• Lettera ad un’amica

      3 commenti

    scrive

     –

    cantando 3

    di Giulia De Baudi

     

    Ricordo, quel giorno, stavamo a tavola, ed io, non so perché, forse per uscire dalla banalità, o forse per un lampo di vita accesosi improvvisamente in qualche parte del corpo, cominciai a parlare di Micene. Non che l’avessi mai vista Micene. Non ricordo cosa dissi, forse mi appassionai parlando del Tesoro di Atreo, la grande costruzione di Micene, il sepolcro di Agamennone. Forse dissi che li l’atreide probabilmente era stato seppellito dopo che la moglie lo aveva giustamente scannato. Non ricordo cosa dissi. Però ricordo bene cosa disse tuo zio:

    «Si va beh, ma cosa a cosa servono queste cose. Non servono a niente, no? E alura, che se ne parla a fare? Serven a un bel nagot»!

    Ricordo mi gelai. «Come non servono a niente, servono a …»  paralizzate in gola le mie parole non vennero e cercai il tuo sguardo e le tue parole, che non vennero. Solo un’alzata di spalle, come per dire «Ma lo sai che è fatto così». Il clima cambiò, anche gli umori del corpo cambiarono, e la mente, cercando affannosamente parole, annegò nella rabbia.

     

    «Per me servono».

     

    La risposta arrivò rabbiosa, per liberarmi da quella nebbia gelida e dal dolore … del tuo tradimento. Poi guardai la faccia ilare di quello scemo che mi faceva venire mal di pancia ogni volta che parlava. Anche se non parlava con me, mi faceva venire il mal di pancia.

    Poi guardai te e con la mia seconda occhiata furibonda il tuo sguardo mutò e sputò un «Ma sei matta? ».

    Non ricordo cosa successe dopo, ricordo solo le parole di tuo zio di Milano, che mi avevano paralizzato la mente. Me lo sono ricordato oggi. Forse me lo sono ricordato ora dopo che le elezioni hanno fatto emergere segni di avversione verso la Lega, e tuo zio se fosse vivo voterebbe per la Lega. E tu, me l’hanno detto, sei da qualche anno consigliere comunale della Lega. Siedi e parli e vai a pranzare con quelli della Lega … con-quelli- della- Lega!

     

    Quando me lo hanno detto ho avuto un sussulto, e un attimo di sgomento. Poi ho capito. Ho capito quel tuo sguardo, che chiedeva «Ma sei matta?». Ho capito quel tradimento che mi aveva ferito. Ho capito anche alcuni accadimenti, che allora, non avevo compreso fino in fondo, come quando avevo telefonato per dirti che ti volevo vedere, per salutarti. Ti volevo dire che forse non ci saremmo mai più riviste. Ti volevo parlare di questa mia separazione, ti volevo dire perché me ne andavo via da Varese. Ti volevo dire che tornavo al Sud, alla mia terra che non avevo mai calpestato, né visto se non in sogno. Ti volevo dire che andavo via per quel sogno, ma ti volevo anche rassicurare che avevo una casa e avevo trovato anche un lavoro laggiù. Ti volevo dire questo. Tu non me lo hai permesso.

     

    Non ricordo cosa ci siamo dette quel giorno, ho però memoria delle sensazioni, e di alcuni spostamenti che tu facevi davanti alle vetrine del centro, perché non avevi voluto fermarti al caffè a parlare. Sei arrivata in ritardo e avevi poco tempo, dovevi tornare in ufficio «Tanto parliamo mentre camminiamo» o qualcosa del genere, hai detto, e ogni volta che facevo per dirti una cosa importante, per me importante, mi interrompevi «Bello quel cappotto, e ci sono anche i saldi, poi torno e me provo. Piace a te? ».  Rammento quei venti minuti, era come se ci fosse un vento forte che spezzava il mio dire ormai frammentato sui marciapiedi, li davanti alle vetrine. 

    Poi non ricordo cosa successe, so che non ci siamo più viste né sentite, poi mi hanno detto che sei diventata leghista e allora ho capito quel turbinio di vetrine e di suoni articolati che ruotavano intorno come presi dal turbinio del nulla. Ho capito i miei discorsi incompiuti, e le tue interruzioni.

    Oggi, quando penso a tutto questo, per un attimo qualcosa scuote i miei nervi. Solo per un attimo. Anche quando penso che da bambina mi chiamavate ‘terruna’ qualcosa mi scuote i nervi. Solo per un attimo.

    Mi sono chiesta perché, tutto questo pretendere. Pretendere che l’altra, o l’altro, che ami, si adegui all’immagine più bella che abbiamo di lei o di lui. Forse è la tirannia della bellezza. E la bellezza è tiranna. Penso di averti amato in quel tempo, anche se so che già allora già mi stavo allontanando da te. Lentamente, come ci separa dalla veglia e dal giorno, mi stavo allontanando da te; da te che non corrispondevi più all’immagine che ti avevo messo addosso come una coperta calda, d’inverno.

     

    Non ci siamo più sentite né riviste, tu hai continuato a vivere nel Nord efficiente io nella felice ‘barbarie’ del Sud. Tu sei andata via via eliminando le cose per te superflue, i ‘barlafus’, come i libri ed i sogni, e la profondità degli sguardi degli altri, e …; io rumino i pensieri, non getto via neppure un sasso raccolto sulla spiaggia, libri e sogni sono miei elementi e ragione di vita, e accolgo ogni giorno la complessità del mondo e imbandisco la tavola per chi amo.

     

    nello_specchio

     

    Tu usi linguaggi e rumori che escludono, io vorrei conoscere il cinese e l’arabo, per leggere le loro poesie, e ogni suono straniero è una musica che capirò; tu hai già capito tutto, ogni intonazione di voce straniera è un fastidio da insultare, o da usare in schiavitù umiliata.

     

    Ricordo, dicevi di amare tuo zio, «perché è mio zio», dicevi e ti stupisti quando con voce spezzata io dissi che odiavo mio padre. Eravamo piccole allora, appena … quanti? Dodici, tredici anni? Più o meno, eravamo piccole allora quando mi hai detto che ero senza affetto, un piccolo mostro del Sud senza affetto. Ti credetti, allora non sapevo di affetti, e ho creduto, ho creduto senza pensare come quando si crede. Ti ho creduto, eri più saggia di me, io pensavo a causa del mestruo, che io non avevo «Quando avrò anch’io le mestruazioni amerò mio padre e sarò saggia come Sara»  pensavo … credevo.

     

    E lo diventai anche, più saggia e affettuosa, ma non ero io, era quell’altra che credeva ancora alle cose che mi dicevi.

     

    Sto scrivendo ed è notte fonda, la luna si è già nascosta nel bosco, e penso a quanto fu difficile, i primi tempi, vivere senza ‘specchi’ che riflettessero la mia immagine, senza le persone note che ti rimandano una loro, personale, immagine di te, che poi deve corrispondere, altrimenti sei fuori dai giochi. La chiamano anche ‘identità di appartenenza’. Appartenenza alla famiglia, costi quel che costi. Appartenenza a una istituzione o ad un posto di lavoro, costi quel che costi. Appartenenza ad un partito, costi quel che costi.  Appartenenza alla Lega Nord, costi quel che costi. Questa sarebbe identità? Non credo … pardon, non penso. Non penso che appartenere a quel partito, pensare come quelli della Lega, parlare come quelli Lega possa dare un’identità, anche perché quando si parla di identità si dovrebbe sotto intendere umana. Penso che nessun partito possa dare un’identità, però qualcuno di questi partiti la può anche eliminare, annichilire, servirsene e poi gettarla alle ortiche. 

     

    Tu penserai «Ma chi si crede di essere questa? Alla fine siamo tutte e tutti uguali! Dov’è la differenza?»

     

    Dov’è la differenza? La differenza è che io sto scrivendo questa lettera per conoscere il mio pensiero sugli esseri umani, e su di te e sulle mille separazioni che ho dovuto affrontare per poter scrivere questa lettera; la differenza è che tu sopravvivi nel Nord dell’esistenza senza mai voltarti a guardare veramente chi, pur apparendo molto diverso, è uguale a te per diritto di nascita. Sopravvivi nel Nord degli affetti senza mai volgere lo sguardo dentro un tuo uguale.

     

    Lo so, lo fai sempre, altrimenti non saresti seduta lì, sui banchi di quel partito, distogliendo lo sguardo dalla realtà umana … come quando hai distolto quello sguardo da me. Ora ricordo. 

     

    Giugno 2011

     

    24 agosto 2013 – In occasione della visita ad Alzano, Umberto Bossi, biascicando ha narrato che qualche tempo fa, Gianni Alemanno, allora sindaco della Capitale, aveva richiesto il suo aiuto al fine di trovare i fondi necessari per procedere al restauro di uno dei monumenti simbolo di Roma.

    Dice, quel grande amico di Tremonti che affermò che la cultura non si mangia, che a Alemanno rispose negativamente dal momento che “io sono lombardo e lì ci sono morti cento milioni di lombardi. Se mi dici di trovare i soldi per buttarlo giù, magari…”. E ancora: “In tutto il tempo che sono stato a Roma non sono mai andato al Colosseo”.

    Questo fatto accaduto l’altro ieri racconta bene la situazione socio culturale che grava nel nord Italia dopo vent’anni di regime della destra anticulturale e  razzista.

    -Per questo oggi riproponiamo la lettera di Giulia De Baudi in cui viene accennato questo mostruoso fenomeno.

    GCZ

     

     

    • Ciao Giulia.

      Noi non ci conosciamo, anche se 3 cose mie sono state pubblicate in questo “Diario Polifonico” che, quando il tempo me lo consente, cerco sempre di seguire.
      Questa tua lettera, per varie ragioni, è stata riproposta più di una volta e io, puntualmente, mi rimetto a leggerla come se non l’avessi mai fatto prima, facendo finta di non conoscere il suo contenuto, o meglio, mi rimetto a leggerla proprio perchè conosco il suo contenuto, e le emozioni che mi ha suscitato.
      La mia storia personale non ha mai avuto a che fare con una certa “cultura” che si è diffusa in quel del nord, e con il loro modo di “essere al mondo”, anche se fortunatamente non riguarda tutti.
      Il caso ha voluto che io sia nato a Roma, come i miei genitori e i miei nonni. Per non creare equivoci voglio sottolineare che della mia appartenenza geografica non me ne importa assolutamente nulla, ma ho voluto precisare il mio luogo di nascita solo per dirti che le emozioni per le tue parole non sono emerse per mie simili esperienze legate a quell’ area geografica; le emozioni sono invece emerse perchè in questa lettera, con le tue parole, sei riuscita a “far vedere” l’ invisibile. L’ apparente normalità di quei rapporti e di quelle parole che, invece, nascondono una terribile violenza, una terribile anaffettività, una terribile precisione nel voler distruggere quel minimo di vitalità che loro intuiscono ci sia nell’altro.
      E tutto questo crea confusione, sopratutto quando si è bambini, come tu descrivi benissimo, e come anche io ricordo per la mia storia personale.
      E quanti di questi bambini crescendo si sono persi…!
      Ma c’ è chi invece riesce a resistere, finchè, crescendo, non ha la fortuna di incontrare persone, libri, o parole simili a quelle da te usate in questa lettera.

      Grazie Giulia.

      Roberto

    • gentile Giulia, non sapendo come contattarla altrimenti, le chiedo se può gentilmente farlo lei al mio indirizzo mail. Sto cercando affannosamente un chiarimento bibliografico a proposito di un articolo anonimo su Che Guevara, da lei ripreso lo scorso 14 giugno e pubblicato sulla rivista Machete nel 2008.
      Chiedo scusa per questo off.topic!

      un cordiale saluto
      michele pompei

    Scrivi un commento