• «Mio unico amore nato dal mio unico odio»

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    di GianCarlo Zanon

    Eros e Psyché

    Se penso ad un’opera artistica che rappresenti il “cuore di tenebra” della cultura occidentale, mi viene in mente una statua dell’età di Diocleziano, I Tetrarchi. Stretti nella disperazione del potere che presuppone una dipendenza forzata, come la ragione occidentale e il cristianesimo, stanno stretti nello stesso abbraccio allucinato di chi li ha generati: anaffettività e alienazione religiosa. Questo connubio mostruoso rappresenta bene, l’astrazione, vale a dire la scissione tra mente e corpo;  e,  per il maschi della specie, la scissione tra mente e corpo rappresenta l’annullamento dell’immagine femminile. In questo annullamento, ragione e religione si alleano perché postulano la scissione non solo come naturale, ma come uno stato dell’animo assolutamente auspicabile.

    Per oltre tremila anni la cultura occidentale, curvata su se stessa per una oscura colpa, verbalizzata dai filosofi greci e cristallizzata nel dogma giudaico-cristiano del peccato originale, viene percorsa trasversalmente dal mito di Eros e Psychè. Intorno al 160 d. C. Apuleio incastona questa fabula milesia, sicuramente appartenente alla tradizione orientale, esattamente al centro della sua opera più conosciuta: Metamorfosi sulla Magia anche conosciuta come L’asino d’oro.

    L’immagine di una donna che, attraverso il rapporto con un uomo, realizza la propria identità sessuale e il topos degli amanti notturni che, pur vivendo la loro passione al di fuori e contro l’istituzione familiare, non muoiono, hanno, nella favola di Eros e Psychè, la loro nascita letteraria.

    Ricordiamo per sommi capi il mito:

    Eros figlio di Afrodite, e una donna, Psychè, si incontrano in modo notturno, senza mai vedersi, per mesi. Insorge la crisi della donna che, istigata dalle sorelle invidiose – prototipo delle streghe del Macbeth – vuole vedere con gli occhi del cosciente colui che sente col corpo, nel buio, come in un sogno, tutte le notti. Nell’atto di svelare l’immagine del divino amante lo ferisce – non volendo? – con l’olio bollente del lume. Eros fugge deluso, ferito nel corpo, offeso nell’orgoglio e solo dopo varie peripezie e prove di estremo coraggio, Psychè, potrà riavere il suo amante. In seguito, dal loro rapporto, nascerà una bambina: Voluttà.

    Dopo circa tremila e cinquecento anni, datiamo molto soggettivamente il mito al 1500 a. C., nel 1986, Marco Bellocchio, fa rinascere il mito. In questo film il regista piacentino dà nuovamente vita e forma artistica ad una splendida immagine femminile rappresentando il personaggio di Giulia nel film Il diavolo in corpo. Anche in questa creazione artistica una donna, Giulia, attraverso il rapporto con l’uomo e una crisi, come Psyché, realizza la propria identità femminile.

    Annullamento dell’immagine femminile di Psychè

    In questi secoli infinite rappresentazioni di amanti segreti, affollano libri,  teatri e cinematografi; migliaia di autori se ne servono per creare opere artistiche indimenticabili; il mito di Eros e Psychè percorre la storia letteraria occidentale attraverso centinaia di nuove rappresentazioni che attingono tutto o in parte dalla fabula ma – come fece notare lo psichiatra Massimo Fagioli in un incontro con Vincenzo Cerami, autore di uno dei racconti presente nell’opera La Bella e la Bestia, curata da Marina Warner – con un capovolgimento: è l’uomo in crisi di fronte alla donna.

    Se da un lato in letteratura viene seguita questa traccia, vale a dire un’immagine più o meno angelicata “salvatrice” della protagonista – passando dalla Beatrice dantesca per finire alla protagonista di Oblomov, di Ivan Goncarov, dall’altro vi è un’altra costante: i personaggi femminili, che al di fuori dalla ragione, e quindi dall’istituzione matrimoniale, provano a vivere il desiderio per l’essere umano diverso da sé, pagano sempre drammaticamente la loro scelta.

    La colpa cristiana del peccato originale incombe anche su una benché minima possibilità di desiderio. Pensandoci bene, chi ha creato immagini femminili letterarie è stato quasi sempre un uomo, quindi il peccato originale di questi autori è forse quello di aver perduto l’immagine femminile interna e quindi la possibilità di un rapporto evolutivo con l’essere umano diverso da sé.

    Religione e Ragione sono il movente per il quale la nostra cultura, anziché scegliere la favola di Eros e Psychè come esempio di ricerca di rapporto fra uomo e donna, decide per i miti di Edipo e di Oreste.

    Con l’Orestea viene legittimato il matricidio del figlio di Agamennone: vale a dire che si giustifica l’annullamento del primo anno di vita che è l’unica possibilità di realizzazione di rapporto con l’altro da sé e, con il concetto di “complesso edipico”,  si ratifica l’identificazione con il padre violento e assassino che esclude qualsiasi possibilità di realizzazione del rapporto uomo donna.

    Freud, novello alfiere della Ragione, sceglie l’Edipo incestuoso e parricida e ripropone l’identificazione col padre, vale a dire che costringe l’uomo alla coattività del patriarcato. La riproposizione del mito di Edipo, come unica realtà umana, condanna, ancora una volta, generazioni di esseri umani alla cecità, alla non conoscenza, a non comprendere il senso profondo del rapporto uomo donna.

    Una società fondata sul pater familias non poteva che fare questa scelta per ordinare agli uomini e alle donne di rinunciare al desiderio e alla conoscenza, visto che le passioni portano alla tragedia. Nella cultura occidentale pochi, finora, hanno compreso che se Edipo è un assassino incestuoso, Laio, il padre, è un pederasta colpevole del suicidio di Crisippo da lui violentato. È  anche un infanticida perché alla nascita del figlio tenta di ucciderlo; è un uomo violento che quando lo rincontra casualmente tenta di accecarlo con lo staffile a tre punte.

    Edipo neonato viene portato sul monte Citerone per essere ucciso

    Edipo in fondo uccide, per legittima difesa, uno sconosciuto che lo ferisce e, se è vero che si unisce alla madre, egli lo fa inconsapevolmente. La vera colpa di Edipo, forse, è quella di identificarsi con il padre ucciso prendendo il suo posto nell’alcova della madre/sposa Giocasta e sul trono di Tebe: lui che credeva di essere un fiero Tyrannos che si ribella e rompe la tradizione dinastica, si rivela in fondo un violento e banale Basileus che ripristina la legge del padre da lui ucciso.

    Lady Chatterley S lover-1982

    Per centinaia di anni gli artisti della parola, perduta l’immagine ideale di donna, hanno alienato il proprio fallimento, la loro impotenza, la loro impossibilità di conoscenza dell’altro da sé, in personaggi femminili che comunque vada, tranne pochissime eccezioni,  pensiamo a Lady Chatterly come una delle poche eroine salvate dalla furia misogina, perdono le loro caratteristiche femminili come Lady Macbeth, vengono strangolate come Desdemona, muoiono per un malinteso come Giulietta, si ammalano nella mente come Ofelia, muoiono di stenti come Manon Lescault o di malattia come Madame Bovary, vengono uccise da un Don José come Carmen o da Jack lo squartatore come la Lulù di Wedekind, si suicidano come Anna Karenina, e la loro colpa è sempre quella di aver scelto la passione e non la ragione.

    Ė come se per tremila anni gli uomini, annullando il diverso da sé cioè l’immagine femminile, rappresentassero poi i loro affetti depauperati con una loro “immagine femminile” senza le difese di una sufficente identità umana, per poi sopprimerla,  rappresentando così il loro fallimento e l’impossibilità di un rapporto profondo con la donna.

    Non è solo nel genere romanzo, derivante dall’epica come la tragedia, che la perdita dell’immagine femminile causa la perdita della speranza di una realizzazione con l’altro da sé, ma anche nella lirica: Rimbaud, Les riparties de Nina : «Col mio petto sul tuo petto,/ noi andremo, vuoi?/(…)Tu verrai, verrai; io ti amo!/Sarà bello, vedrai./Tu verrai, non è vero? e  poi …/Lei. – Ed il mio ufficio?»

    “Ed il mio ufficio?” In questa ultima strofa, apparentemente banale, si sente come un tonfo: ma che c’entra? Che c’entrano l’ufficio, le cose di tutti i giorni, la ragione? Le parole del rapporto con la sola realtà cosciente, emergono dalle labbra della donna a cui è stato ceduto il cuore che viene gelato. In questo modo viene descritta l’improvvisa la delusione che lacera il senso del rapporto fra uomo e donna e crea un’ennesima ferita. Apparente piccola. Ma mille piccole punture di vespa possono causare la morte.

    Interessante è notare come, in alcuni poeti, questa caduta ontologica si rifletta negativamente sull’immagine femminile che viene negata nella sua realtà umana e divenga così femme fatal amata e odiata; femmina e demonio “dagli occhi metallici” come in questa visione angosciante di Baudelaire; Je te donne ces vers: «… O tu, che come un’ombra dall’effimera orma, calpesti con piede leggero e sguardo sereno gli stupidi mortali che t’hanno giudicata amara, statua dagli occhi metallici, grande angelo dalla bronzea fronte.»

    Storia di un annullamento

    Si può provare a tracciare una brevissima storia sull’annullamento dell’immagine femminile nella letteratura attraversando tremila anni di storia, facendo sicuramente torto a quelle centinaia di autori che non potranno ovviamente apparire, come non si potrà accennare all’arte visiva che percorre una storia parallela. Sappiamo con certezza che letteratura e arte visiva si sono sempre scambiate, in un gioco di preziosi rimandi, le immagini femminili.

    Ma è il caso di fare prima una premessa: in questo lavoro si sta cercando di legare l’immagine femminile al movimento,  e  al divenire dell’uomo e della civiltà umana; si sta cercando di proporre una figura di donna che abbia identità tale da realizzare una propria sessualità, fondendo caratteristiche  fisiche e psichiche che appartengono esclusivamente, con buona pace di Simone de Beauvoir, al genere femminile.

    Ma come diceva Pablo Neruda è l’immagine femminile ciò che crea il movimento nella vita di un uomo.

    «Tu sei per la mia mente come il cibo per la vita.

    Come le piogge di primavera sono per la terra …»

    Gli uomini, annullando l’immagine femminile, per tremila anni, hanno inghiottito un cibo al quale mancava il sale della conoscenza. Ciò che hanno raccolto nelle terre inaridite d’occidente non era altro che grano contaminato dalla ragione patriarcale ed è servito solo a soddisfare i bisogni del corpo; questo striminzito raccolto non poteva servire neppure per realizzare una tenue speranza per il genere umano. Eliminando l’immagine femminile dallo sviluppo del pensiero occidentale la filosofia, vale a dire, lo strumento che avrebbe dovuto spiegare la realtà delle cose visibili ed invisibili, è rimasta monca, depauperando in questo modo la conoscenza.

    Nei secoli, poeti e romanzieri, hanno creato personaggi maschili che perdono la propria fusione originaria, ovvero la loro immagine interna femminile:  Amleto, che per un calcolo lucido della ragione scinde la mente dal corpo e il pensiero dall’azione, decide volontariamente di perdere l’immagine femminile interna e fa della sventurata Ofelia la proiezione della propria follia. Sembrerebbe che Shakespeare, almeno da ciò che si evince dalle sue opere, abbia intuito cosa significasse perdere la fusione tra mente e corpo: Amleto, come Agamennone che sacrifica alla ragion di stato Ifigenia, deve uccidere psichicamente Ofelia per disumanizzarsi e compiere la sua vendetta; Lady Macbeth  chiede alle forze del male di toglierli la sessualità: «Venite spiriti che presiedete ai pensieri di morte; cancellate il mio sesso,  colmatemi di crudeltà dalla corona ai piedi  (…) che nessun ipocrita istanza di umanità  scuota il mio disegno mortale».

    Dal modo in cui l’autore inglese rappresenta la donna si può intuire la sua ambivalenza, forse inconsapevole, sull’immagine femminile: da un lato riconosce un’identità alla donna, dall’altro ci dice che chi ha questa identità di donna, da sempre è estranea al pensiero maschile, deve soccombere.

    Nelle sue tragedie solo nel “Il mercante di Venezia”  – che però, come sappiamo, si pone a metà strada tra dramma e commedia – ridona alla donna la propria realtà umana: Il personaggio di Porzia contiene in sé sia un’immagine sessuata sia una decisa identità ben rappresentata nella maschera del giovane giudice che salva Antonio.

    Shakespeare, anche se ha l’indubbio merito di aver perlomeno ridato alla donna una concretezza d’immagine,  ha rappresentato tragicamente il fallimento, la pazzia e la morte dei suoi più famosi personaggi femminili: Lady Macbeth, Desdemona, Giulietta, Ofelia finiscono tutte o uccise o suicide.

    Il grande uomo di teatro inglese aveva in qualche modo compreso le dinamiche della follia. Nell’Otello il vile Iago porta alla follia il Moro il quale, molto prima di assassinare fisicamente la moglie, la distrugge dentro di sé annullando la sua immagine femminile. Perduta questa sua immagine interna Desdemona non è più percepita come quella di prima. Nel suo lucido delirio egli non pensa, egli crede che Desdemona lo tradisca. Al momento dell’assassinio non c’è furor , Otello la uccide quasi senza passionalità, non ci sono affetti di odio e di rabbia. Non ci possono essere dato che, al momento dell’omicidio,  l’immagine di Desdemona è già stata cancellata dalla sua psiche: egli uccide fisicamente colei ha già ucciso nella sua mente: l’immagine femminile. Il Moro, prima di morire, confesserà la sua follia e dirà alle genti in che modo fu generata.

    È esistita una “età dell’oro” nel rapporto uomo e donna?

    Sappiamo che sono esistite delle civiltà nelle quali la donna appariva al fianco dell’uomo e non era relegata come Penelope nei ginecei o nei luoghi della casa predisposti per le donne. L’universo femminile non era separato da quello maschile e la donna aveva, se non la supremazia del matriarcato, perlomeno la stessa voce e visibilità dell’uomo. Sappiamo che in queste civiltà la realizzazione della sessualità era fortemente diversa da quelle società dove veniva annichilita  o dalla ragione, che vedeva la passione come una malattia della mente, o dalle religioni monoteiste che ritenevano la sessualità, soprattutto se separata dal concepimento, un orribile peccato.

    Queste civiltà, dove le donne mantenevano una propria identità e libertà, venivano troppo spesso distrutte in modo feroce da chi vedeva queste “strane usanze”come un pericolo da estirpare. Queste civiltà sono: quella troiana, distrutta dai Micenei come raccontato nell’Iliade; la civiltà Etrusca soppressa e inglobata da Roma; polis come Sibari cancellata dalla ferocia dei Crotonesi. Infine, ma non ultima, la più infame e orrenda strage di esseri umani e cultura: l’eliminazione della civiltà occitanica e la distruzione delle città catare voluta con accanimento dal papa Innocenzo III.

    Le distruzioni di queste civiltà avevano in comune l’intenzione feroce di ridurle in modo tale che si perdesse la memoria dei luoghi e delle genti; questa damnatio memoriae, vale a dire l’annullamento del ricordo di queste luoghi, fu sempre agita per cancellare persino l’idea di una possibilità di emergenza di una immagine femminile che avrebbe addolcito e dato movimento alla storia degli esseri umani. Diciamo brevemente di Troia dove uomini , donne e bambini vennero uccisi o resi schiavi, la città distrutta e dimenticata; della civiltà etrusca, così ricca di femminile, fu annichilita e inglobata nella tradizione patriarcale romana; raccontiamo di Sibari famosa per la sua società libera e sessuata, talmente odiata dagli austeri Crotonesi i quali, in un delirio di reinfetazione, non soddisfatti di averla vinta e distrutta, deviarono il corso del fiume Crati affinché venisse sommersa per sempre.

    Narrando dell’annullamento di queste culture antiche necessariamente la storia si mescola al mito che, se dà un lato dà vigore e senso agli accadimenti, ovviamente ne stempera la verità vera che dovrebbe essere studiata con un minimo di obbiettività. Questo non è avvenuto per la storia delle città occitaniche di religione catara, sulle quali si potrebbe fare una ricerca più obbiettivamente storica sempre partendo dalla soggettività del nostro sguardo e tenendo presente la nostra chiave di ricerca: l’immagine femminile.

    Tornando di nuovo alla storia della letteratura, della letteratura tutta al maschile che narra la tragedia del rapporto uomo-donna si trova un dramma umano; e questo dramma ha un nome: scissione. Scissione tra mente e corpo, scissione che porta all’annichilimento dell’irrazionale e, per i maschi della specie, l’irrazionale è il diverso, ovvero l’immagine femminile. Nel mondo della ragione platonica la passione viene diagnosticata come male della psiche: giocando con le parole si può dire che, per il mondo occidentale, la passione è patogena ed è malattia perché non è ragione e tutto ciò che non è ragione porta alla pazzia e alla morte.

    Ė una storia di morte e follia perché nella civiltà fondata sulla ragione, che elimina ciò che ragione non è, l’invisibile quando diviene visibile è distruttivo come nel mito di Orfeo e Euridice o quantomeno ferisce come nella fabula  raccontata da Apuleio. Ed è sempre: «Una storia di Piramo e Tisbe, di more bianche che diventano nere per il sangue di amanti ingannati l’uno dall’altro. Una storia di Amore e Psiche, di buio che protegge l’amore, di lume acceso che fa sparire l’amore. Di conoscenza e di sesso che non riescono a stare insieme».(Massimo  Fagioli)

    Per attraversare la letteratura occidentale si deve necessariamente partire dalla tragedia greca che si appropria del mito e lo traduce in metrica giambica per essere  rappresentato nei teatri delle polis. I grandi tragediografi greci erano anch’essi dei grandi misogini: per Sofocle le donne sono esseri inferiori che subiscono supinamente il destino come Giocasta la quale non si ribella al marito Laio che tenta di uccidere suo figlio appena nato. La moglie–madre di Edipo non si ribella all’incesto con il figlio-sposo, non si ribella mai, anzi tenta di nascondere la tragica verità fino all’ultimo istante. Per Sofocle le donne devono morire come Antigone, la fanciulla di Tebe con lo “sguardo di Edipo negli occhi”. Antigone evocata sulla scena e poi distrutta per ammonire chi osa ribellarsi alle leggi dei tiranni.

    Anche Euripide non scherzava: anticipando il giudizio di Platone sulla passione, rappresenta la maga/strega Medea che uccide i propri figli, perché la “povera pazza” è incapace di accettare una “ragionevole” separazione da un uomo, un “eroe” che, dopo averla usata per la sua gloria, la abbandona. Poi crea un altro personaggio, un’altra donna disperata, Fedra, incapace di resistere al desiderio, instillatogli da Afrodite che aveva offeso; offesa che la porterà a distruggere se stessa e il figliastro Ippolito.

    Come vediamo i grandi tragediografi evocano dal mito personaggi al femminile che incarnano la non adesione alla ragione: donne possedute da desideri e affetti ai quali non riescono ad opporvisi, non riescono a diventare indifferenti come Agamennone il quale, pur di divenire il capo indiscusso degli Achei, uccide Ifigenia , la figlia, la fanciulla che forse rappresentava l’ultima immagine interna umana che gli restava; morta lei egli non è più umano e può uccidere, violentare, distruggere. Ed è quello che farà a Troia.

    Ma la tragedia che più incarna l’odio per il femminile è l’Orestea di Eschilo: Oreste uccide la madre, Clitennestra, colei che lo ha generato e allattato. Questo crimine è la tragedia del mondo della ragione fondato sull’annullamento dell’irrazionale. Con l’uccisione della madre, il primo anno di vita, con il suo contenuto di immagini e suoni che danno spessore e significato alla realtà, viene annullato, sacrificato, con il bene placido di Apollo, il dio della ragionevolezza, in nome delle leggi patriarcali.

    Con la legittimazione del delitto di Clitennestra, da parte di Apollo e di Atena, si consuma un evento tragico dalla portata dirompente per il pensiero occidentale. Le Erinni, divinità ctonie guardiane delle leggi umane non scritte, e personificazioni del senso di colpa che perseguitavano il matricida Oreste,  vengono relegate nell’Erebo. Al loro posto vengono poste delle divinità pacificate, figure femminili “concilianti”, le Eumenidi. E così la tragedia greca liquida le immagini femminili “normalizzandole” e legittimando persino il matricidio come fatto normale che non viene neppure punito.

    Dovremo attendere 2400 anni per vedere apparire un Eroe con un’immagine femminile incontaminata, che non uccide violentemente la madre come Oreste, Amleto e Ale dei Pugni in tasca di Bellocchio, ma si separa da essa senza perdere la memoria dei primi mesi di vita, quando l’odio e l’amore erano così certi da non potersi sbagliare sul senso del sentire: «Ho ucciso mia madre per stare con te» dice il protagonista del Sogno della farfalla creato nella sceneggiatura di Massimo Fagioli divenuto poi film sempre del regista piacentino. E “l’uccisione della madre”, questa volta, è solo una separazione psichica che permette di realizzare profondamente la propria immagine interna.

    Donna: per la religione un vaso di Pandora

    «Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia.»

    Prima lettera a Timoteo, 2:12–15, di Paolo di Tarso, noto anche come San Paolo

    Ora prima di fare un salto di molti secoli e giungere ai canti dei trobadori delle corti provenzali, dobbiamo dire per quale motivo l’immagine femminile, già lesa dalla cultura patriarcale greca e romana, venga annullata, nelle sue caratteristiche di femminilità e sessualità, dal sistema filosofico giudaico cristiano.

    Per l’ebraismo e per il cristianesimo la donna è la fonte del male assoluto. Senza Eva, “avida di conoscenza”, gli esseri umani non conoscerebbero né la sofferenza né la morte. La donna dovrà partorire nel dolore per espiare il suo peccato e i suoi figli dovranno essere mondati dai riti post nascita. In quest’ottica delirante, della religione giudaico-cristiana, nessuna  immagine femminile degna di questo nome può esistere. Quindi l’ideale femminile non può essere che quello della Madonna la quale, come succede alle ninfe e alle mortali sedotte da Zeus, trasformatosi in fiume o in pioggia d’oro, rimane gravida senza essersi unita a nessun mortale. Per più di mille anni, o forse sarebbe meglio dire per duemila anni, nella cultura d’occidente, l’ideale femminile è una donna asessuata senza desideri che non siano rivolti verso il metafisico.

    E questo è un crimine contro l’immagine femminile sessuata, il crimine più invisibile del cristianesimo.

    La crociata contro la sessualità

    La prima crociata della storia contro “l’eresia catara” è un altro crimine reso quasi invisibile dalla storiografia ufficiale. Questa prima quasi sconosciuta crociata, voluta con forza, da papa Innocenzo III nei primi anni del milleduecento, mise a ferro e a fuoco tutta la Francia meridionale in cui morirono centinaia di migliaia di uomini, donne, e bambini; una crociata in cui castelli e città della Linguadoca vennero distrutti; una crociata in cui una delle lingue più musicali del mondo occidentale, la lingua occitanica,  venne quasi totalmente annichilita.

    Sappiamo quanto può essere pericoloso far emergere l’irrazionale in determinati periodi storici. Nei primi anni del XII secolo, nelle corti catare della Francia meridionale, l’immagine femminile era riapparsa. Le donne apparivano al fianco degli uomini e venivano cantate dai poeti, dopo circa millecinquecento anni di storia patriarcale; tanto era passato dalla distruzione voluta da Roma delle culture degli Etruschi e dei Fenici, le ultime civiltà del mediterraneo in cui  la donna non veniva relegata nel gineceo o venerata solo come matrona come nelle società greco-romana.

    La poesia provenzale trobadorica cantò l’immagine femminile dando vita, in seguito, ai canti d’amore della scuola siciliana, dove, forse per la prima volta, in una lingua proto-volgare siciliana, il poeta Iacopo da Lentini  scrisse di una donna: “In cor par ch’io vi porti”. La poesia siciliana delle corti di Federico II, nonostante anatemi e scomuniche, avrebbe influenzato in seguito il Dolce stil novo.

    Questo fenomeno che appare nel XII secolo nelle corti catare è unico nel suo genere : accanto alla Chanson de geste viene alla luce la poesia provenzale dei trobadori che canta il rapporto uomo donna. Ma la crociata anti-catara travolse e distrusse con ferocia le città degli eretici Albigesi. La civiltà provenzale che aveva dato vita al canto d’amore cortese, fu annientata, e, forse, la sua unica colpa fu quella di tentare un pensiero che pensasse all’atto sessuale separato dal concepimento.

    Ma un’altra dinamica psichica prende corpo in modo virulento intorno dalla seconda metà del ‘200: l’ambivalenza nella percezione del femminile. Sappiamo che la corte itinerante di Federico II di Svevia portò i canti sull’”altra metà del cielo” nelle corti e nelle città italiane.

    Da questo incontro e dagli echi che erano arrivati dalla Provenza nasce il Dolce stil novo. Questo movimento poetico se da un lato fa emergere l’immagine femminile, dall’altro la sublima, la altera divinizzandola, rendendola inaccessibile al rapporto con l’altro sesso, escludendo così un percorso di conoscenza, in quanto questo essere umano diverso è definito inconoscibile. Per Cavalcanti, che pur supera Dante per quanto riguarda la percezione del femminile, l’amore per la donna è ambivalente:.“Voi che per gli occhi mi passaste ‘l core/ e destaste la mente che dormia,/ guardate a l’angosciosa vita mia,/ che sospirando la distrugge Amore.”.

    La pur minima possibilità di conoscenza dell’altro diverso da sé per i cantori del XIII secolo era causa di angoscia di distruzione, in quanto destrutturava  le loro pseudo certezze metafisiche. Ma, forse, non ebbero l’opportunità di lasciarsi andare ad un rapporto di  desiderio di conoscenza per l’immagine femminile; non era ancora tempo.

    Gli ideali dei poeti toscani si ispirarono ai canoni della Cortesia provenzale che si espressero nelle coplas trobadoriche. Ben diversi e più carnali furono però i canti d’amore della scuola siciliana, dove, forse per la prima volta, in una lingua proto-volgare che si ribellava al latino ecclesiastico, nasceva una lirica legata ai sensi, agli odori: “rosa fresca aulentissima“ ,  cantava alla  donna Cielo d’Alcamo che nella composizione Il contrasto non si angoscia per l’altro sesso ma gioca come un’amante.

    Sappiamo anche che in modo, appunto, ambivalente i poeti del duecento e del trecento, parallelamente al loro poetare per donne irraggiungibili, creavano quei componimenti detti “pastorelle” dove un cavaliere incontrava una contadina e finalmente c’era un rapporto fisicamente amoroso.

    Quindi se da una parte la donna ideale veniva amata platonicamente dall’altra con pastorelle e contadine era possibile non sublimare il rapporto sessuale. Ma qui torniamo alla tragedia dell’uomo: la scissione. La donna non può essere percepita come un’unità mente-corpo o meglio identità e sessualità. Da una parte ci deve essere Beatrice colei che beatifica, colei che porta al contatto con dio e dall’altra un corpo femminile che serve solo per un attimo di sessualità che deve essere prontamente  dimenticato o espiato come una colpa gravissima.

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    Rinascimento: la fine del medioevo

    Tra le date incerte a cui si fa risalire la fine del medioevo c’è quella della scoperta del Nuovo mondo da parte di Cristoforo Colombo. In realtà sappiamo benissimo che nella realtà umana in generale questi confini non sono mai così netti ma molto più sfumati. In ogni modo, la scoperta di Colombo, fu senza dubbio un spartiacque che fece vacillare gli antichi legami con i limiti reali e fantasticati.

    Ancor prima, l’umanesimo,  aveva separato l’uomo dall’animale in quanto unico essere esistente in grado di scegliere la propria condizione, di trasformarsi in ciò che ha progettato di essere. Nel Oratio de dignitate hominis  Pico della Mirandola mette l’uomo al centro del mondo, egli è “ da nessun limite costretto”  libero e artefice della propria vita.: “potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti;  potrai rigenerarti nelle cose superiori che sono divine” . L’uomo non è più rinchiuso nella casta in cui è stato generato ma può divenire o regredire, può auto-costruire la propria identità.

    L’Orlando furioso si inscrive quindi in un contesto socio-culturale importante, un’aria nuova sembra dar vigore e libertà nella civiltà rinascimentale, e particolarmente nella corte ferrarese degli Estensi. L’Ariosto, inoltre non è un poeta staccato dal contingente, e proprio per questo può riflettere sulla vera natura dell’uomo e proporre un modello di essere umano aderente alla realtà oggettiva ed invisibile del suo tempo.

    Nonostante le premesse del proemio, dove emerge il timore della donna che ha la capacità di far perdere il senno “che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima”, nella sua opera scaturiscono figure di uomini e donne coinvolti in rapporti passionali che non portano alla follia, l’amore non è un devoto e manierato servizio cavalleresco, inoltre egli non separa l’amore sensuale da quello spirituale. Come in ogni grande opera artistica, al di là dell’apparente volontà dell’autore, che nella defezione della ragione sembra intravedere solo la pazzia, le passioni dei personaggi prendono il sopravvento perdendo il dominio di sé; noi possiamo respirare ancora l’afrore che pervade i luoghi ove Angelica e Medoro si sono amati e questa fisicità naturale umana, apparentemente così lontana, ancora ci appartiene.

    Orlando non “per amor venne furioso e matto” ma per aver fantasticato alterandola un’immagine femminile che non aderisce al suo ideale; Angelica è una donna con una sicura identità sessuale. Non è la Beatrice di Dante acorporea e angelicata. Il personaggio di Orlando è invece ancora legato ai codici culturali del Dolce Stil Novo. Nel poema invece Angelica non è certamente angelicata e non è la passiva pastorella della poesia stilnovista: ella è un’immagine femminile che dà vitalità e concretezza al rapporto tra i due sessi e separa, stimolandole e facendole emergere, la pazzia della castrazione dall’identità maschile. E la malattia di Orlando non è altro che la credenza di una mente onnipotente, governata dalla ragione. L’Ariosto descrive Orlando come un uomo che crede, costruendo fantasticherie, di controllare gli eventi. Ma la realtà è soggetta a cambiamenti repentini; l’anello di Angelica, che serve da talismano per conservare il senso della misura, “non tiene” come ha intuito un grande poeta del novecento, Montale. E la catena dei pensieri deliranti del paladino si spezza liberando il furore di chi, annullando i moti naturali del corpo, si incatena per mantenere un comportamento ineccepibile.

    Purtroppo l’Orlando Furioso è il canto del cigno del rinascimento, la ragione riprenderà il sopravvento, la percezione del reale sarà mediata da uno sguardo diaccio, la razionalità si affermerà come visione esatta, oggettiva negando il mistero dell’ignoto mondo interno femminile.

    Poco tempo dopo il Concilio di Trento darà vita alla Controriforma annullando tutti i fermenti che fecero del Rinascimento un periodo di ricerca sul rapporto tra i due sessi. La credenza dogmatica risorse come difetto di pensiero: non più ricerca della verità, ma creazione, con la logica della ragione, delle concordanze che legittimino il delirio religioso. L’ossessione del controllo di sé creerà un’ altro filone religioso dove il dio, che  prima osservava dall’alto, verrà interiorizzato: il protestantesimo.

    Il ritorno di Eros e Psiche

    Dall’antichità altri miti giungono con tutta la loro tragicità dando nuova linfa e reinterpretando  le dinamiche degli amanti notturni che si perdono: Priamo e Tisbe, Orfeo ed Euridice sono leggende drammatiche dove un “non sentirsi, un non capirsi, un voltarsi indietro” determina la catastrofe del rapporto e la morte dei protagonisti.  Il non “sentire” più l’altro da sé è un “tradimento inconsapevole” che diviene causa della catastrofe degli amanti.

    Questa tragica inconsapevolezza viene  rappresentata da Fernando de Rojas nella sua Tragicomedia de Calisto y Melibea data per la prima volta alle stampe nel 1499 e meglio conosciuta come La Celestina. In questo racconto sono fuse tutte le dinamiche della passione presenti nei miti greci e riteniamo che La Celestina sia uno dei tanti anelli di congiunzione, tra la fabula milesia di Eros e Psiche e Romeo and Juliet..

    Questo dramma shakespeariano è sicuramente anomalo, ed è certamente estraneo alle altre tre opere sulle quali ho lavorato: la sua alterità si manifesta negli affetti. L’odio e l’amore sono certi in Giulietta e Romeo, come sono certi al neonato nei primi mesi di vita che come i due amanti ha un solo strumento per conoscere : il sentire. La conoscenza del mondo per il bambino nei primi mesi di vita passa attraverso la sensazione degli affetti “sentiti” con il corpo e la mente che ancora non sono scissi come, quasi sempre, avverrà in seguito.

    Anche il nostro autore, pur essendo unico nella ricerca sull’immagine femminile, ha  senza dubbio forti ambivalenze, altrimenti non si spiegherebbe il motivo per cui le sue “eroine” vengono evocate per poi farle finire così miseramente. Forse solo Giulietta, pur morendo tragicamente, non tradisce la sua passione e il suo essere donna.

    Pensandoci bene, nelle altre tre tragedie trattate pensieri, pulsioni e moti dell’animo sono nascosti, velati. Nei primi atti delle tragedie, i personaggi per raggiungere i loro fini di morte e distruzione, indossano maschere tragiche che rimangono loro incollate sino alle estreme conseguenze: Macbeth  dopo l’incontro con le “figlie del destino”; Iago quando decide di distruggere Otello; Amleto dopo l’incontro con lo spettro. Tutti hanno in comune la menzogna, il travestimento, la fisiognomica del volto che non deve lasciare trapelare la bramosia di potere, l’invidia, la vendetta.

    E’ come se l’intero vaso di Pandora fosse celato alla vista delle vittime che non si accorgono mai di chi hanno veramente di fronte, come se non avessero la capacità di vedere oltre la materia che si percepisce con i cinque sensi.

    Uomini e donne, vittime e forse in qualche modo inconsciamente complici di ignobili carnefici, non si avvedono del nemico che finirà per distruggerli.

    Ed è proprio questa cecità, che non permette né di vedere al di là dell’apparenza,  né di “sentire” gli affetti nascosti sotto la maschera dell’ipocrita, che le porta alla rovina.

    Nell’opera “Giulietta e Romeo” l’odio, l’amore sono “puri” ed intangibili, non c’è mai nessuno che trama nell’ombra per fare del male se non il caso che perseguita gli amanti felici.

    Romeo uccide il cugino della donna amata con la stessa veemenza con cui le dichiara il suo desiderio.

    Essi sono nemici certi all’inizio del dramma, diverranno amanti altrettanto certi al primo sguardo. “Mio unico amore nato dal mio unico odio” (…) Prodigiosa nascita dell’amore questa per me che io dovessi amare un odiato nemico”.

    Per gli amanti infelici di Verona l’altro è l’altro in assoluto, non ci può essere similitudine. Ciò che il caso mette sulla strada di Giulietta è lo sconosciuto, l’impossibile, è il fascinum tremendum a cui non ci si può sottrarre: “vinculum quippe vinculorum amor est” (giordano Bruno). Questa chiara e totale disuguaglianza dei due amanti è la loro fascinazione ed è il loro dramma e la loro fortuna: dopotutto sono morti amandosi, non vanificando così la propria esistenza.

    Ma è ancora con questa estrema alterità che il nostro autore vuole rappresentare l’eterosessualità dei suoi personaggi: in Otello la  pelle scura rappresenta la sua diversità da Desdemona, in Giulietta e Romeo la mimesis dellalinea di demarcazione che si interpone fra gli amanti, sta nella faida mortale tra le famiglie.

    E da sempre le linee di confine reali o fantasticate si ergono per paralizzare il desiderio degli esseri umani. I confini possono essere configurati come momento di crisi di fronte ad uno stimolo eccessivo come lo è sempre l’incontro con l’altro diverso da sé.

    Per Romeo non basta un banale muro messo a confine tra lui e il suo oggetto del desiderio: “ Con le leggere ali dell’amore ho superato il muro; perché i limiti di pietra non possono tener lontano l’amore (…) e ciò che l’amore può, l’amore osa”. (Giulietta e Romeo)

    Equivocarsi sul senso del confine porta a fermarsi davanti a muri inesistenti; tornare vigliaccamente sui propri passi fa perdere l’immagine femminile, forse per sempre.

    Romeo, a differenza degli altri personaggi maschili, non rinuncia mai all’immagine femminile, egli è un eroe tragico e mitico al tempo stesso e i due amanti, come Antigone, si ribellano alle leggi a ai limiti inventati da uomini che hanno ormai depauperato la propria realtà interna sfigurandola come fa il protagonista del “Il ritratto di Dorian Gray”.

    Risolvere la crisi arretrando di fronte all’essere umano diverso da sé che perturba, porta gli esseri umani a dibattersi nella coazione a ripetere. Il divenire per l’uomo è un assoluto categorico, una legge a cui non può venir meno, pena la follia. La metamorfosi continua dei confini spinge l’essere umano a subire una “tirannia” e non può che arrendersi al vero destino dell’uomo che è quello di rincorrere la propria immagine interna. L’essenza dell’umano sta nel continuo divenire oltrepassando confini e solamente il rapporto con l’immagine femminile crea  questo movimento.

    Dopo Shakespeare  la letteratura, il teatro e poi il cinema non hanno cambiato di molto il modo di pensare la donna e il rapporto fra i due sessi.

    Ci piace citare brevemente un’opera che è una rappresentazione paradigmatica dell’impossibilità del rapporto uomo donna: Il Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand. Il Cyrano è la mimesis di un minus ontologico per il quale, il protagonista, pur  avendo tutte le carte in regola per aspirare alla bella Rossana, non osa mostrarle il suo afflato amoroso.

    Ed è ancora una storia simile a quella di Giulietta e Romeo che ha le sue fondamenta  nella favola di Eros e Psiche: anche qui, con tutte le ovvie differenze, c’è una donna al balcone a cui far giungere suoni di desiderio, anche qui c’è un “essere mostruoso” che si cela agli occhi dell’amata. Cyrano non ha la possibilità di ambire a tanta bellezza perché la macchia interna, rappresentata dall’orribile naso, è una carenza di vitalità che non gli permette di lasciarsi andare al desiderio con l’altro da sé. E così, pur alienando la parte migliore di sé sulla bella Rossana, egli la tiene lontana dal suo corpo,  crea un confine, (Cristiano) non rischia la propria realtà interna con la donna.

    Per chiudere torniamo al film Il diavolo in corpo di Bellocchio che riteniamo sia un film di rottura con il pensiero occidentale da sempre gravato da una alterazione  dell’immagine femminile.

    Questo film narra la storia di una donna che, attraverso una crisi trasformativa, fa  emergere una splendida immagine femminile capace di ribellarsi a una condizione che solo apparentemente è umana.

    Entrambi i due protagonisti pur sfidando l’istituzione familiare, non muoiono, non falliscono la propria esistenza; divengono migliori di prima proprio per aver avuto il coraggio di amarsi attraversando tutte le insidie nascoste nella dinamica del rapporto eterosessuale. E tutto ciò e divenuto per entrambi realizzazione della propria realtà interna. Il movimento e la realizzazione dell’uno diviene movimento e realizzazione anche per l’altra

    Ma per sottolineare il divenire dell’immagine femminile nel rapporto uomo donna, mi piace finire citando un altro film molto recente Un bacio appassionato di Ken Loach.  Ancora un rapporto impossibile  (come Eros e Psiche lei una mortale, lui un dio) lui pakistano, lei irlandese; lui mussulmano, lei cattolica. In uno della prime scene della pellicola l’uomo chiede alla donna come mai si è separata dal rapporto precedente.

    Lui : “perché lo hai lasciato”

    Lei:  “Perché sono cambiata”

    Luglio 2007

    • La bellezza… abita qui!
      Sono un uomo separato di fatto… così come si potrebbe dire delle coppie di fatto… così!
      Leggendo mi ritornavano o risuonavano nella mia mente, tre parole magiche, forse fondamentali per il divenire umano: cura, formazione, ricerca!
      Bello il finale che termina con la citazione del film di Ken Loach.
      Buon lavoro a Gian Carlo Zanon che anche se non conosco di persona ho la fortuna di seguire su questo sito.

    • Riletto in parte… splendido scintillio di immagini, pensieri e parole. Come fossero immagini di una stella che brilla di luce propria.

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