologia mentale (Shakespeare).

    Dostoevskij ci ha lasciato I demoni e Raskolnikov, ma anche L’idiota. La questione della letteratura forse diventa problematica, proprio quando essa a lungo è popolata unicamente da psicopatici e assassini – o, forse peggio, da calunniatori che si improvvisano scrittori.

     

     

     

    In letteratura il sangue è sempre fluito, e il giallo, forse proprio a partire da Raskolnikov, risulterà il genere letterario per eccellenza di questo scorcio storico, con sua buona ragion d’essere.

    Se Mariarosa Mancuso afferma che l’aspirante-scrittore accusato di omicidio non scrive peggio di molti colleghi premiati, ella allora punta il dito su una patologia letteraria attuale. E se un responsabile della cultura di uno dei più autorevoli giornali tedeschi si improvvisa scrittore giallo che fantastica il maciullamento di un collega, probabilmente anche lassù, quanto a cultura letteraria, qualcosa non funziona per il meglio.

    Ma allorquando psicotici, criminali e critici letterari tra i più rinomati riescono a praticare lo stesso genere letterario a pari livello, il vero malato forse è proprio la critica letteraria che permette l’appiattimento della letteratura ad un livello che, quanto a vendite, ha rivali unicamente nella Bibbia, nella pornografia e nei libri di dieta. O è colpa del solito pubblico ignorante, panem et circenses?

     

    La cura, nel caso della letteratura contemporanea, visto gli Steinfels, Walser, Werfel e chi per loro, forse è meglio lasciarla agli autori validi che ci sono e emergeranno. Talvolta ci vuole tempo, Kafka insegna.

    E da lettrice di gialli, non escludo affatto che uno scrittore di gialli, sovvertendone il principio, riesca a conferire al genere il quid della letteratura.

    A Mariarosa Mancuso va senz’altro il merito di aver messo il dito sul punto dolente: oltre l’autocelebrazione agita attraverso diffamazioni personali e l’esorcizzazione dei propri demoni, poco e male si inventa!

     

    Basti questo per tenerla aggiornato, caro Meis, che in questi giorni di caldo cane, la scena era riservata tutta a scrittori più o meno dilettanti, più o meno imbroglioni.

     

    La sua affezionata

    Sidonie Nádherny von Borutin

    25 agosto 2012

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