• Il giornale di Picasso – Dai “manifesti” del paleolitico al post-web

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    Picasso And Bardot

    di Gian Carlo Zanon

    Nel museo Picasso di Parigi è esposto un giornalino completamente disegnato a china, opera adolescienziale dell’artista spagnolo. Il giornalino da lui chiamato “Azul y blanco” è di quattro pagine, con testi e figure, e rappresenta il mondo che girava attorno a Pablito. Il tredicenne aveva inserito nel suo giornale persino un annuncio economico «Se compran palomas de genealogía garantizada» (si acquistano colombe di razza garantita).

    Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz y Picasso, conosciuto come Pablo Picasso, ancora adolescente, aveva forse inconsapevolmente,  ricreato la figura dell’editore-redattore-incisore, cioè quel personaggio mitico nato con l’avvento della stampa che poi scomparirà di nuovo dal mondo dell’editoria alla fine dell’ottocento.

    La figura dell’editore-stampatore, “inventata” dall’umanista Aldo Manuzio, con l’evolvere della stampa è andata via via suddividendosi in specializzazioni sempre più tecniche . Già nel primo novecento chi produceva i clichés sapeva ben poco di macchine tipografiche e di inchiostro ed il tipografo a sua volta non sapeva nulla di incisione, della fabbricazione dei caratteri da stampa caratteri, e così via.

    Questa perdita di conoscenza giungeva al suo punto massimo quando un autore o un editore, “con un’idea in testa”, voleva che il suo pensiero divenisse un’opera tipografica, esattamente come la sua immaginazione l’aveva concepito, senza essere a conoscenza dei processi produttivi.

     

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    Certamente l’essere umano ha sempre cercato di trasformare, in materia percepibile, una propria idea/immagine e di proporla all’altro da sé. Senza dubbio ha provato, attraverso l’alchimia del rapporto mente-energia, mani-materia, di rendere percepibili le immagini che affollavano la sua mente. Forse, come dicono alcuni, le prime rappresentazioni, che venivano dipinte con l’ocra sulle pareti delle grotte, avevano un carattere meramente funzionale, tipo: “ho ucciso tre gazzelle”, “nella valle ci sono i bisonti” ecc., ma è certo che questi esseri umani, vissuti agli albori dell’umanità, desideravano fissare sulle rocce immagini private che volevano fossero anche pubbliche. Possiamo immaginare come un gruppo di donne in ambiente paleolitico  che al ritorno dei loro uomini mostrassero loro i loro manifesti rupestri che rappresentavano la caccia raccontata loro dai cacciatori giorni prima. Gli uomini parlavano narrando ricordi coscienti, le donne interpretavano artisticamente i racconti e … probabilmente litigavano spesso.

     

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    Dall’epoca in cui Manuzio creava con le proprie mani i libri, le tecniche di riproduzione tipografica si sono modificate enormemente. Prima di lui, intorno alla metà del quattrocento, già con Gutenberg e i suoi incunaboli si giunse all’epoca in cui un libro poteva essere riprodotto abbastanza fedelmente all’infinito. L’arte dei maestri incisori però rimase ancora per secoli inalterata e vi era una enorme richiesta di testi, accompagnati da figure, stampati con la “nuova tecnica”.

     

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    Dopo il 1498 la trascrizione dei testi che aveva riempito le sale di copiatura di amanuensi, via via scomparve, e gli artisti che prima pittavano le figure a fianco delle parole arricchendole di senso, si trasformarono in maestri incisori creando con le loro mani vere e proprie opere artistiche, che servivano sia per stampare immagini sia da matrici per la fusione dei caratteri.

    A cavallo tra ottocento e novecento nuove scoperte scossero l’equilibrio tecnico nel mondo della stampa. Con l’avvento della Linothipe e della fotomeccanica, la produzione delle matrici, sino ad allora eseguita manualmente, si foto-meccanizzava, disperdendo definitivamente quel capitale di manualità artistica accumulatasi in decenni di esperienza. Si perdeva così anche quell’aura leggendaria che aveva accompagnato il tipografo per secoli.

    L’arte tipografica si scindeva in una miriade di specializzazioni che aumentavano la produzione e permettevano una riproducibilità sempre più oggettivamente aderente all’originale, ma, in questo modo, soprattutto per quanto riguarda le immagini riprodotte,  la reificazione del reale, annullando la soggettività dell’artigiano-artista, eliminava la poetica che rende pregnanti le cose pensate e poi realizzate a mano.

    In questo fine millennio, la nemesis, originata dalla rivoluzione dal computer grafico, ha permesso l’eliminazione di queste super-specializzazioni che si frapponevano nel processo idea-realizzazione finale. Ora, il giornalista, in uno spazio elettronico predisposto da un grafico, genera la matrice del proprio giornale, inserendo in uno spazio bidimensionale un’architettura fatta di segni verbali, simboli, immagini, a volte acquistate direttamente sulla rete web, e, novello Pablo, divulga il suo pensiero verbale e il suo senso estetico dando alla tipografia solo il compito di decodificare il file per la costruzione della matrice di stampa. Matrice che poi verrà issata su una macchina da stampa superautomatica in grado di “stampare le idee dell’editore”.

    Non l’occhio umano ma un densitometro misurerà la lunghezza d’onda del colore richiesta dall’editore, “accecando” l’addetto alla stampa il quale, paradossalmente, è ormai regredito mutandosi in quel pezzetto di legno intinto nell’ocra utilizzato dalle donne del paleolitico per dipingere le pareti di roccia.

    Con questo metodo l’autore, il grafico e l’ideatore possono eliminare il filtro tra il loro pensiero e la realizzazione materiale dello stampato. Filtro che tanto aveva funestato i rapporti tra autore-editore e tipografo. Tipografo che avrà solo il compito di riprodurre in migliaia di copie la matrice già tecnicamente realizzata.

     

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    In realtà le tecniche che permettono la diffusione delle idee/immagini si trasformano ogni giorno utilizzando apparecchiature sempre più sofisticate che vanno dalla stampa digitalizzata alla lettura elettronica che elimina ogni intervento terzo tra chi crea e chi fruisce… ma Pablito lo aveva già fatto esattamente 105 anni fa all’età di tredici anni.

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    Articolo apparso per la prima volta nel giugno del 1998 nella rivista Quattro passi

    Postato il 3 luglio 2014

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