• Italo Calvino: Oriente, città e immagini femminili

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    di Gian Carlo Zanon

     

    Forse, prima di parlare di questo libro, sarebbe meglio approfondire la conoscenza di Italo Calvino. Proviamo con due sue citazioni che raccontano meglio dei dati biografici chi fosse quest’uomo. Lo scrittore scrive nel ‘56: «Noi comunisti italiani eravamo schizofrenici. Sì, credo proprio che questo sia il termine esatto (…) con una parte di noi giustificavamo i torti, le sopraffazioni, la tirannide del partito, Stalin () quando mi capitava di andare in viaggio in qualche paese del socialismo mi sentivo profondamente a disagio, estraneo ostile. Ma quando il treno mi riportava in Italia, mi domandavo,: ma qui, in Italia cos’altro potrei essere se non comunista».

    Calvino il 19 febbraio 1964 sposa Chichita, una ragazza cubana: «Nella mia vita ho incontrato donne di grande forza. Non potrei vivere senza una donna al mio fianco. Sono solo un pezzo di essere bicefalo e bisessuato, che è il vero organismo biologico e pensante».

     

    Da queste poche righe emerge l’immagine di un uomo lontano dalla ragione; un uomo che ‘sentiva’ la realtà femminile come indispensabile per divenire esseri umani … solo un uomo così poteva narrare di città come fossero sogni.

    Lo scrittore, avendo mantenuto quella parte irrazionale che fa la cifra dell’artista, saputo immaginare e raccontare un “proprio Marco Polo” che a sua volta è: «un viaggiatore visionario che racconta di città impossibili».

    Le città raccontate ne Le città invisibili hanno tutte un nome di donna, non potrebbe essere diversamente, e indubbiamente riverberano incontri fugaci, immagini femminili incontrate casualmente, e poi immaginate come luoghi lontani ed esotici. Molto probabilmente l’autore non narra di città visitate, di architetture conosciute. Le sue sono fantasie – ‘immagini inconsce non oniriche’ le chiamerebbe lo psichiatra Massimo Fagioli –  che risalgono in superficie durante la veglia, affiorando nella mente che muove la mano dello scrittore.

    Ma per comprendere meglio dobbiamo rubare al Pirandello de I giganti della montagna un po’ del suo pensiero verbale: «A noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa sia in noi, ben viva, e si rappresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita. È il libero avvento di ogni nascita necessaria».

    Ad un lettore attento non può sfuggire che le immagini che scaturiscono leggendo questo libro, sono simili, ma non uguali, al racconto di un sogno generato dal rapporto con la realtà che nella notte diviene pensiero inconscio. Scrive Calvino, nella prefazione, che il testo è nato in un lungo periodo «come poesie che mettevo sulla carta. (…) Per qualche tempo mi veniva da immaginare solo città tristi e per qualche tempo solo città contente».

    Interessante notare come lo scrittore non tenga “la giusta distanza” dai propri stati d’animo, anzi, forse inconsapevolmente, traduce il proprio pensiero inconscio in immagini. Ed è per questo, dice l’autore, «che si deve leggere questo libro come un libro di poesie».

    Sempre nella sua prefazione, Calvino, cita Le mille e una notte e Il deserto dei Tartari di Buzzati. In effetti il Marco Polo di Calvino assomiglia a Shahrād  la principessa che ogni notte sfida la morte raccontando al re di Persia una favola che porta a termine solo la notte successiva. Anche Marco Polo ha davanti un potente sovrano, il Gran Kan, con il quale ha una dialettica straordinariamente complicata, costruita con un linguaggio irrazionale fatto di allusioni criptiche.

    Ma, a pensarci bene la storia è molto diversa. Shahrāzād fa una dialettica con l’altro da sé, un dialettica mortale che però ha uno scopo ben preciso: tenere vivo e rinnovare il desiderio. Potremmo invece interpretare la dialettica tra Marco e Kublai come un dialogo con il proprio alter ego. In questi dialoghi sparsi tra i racconti della città, l’autore cerca di indagare, cerca di conoscere questo mondo invisibile interno che a volte emerge alla coscienza in forma di immagine: « per virtù spontanea della sua stessa vita».  Anche perché Marco Polo, ed il suo viaggio verso oriente, rappresentano l’andare verso l’ignoto. Il mercante veneziano è colui che poi ritorna e racconta, non esattamente la cronaca di ciò che ha visto con gli occhi della veglia, ma tracce inconsce di ciò che lo ha affascinato.

    Il protagonista de Il deserto dei Tartari, Giovanni Drogo, è l’esatto opposto di Marco Polo. Egli non varca nessun confine, non cerca l’ignoto: nella prima pagina del romanzo, egli si guarda allo specchio «ma senza trovare la letizia che aveva sperato (…) nello specchio, vedeva uno stentato sorriso sul proprio volto che invano aveva cercato di amare».

    Allo specchio Drogo non si riconosce, ha perso l’immagine di sé . Poi perderà anche Maria la sua immagine femminile e, senza quella parte di sé, come dice Calvino, è un essere umano dimezzato. La donna ha da sempre rappresentato l’irrazionale, l’identità umana invisibile, e senza di lei non è possibile andare a vedere cosa c’è oltre il confine, oltre le porte d’oro dell’invisibile. Per farlo, come succede nel suo racconto Il barone dimezzato, le due parti, cosciente inconscio si devono fondere.

    Il protagonista del romanzo di Buzzati invece non comprende il senso dell’esistenza. Non ascolta l’eco di quel “conosci te stesso” socratico che è ricerca dell’ignoto, che è allo stesso tempo ricerca nell’altro da sé della nostra primaria uguaglianza con l’altro da sé, e ricerca della nostra insopprimibile alterità identitaria rispetto all’altro da sé. Per Drogo ciò che sta oltre il confine della propria realtà è solo un “cuore della tenebra” da tenere a bada montando ogni notte di guardia sugli spalti della Fortezza Bastiani.

    E Drogo rimane alla fortezza, fino alla fine, gettando alle ortiche la propria vita, per impedire ai Tartari, vale a dire al mondo della fantasia e dell’irrazionale, di irrompere nella civiltà della ragione dove egli si è vigliaccamente trincerato.

    Gli esseri umani, senza rendersene conto, in ogni istante della vita interpretano la realtà. Ė il nostro sguardo inconscio, fuso col pensiero, che indaga ciò si presenta ai nostri occhi. Solo quando vi è la totale desertificazione della psiche, ciò che vediamo, diventa solo un mero dato oggettivo. Ed è malattia mentale, grave.

    Diverso è ciò che immagina Calvino: all’imperatore Mongolo, Marco Polo, non racconta la realtà oggettiva ma visioni di città. Per Kublai il viaggiatore giunto dal paese delle Esperidi, diviene il proprio sguardo per non rimanere in superficie, per andare nella profondità del reale. In un gioco di realtà e apparenza Marco svela al Gran Kan la propria fantasia interna, come faceva Shahrāzād, per non morire e perché l’altro da sé non muoia.

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    Le parole del libro fluiscono raccontando per enigmi, con la lingua del sogno, con i segnidella vita che scorre, mai uguale a sé stessa. E il linguaggio delle immagini diviene pensiero verbale, e poi parola scritta per comunicare. Forse è un linguaggio oscuro, sibillino come i frammenti di Eraclito il quale, quando non trovava un fonema che esprimesse l’essenza delle cose della sua mente, lasciava uno spazio tra una parola e l’altra; e non era un’assenza, era il silenzio e la pausa che creano, con il suono, la musica.

    Certamente in quest’opera Calvino non utilizza il logos, il linguaggio razionale che violenta la mente creato per mentire. La sua lingua è figlia di Lete e Mnemosine, dimenticanza e memoria inconscia.

    E noi dovremmo cercare sempre di vedere ciò che c’è dentro il linguaggio; dovremmo cercare di distinguere i suoni dai rumori. Dovremmo, come scrive Calvino in questo libro: «… cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio». Per poi visitare altre città invisibili, “città gravide d’arte e di bellezza, città come carte da gioco: Nera Regina di Picche, Rossa Regina di Cuori”.

    Articolo apparso per la prima volta nel dicembre 2005 sulla rivista Quattro Passi e  postato su G&N il 13 settembre 2012

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    Italo Calvino Le città invisibili

    Oscar Mondadori, 2007- Pp 192, Euro 8,00

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