• La città abitata dallo sguardo

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    Riceviamo questa lettera di Beatrice B., nella quale si possono trovare vari spunti di riflessione tra cui quello sulla drammatica deriva culturale della sinistra italiana, incapace di dare al proprio naturale bacino elettorale risposte alle nuove esigenze che da decenni  si affacciano all’orizzonte.

     

    L’articolo di Beatrice sul senso dell’abitare è molto intrigante almeno per due ragioni: la prima è per la sua ricerca del genius loci della città abitata che sappia dare un senso più profondo al vivere quotidiano; la seconda ragione è per la sua memoria che fa risuonare le vie della città dalle grida giocose dei bambini intenti a giocare a “nascondarello”. Nella città ideale che Beatrice percorre rifiutando i pensieri difettosi dei maître à penser dell’esistenzialismo, non c’è spazio per eponimi divini o mitologici. Come diceva il grande poeta spagnolo Antonio Machado, sono i suoi passi che ricreano il paesaggio urbano.

    La città la guarda passare un po’ intimorita perché sa che con il suo sguardo trasformerà in echi di ricordi i percorsi amati scardinando la percezione oggettiva che reifica il reale.

     

     

    Emo Bertrandino

     

     

    Gentile direttore.

     

    Come posso ringraziarla per la gentilezza che mi ha usato pubblicando il testo che le ho mandato?

     

    Io con lei non sono stata molto sincera ma per le confessioni ho i miei tempi, mi piacerebbe essere diretta e immediata invece di menare il can per l’aria, come diceva una mia vecchia zia, paterna, di origini contadine.

    Quel grande spiazzo, un po’ discosto dalle abitazioni, in cui si svolgevano i lavori collettivi, nel suo dialetto corrispondeva a L’ar’ e nell’italianizzazione era facile infilarci qualche vocale non necessaria. Sa, lei mi raccontava sempre che lì si ammucchiavano, su una lunga fila, i covoni per la trebbiatura, quelli di tutti gli abitanti della zona, poi quando tutto era pronto, arrivava la trebbiatrice, trainata da un grosso cingolato, che sembrava la trasformazione di un carro armato, e rimaneva lì su quell’aia fino all’ultima spiga di grano. Si cominciava la mattina, verso le sette dopo che era passato il caffè e qualche dolcetto fatto in casa, erano le ragazze a portare le vivande e l’acqua fresca. A mezzogiorno poi si faceva una pausa per il pasto principale, che veniva consumato lì, sotto gli alberi. Si stendeva una tovaglia molto lunga, apparecchiata e i contadini si sedevano per terra tutt’intorno. Ovviamente le macchine non venivano spente, la loro accensione richiedeva molto tempo, quindi parlare era un po’ difficile in quel frastuono, ma si riprendeva, senza una vera siesta, a lavorare.

     

    Gli uomini portavano dei fazzoletti rossi o blu intorno al collo, per la polvere, che dal grano si spargeva sottile in tutte le direzioni, pur senza vento. E così fino a sera.

    Era sempre lì che qualche tempo dopo la mietitura si ammonticchiavano le marrocche, ( la parola pannocchia appartiene a un’altra lingua, se l’aveste usata nessuno vi avrebbe compreso) e la sera si “sceglievano”, si liberavano dalle foglie esterne per poi essere sgranate. Per i bambini una vera festa, un po’ aiutavano a togliere le foglie ormai essiccate alle pannocchie a cui a volte andavano a rubare, di nascosto, i capelli, di preferenza quelli rossi per le loro bambole di pezza, poi si alzavano dai panchetti per mangiare i ceci lessi e ballare, sì perché c’era sempre qualcuno con la fisarmonica o la ‘ddubbotte. Una vera festa insomma.

     

    Quella era l’aia che la zia mi raccontava con gli occhi nostalgici.

    In verità la storia che le volevo raccontare era un’altra, ma la divagazione, come lei certo si sarà accorto, è la mia cifra stilistica ineluttabile.

    Tempo fa abbiamo subito una perdita, è per questo che non mi sono fatta viva.

    La morte di Eleonora Bellosguardo, mia nonna, ci ha sorpreso tutti, convinti come eravamo che lei ci sarebbe stata sempre, visto che godeva di ottima salute.

    A più di novant’anni aveva una folta chioma, in parte ancora nera e due occhi fenomenali.

    Sì perché Bellosguardo non era il suo nome, quello ormai ce lo siamo scordati tutti. L’aveva ribattezzata così il marito, mio nonno, per via degli occhi.

    Sotto due sopracciglia foltissime, sul suo viso non particolarmente bello per via del naso, diciamo importante nonché fornito di una leggera gobbetta, si spalancavano due occhi scuri, che non si chiudevano mai. Noi ragazzini dicevamo sempre: “la nonna sogna ad occhi aperti anche la notte!”

    A furia di spalancarli i suoi occhi si erano fatti quasi rotondi, sostituendo la forma originaria. Bisogna dire che quando lei aveva all’incirca sei anni, non so se compiuti o meno, la madre le aveva comunicato che voleva darla, per via della povertà, ad una ricca signora e lei da quel momento aveva così tanto sgranato gli occhi sul mondo da non poterli più chiudere.

    Raccontavano che si era anche ammalata gravemente, aveva avuto le febbri, forse, io penso, la malaria e così era rimasta in casa, non si sa se per il pentimento materno o perché nessuno vuole un bambino malato.

    Fatto sta che il suo era uno sguardo di chi riesce sempre a meravigliarsi della cattiveria che lo circonda e che deve stare sempre in guardia per non farsi cogliere di sorpresa.

     

    Le dicevo dunque che ora gli occhi li ha chiusi e per sempre e a me ha lasciato un minuscolo appartamento, in cui mi trasferirò al più presto, smettendo di fare la studentessa a vita. Sono andata a sgombrarlo proprio la scorsa settimana. Arredamento e suppellettili risalgono tutti alla fine degli anni sessanta e nulla era stato mai toccato, le due stanze più servizi sono ricolmi delle cose più impensabili. Mia nonna non buttava via mai nulla, del resto come tutti quelli della sua generazione e anche oltre. Ma le confesso che la quantità di libri, giornali e riviste che aveva conservato è davvero impressionante, spesso solo articoli raccolti dentro cartelline colorate. Pensi che le pareti più lunghe delle stanze e del piccolo corridoio d’ingresso, sono tutte ricoperte di scaffali pieni zeppi. Mia nonna era onnivora, leggeva di tutto, compreso le riviste di moda, arredamento e cucina. Buttare via tutta quella roba mi ha sconvolto, era come disfarsi di lei. In quelle cose c’è tutta la sua vita, ma succede sempre così quando qualcuno ci lascia. La separazioni definitive si suggellano con l’eliminazione di oggetti che ti stimolano a ricordare.

    I mobili vanno dal rigattiere, i vestiti nei bidoni delle Onlus, ma i libri? Così ho deciso di fare una cernita, ci sono dei classici da salvare.

    Tutto è organizzato per periodi, secondo la passione del momento: la letteratura, il cinema, la rivoluzione, ecc. spesso opere datate, ormai superate.

    Da una bella catasta pericolante ho tirato fuori tutta una collezione di riviste sindacali con segnalibri a indicare articoli particolari, tutti con la stessa sigla in calce. Illeggibile. Uno di questi mi ha attirato per il titolo- “Se l’abitare è essere…”, una citazione heideggeriana in una rivista sindacale per di più di sinistra e destinata ai pensionati? Veramente da non crederci.

    E poi la solita cazzata, pardon scemenza, del grande filosofo tedesco, il quale sostiene che è l’abitare a darci l’essere, l’umanità, ma allora la casa chi l’ha costruita? Mi chiedo.

     

    Mi incuriosisce anche il foglio bianco scritto a mano che leggo per prima e che le giro.

     

    “Gentile direttrice,

    non so come esprimerle lo stupore e l’ indignazione provati alla lettura dell’articolo così come pubblicato sul vostro giornale. Incuranti di ogni rispetto per me, l’autore, voi mi avete riscritto un intero periodo.

    Telefonicamente lei mi ha testualmente sostenuto (sic!) che la classe operaia e tampoco i pensionati non reggono l’anacoluto! Gentile signora, non voglio impelagarmi in un’ardua discussione sul realismo socialista, di cui ho potuto ammirare gli effetti devastanti nell’architettura della capitale russa in un mio viaggio precedente la caduta del Muro, mi chiedo solo come lei, che per un’intera vita si è occupata di letteratura straniera e l’ha anche insegnata, suppongo, non ha mai affrontato nei suoi studi, mi chiedo a questo punto se ne abbia mai fatti, le questioni di stile e le figure retoriche, portatrici di immagini? Come fa ancora oggi, a quel che mi dicono, a occuparsi di letteratura, visto che col suo gruppo fa parte di giurie che valutano testi e votano per premi letterari prestigiosi? Le lascio tutto il tempo per riflettere su tali quesiti o di non farlo affatto, tanto guardi io non le sto chiedendo una rettifica, sconvolta dal fatto che un giornale di “sinistra”? mi abbia censurata piuttosto che respingere l’articolo al mittente, sarebbe stato chiedere troppo?, le comunico la volontà di interrompere ogni collaborazione con la sua rivista, dal momento che era del tutto gratuita, almeno fino a quando la classe operaia non riuscirà a comprendere un anacoluto!

    La saluto e le auguro ogni bene, sapendo ora a chi attribuire l’incalcolabile deriva della nostra letteratura.”

     

    Data e sigla

     

    Sempre vergato a mano il testo completo dell’articolo, che ora io ho il piacere di indirizzare a lei.

    Incuriosita dal contenuto ho deciso di trasferirmi per alcuni giorni in questa città, per capire i cambiamenti intercorsi in questi quasi tre lustri. Il mio interesse nasce anche dal fatto che mia nonna è vissuta e ha lavorato da quelle parti, nell’industria manifatturiera, finché esisteva, trasferendosi nella capitale intorno agli anni ottanta per far studiare la figlia, mia madre.

    Ma questa è un’altra storia.

     

    Beatrice C.

     

    SE L’ABITARE E’ ESSERE, NOI CHE ABITIAMO QUESTA CITTA’ CHI SIAMO?

     

    Le piccole città.

     

    Forse l’uomo moderno è diventato “moderno” nel momento in cui ha deciso di dimenticare le favole che aleggiavano nel mondo antico.

    Per assumere un’ identità razionale ha voluto dimenticare che il Medio Evo pensava la città come donna. Bella donna, ricca e seducente da desiderare ed ammirare, e soprattutto da conquistare, lancia in resta, come ogni buon cavaliere.

     

    “ I CASTELLI PRESI, LE CITTA’ VIOLATE”

     

    Recita la chanson de Roland.

     

    Metafora drammatica, come drammatica e conflittuale era il rapporto con la donna e la città, fatto di un amore che non fermava la mano del conquistatore–distruttore, come non arrestava la violenza di fronte alla donna; ma così come , in ogni caso, riconosceva una vita alla donna, ne regalava una anche alla città.

    Con l’avvento dei lumi questo mondo è stato relegato e regalato all’infanzia e la città, disanimata, ha potuto essere immolata agli dei moderni dell’utile e del necessario.

    Sono nati due nuovi cavalieri, la mancanza d’amore, l’indifferenza per il passato, e poi l’idealizzazione assoluta per tutto ciò che ad esso appartiene, brutto o bello, antico o vecchio, non importa.

    Chieti, seconda metà dell’800, seguendo l’esempio del secondo imperatore dei francesi, il generale Pianell, per fare della Civitella una piazza d’armi, livellò la collina, noncurante dei manufatti antichi presenti nel terreno, ed a fine secolo, per risanare alcuni quartieri ed ampliare il corso Marrucino, vengono tagliate via Galiani e via Vezio.

     

    Bisogna, però, aspettare gli anni del secondo dopoguerra per assistere alla trasformazione radicale e definitiva della città in “foresta pietrificata”. Palazzoni a strapiombo sulle pendici della collina, hanno ricoperto ogni metro di terra.

    Risultato è la paralisi più totale, il vecchio è diventato nel frattempo intoccabile ed aree disponibili non ce ne sono più (del resto le ultime costruzioni ripercorrono strade ormai non più praticabili).

    Questa città ha dunque perso non solo la propria immagine, ma anche la speranza di poterla in futuro recuperare?

    Eppure sociologi, urbanisti, politici, psicologi e geografi si affannano ogni giorno a spiegarci che i mali del mondo moderno, la devianza giovanile, la delinquenza, le nevrosi trovano la loro origine in una crisi di identità dell’uomo moderno e che l’identità è anche senso di appartenenza, cioè abitare luoghi che hanno un’immagine che ci permetterebbe di riconoscerci!.

     

    Non crediamo più alle favole, sappiamo che la radice del malessere è da ricercarsi nei rapporti interumani violenti, ma pur tuttavia noi che abitiamo in questa città, verso la quale a volte proviamo un forte senso di estraneità, di non appartenenza, ci chiediamo spesso come sia possibile vivere un luogo, non dico senza immagine, ma con una gran brutta immagine; ma, persi dietro ad un quotidiano che ci frantuma il tempo, dimentichiamo le nostre stesse domande.

    Ma la vita è spesso impertinente e le delusioni collettive sono ormai tante e quando ci chiedono “che si fa a Chieti?” non possiamo più rispondere “Non saprei, la mia vita è altrove”.

    E così noi anime elette, che ci siamo ritagliati un angolo di città ideale, fatta dalle persone importanti dei nostri affetti e di fughe vacanziere, ma che in fondo questa città ancora l’amiamo, siamo costretti alla ricerca. Forse questa città un’immagine, che vale la pena di recuperare, ancora ce l’ha, e ci sobbarchiamo questa fatica per ridare un senso ad un abitare che non sia solo dormire, mangiare ecc..

     

    Passeggiare, una domenica pomeriggio, nel freddo assolato dell’inverno………

    Qualsiasi città di provincia, vuote le strade, sgombre le piazze, ti da un senso di solitudine silenziosa, di straniamento, quasi ti opprime l’assenza della folla frettolosa, delle macchine abbandonate ovunque.

    Abituati allo slalom continuo, il silenzio ti rende i luoghi irriconoscibili.

    Forse è il sole fuori stagione, tu pensi, ma poi capisci: la città è come morta, tutti l’hanno abbandonata, e tu sei uscita per cercare un tuo percorso narrativo ideale, volevi leggere indisturbata quello, che per Hugo è un “libro di pietra”, un libro che ora ti sembra assai muto.

    Passeggiando per le strade volevi riscoprire “la città invisibile”, nascosta dalle stratificazioni, sedimentate nei secoli.

     

    Sono anni che ti arrovelli su strani pensieri.

    Volevi scovare le risposte ad antiche domande “Ma questa città una sua immagine l’ha mai avuta?  E poi che cos’è l’immagine di una città?”

    Ed hai trovato una “città irreale”, tante città sovrapposte dalla storia ed idealmente ripercorri e rivivi la città romana.

    Dopo aver abbandonato corso Marrucino, tronfio e pieno di sé, nell’esposizione di trionfali facciate ottocentesche, ti interni nelle viuzze che ti portano alla Civitella, la cittadella, il nucleo sacro-pubblico, attorno al quale si distendeva la città romana, con i suoi templi arcaici, l’anfiteatro ricondotto alla luce, dissepolto da strati di cemento e scalinate da cui varie generazioni hanno esultato per un goal e fischiato per un rigore immeritato!

    Ora è tutto transennato, devi indovinare lo stato delle cose.

    Ti affacci al belvedere e cerchi con lo sguardo di oltrepassare Borgo Marfisi, per rintracciare l’andamento della via Valeria, che da Brecciarola si inerpicava faticosamente su per la collina e ti obbligava ad una sosta nei pressi di Santa Maria Calvona, il toponimo ti parla di un certo Calvus, che lì doveva avere dei possedimenti, come è testimoniato da importanti documenti epigrafici rinvenuti nello stesso sito da cui è emerso lo splendido monumento funerario di Lusius Storax, che ora fa bella mostra di sé nel museo archeologico.

     

    Il prosieguo della strada è frutto della tua fantasia, anche il colle ora non esiste più, prima rosicchiato un po’ alla volta dalla fornace, anch’essa ora sepolta per sempre sotto un gigante di mattoni rossi, immane monumento a testimonianza dei tempi attuali, buon esempio di come si ammazza nelle nostre città non solo il senso estetico, ma anche quello della misura.

    Il ductus stradale antico è ormai scomparso per sempre, ci restano solo ipotesi, e noi consideriamo come più seducente quella che ci porta direttamente qui all’acropoli, senza negare veridicità storica anche all’altra che ci condurrebbe in modo più agevole, attraverso porta S. Anna a piazza Trento e Trieste.

    Percorrendo via Ravizza, scendo dal colle che fu certamente uno dei primi nuclei della città romana, il cui reticolato ortogonale è ancora percepibile ed all’incrocio con Porta Napoli scorgo l’ingresso del teatro romano costruito a ridosso della collina, ma non mi faccio distrarre e procedo verso il foro, dove i tempietti troneggiano, al di sopra delle transenne che sono ancora lì per un mal celato senso di pudore: devono nascondere una cementificazione gabellata come restauro, e l’insulto al buonumore di brillanti mattoncini rossi contenenti pozzi che sembrano una pura invenzione (la mia fantasia qui è stata nettamente battuta).

     

    L’area del Foro doveva occupare uno spazio considerevole e ricongiungersi con il tratto urbano della C. Valeria, che dalle evidenze archeologiche e dai lacerti emergenti doveva correre parallela all’attuale corso, spostata di pochi metri verso est.

    La monumentalizzazione di questa area, che risale al I° secolo d.C., dovuta all’importante famiglia degli Asinii, ci testimonia l’importanza della “Magnum Teate”di cui parla Silio Italico, e il livello raggiunto da questo Municipium, contiguo a quello che doveva essere all’epoca il porto più importante dell’Adriatico: Hostia Aternum, oggi Pescara.

     

    Dal foro potremmo scendere alle terme, ultimo grande monumento della città, di epoca imperiale (II sec. D.C.), oppure , proseguendo per largo Barbella, raggiungere il “Pozzo”, consapevoli di calpestare una grande riserva d’acqua collocata sotto palazzo De Majo e palazzo Sanità di Toppi, per salire su colle Gallo (S. Giustino), l’altra altura compresa nella città romana, una città su due colli che ci rimanda ad una tipologia italica, come le mura poligonali sottostanti i tempietti romani; del resto da altre testimonianze (scavi a Madonna del Freddo) sappiamo che il sito era frequentato fin da età neolitica.

     

    A S. Giustino incontriamo la città medievale, distrutta e poi ricostruita da Pipino, figlio di Carlo Magno, nell’803; questi la sottrasse ai longobardi e l’ampliò con la costruzione del quartiere di S. Maria.

     

    Mentre ripercorro questa città, da un’epoca all’altra, mi chiedo se questo viaggio storico possa restituire l’immagine a questa città deserta, ma mi vado convincendo sempre più che l’immagine ad una città non gliela possono dare solo i monumenti che fiancheggiano le sue strade, dritte o tortuose che siano.

     

    Torno sui miei passi e costeggiando il teatro, costruito nel 1818, intitolato a Ferdinando I di Borbone, inaugurato con la Cenerentola di Rossini, sull’area della chiesa di S. Ignazio, sconsacrata in seguito alla cacciata dei gesuiti, di cui resta una lesena, scendo a largo Cremonesi, una splendida piazzetta a gradoni degradanti sul fianco della collina, fino al “canoro” largo Moricorvo: i canarini cinguettanti rumorosi dietro una porticina sono l’unica presenza viva.

     

    Ho girato la città, ne ho ripercorso la storia ma non mi sono riconciliata.

    Forse cercavo il paese della mia infanzia, quando sulle piazze occhieggiavano le botteghe non solo dei fruttivendoli e pizzicagnoli (mi suona strana questa parola!), ma anche quelle più rumorose e polverose di ciabattini e falegnami, di sarti e ramaioli, e noi bambini, la sera ci si perdeva ne’ vicoli a giocare a nasconderello.

     

    Certo i monumenti, la storia, sono cose importanti e vanno recuperati e conservati, ma così facendo rischiamo di trasformarla in un grande museo vuoto, in cui ci dovremo limitare a guardare gli edifici, messi in fila a bella posta nelle vetrine, con i cartellini che ce ne spiegano l’anno di costruzione, le caratteristiche estetiche, lo stile ecc.

    Ma chi impedirà a qualche monellaccio annoiato di fare un piccolo sfregio?

     

    Forse questo è il momento storico in cui si comincia ad avere l’ardire di buttare a terra qualche brutta costruzione che ci faceva storcere lo sguardo, ma solo per ripristinare un brutto spazio vuoto, come l’ex mercato coperto!

    D’altro canto perché mantenere in piedi muri cadenti, ancora anneriti dai bombardamenti?

    Ancora sotto l’urgenza della necessità, continuiamo a svuotare i centri storici, prima ne abbiamo deportato i legittimi abitanti ora ne scacciamo uffici ed enti pubblici.

    Che ne faremo di tanti bei palazzoni vuoti?

    Possiamo ipotizzare un’utopica possibilità di intervento artistico, ossia dettato da un’esigenza di una vita a misura umana, sulla città?

     

    Questa passeggiata mi ha convinta che l’immagine vera della città, è fatta si di ricordi e monumenti, ma soprattutto di quelli che l’abitano con agio e sicurezza.

    Una città ha una bella immagine se è viva e i suoi abitatori hanno il coraggio di chiedere all’artista belle immagini da scolpire nei loro cuori.

     

    1998

     

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