• Piazza agorà teatro … (seconda parte)

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    di Gian Carlo Zanon

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    L’arte teatrale trasfigura la realtà, la carica di senso e la rappresentazione diviene più vera della verità vera perché è il contenuto di quella verità-realtà.

    Potremmo dire che nel momento in cui un attore entra in scena e nel momento in cui uno spettatore si lascia catturare da ciò che vede e sente scatta una dinamica irrazionale.

    Gorgia: «con i suoi miti e le sue passioni la tragedia produce quell’inganno in rapporto al quale chi inganna è più onesto di chi non inganna e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato».

    Frase apparentemente sibillina ma che illustra perfettamente ciò che accade, o meglio cosa dovrebbe

    accadere,  di “magico” nel momento in cui si assiste ad una rappresentazione scenica, che questa sia cinema o teatro o danza o mimo o altre forme rappresentative. Ed è certo che questa è la verità altrimenti non si capirebbe il motivo per cui, di fronte ad un’azione scenica, ci arrabbiamo, ci emozioniamo, piangiamo. Eppure sappiamo benissimo che questa ‘cosa’ che vediamo è una “menzogna”. Chi ha serbato la capacità di lasciarsi “ingannare” dall’arte e la capacità poi di uscire dalla rappresentazione arricchito da questa esperienza irrazionale è senza dubbio un individuo che ha conservato la propria fantasia interiore.

     

     

    Quando si fa teatro si rappresenta, si ricrea la realtà, e, ricreandola, si va a svelare il contenuto invisibile degli avvenimenti, dei rapporti, degli affetti. La tragedia greca si nutre del mito epico che è “memoria fantasia” e non ricordo cosciente di fatti accaduti molto tempo prima e ai quali si vuole dare un contenuto, un senso, che plasmi l’etica degli spettatori.

     

    Quando si va in piazza a far mercato, il rapporto con la realtà è quello della veglia, chiaro preciso; quando si sta in uno spazio che è divenuto scenico, per un “accordo” tra attore e spettatore, il rapporto con la realtà deve essere messo tra parentesi, sospeso. Questi due livelli non vanno mai confusi tra loro.

     

    Lo psichiatra Massimo Fagioli: «L’attore gestisce i ricordi o i deboli fantasmi della soddisfazione del desiderio: Si veste della pelle del lupo, piange e ride, uccide e ama. Si espone all’indifferenza e alla rabbia dello spettatore: Il giorno in cui lo spettatore, con rabbia o con angoscia, dovesse fuggire dal teatro è il giorno in cui l’uomo ha paura. E’ il giorno della cecità dell’invidia e della violenza. L’uomo non sa più giocare, ha perduto l’investimento sessuale della realtà, la speranza».

     

    Nel rituale primitivo l’atto di assumere la maschera trasformava l’uomo in divinità e chi assisteva alla sua mutazione varcava le porte dell’invisibile per poi tornare nella realtà di tutti giorni come se nulla fosse successo… come svegliarsi dal sonno sapendo che i sogni sono memorie inconscie di sensazioni divenute tracce mnesiche che perdurano nella mente ma che, al tempo stesso, sono pensieri importanti, che andrebbero decifrati.

     

    Il teatro rinasce nel medioevo nelle vie, nelle piazze e nei sagrati, come autos sacramentales, che erano ricostruzioni sacre, per lo più inscenate su carri, o davanti ai sagrati, che poco hanno a che fare con ciò che dicevamo sopra a proposito di rappresentazione. Comunque sia, nella storia del teatro sono importanti perché da questi autos sacramentales  si svilupperà poi la Commedia dell’arte.

    Per quanto riguarda lo spazio scenico dal mitico carro di Tespi, dove avvenivano appunto le rappresentazioni della Commedia dell’arte, si passerà poi, nella seconda metà del ‘500, ai corrales spagnoli, teatri all’aperto ricavati dalla chiusura di una via o di un patio entrambi contigui nel tempo ai teatri elisabettiani che stavano nascendo in Inghilterra.

     

     

    Nelle piazze, in questi larghi spazi,  molto avvenne, e molto, tuttora, avviene: l’agorà, era il luogo d’incontro e di dialettica nell’alba della filosofia occidentale; la piazza è lo spazio che precede la dimora degli atridi dove si consumò la tragedia che, definendo definitivamente il patriarcato, ha corrotto la cultura occidentale; piazze sono gli spazi che nella Città Proibita fanno da pausa tra la porta di una dimora e un’altra porta e un’altra piazza. La piazza è anche luogo d’incontro di strade e crocevia: il trivio dove si consuma il parricidio edipico; piazza di Trevi … Piazza della Bastiglia nata al posto di un luogo di torture e prigionia ma è anche Piazza Venezia e Piazzale Loreto dove immagini tragiche ci ricordano un tragico passato e piazza Tiennamen, dove naufraga la speranza dei giovani cinesi; la piazza è tutte le Plazas de Las Armas dove, negli anni ’70 e ’80, si realizzò l’incubo reazionario dei nipoti dei latifondisti sudamericani divenuti i capi delle oligarchie capitalistiche spronate, come racconta Horacio Verbitsky nel suo libro L’isola del silenzio, al massacro dalla Chiesa cattolica, dall’Opus Dei, e dalle altre corporazione cattoliche che volevano la fine de los rojos.

     

     

    Potrei continuare all’infinito, ma, per quando mi riguarda, la piazza, è un bene comune, inteso come luogo che appartiene alla comunità. Vale a dire che le piazze sono quegli spazi, che nelle città, appartengono ancora alle circoscrizioni e quindi ai comuni e quindi ai cittadini e che, dato il valore economico, che questi spazi urbani assumono, fanno gola a gruppi di potere economico, che cercano, corrompendo i politici eletti dal popolo, di accaparrarsi questi luoghi per trasformarli in beni privati a scapito del bene comune.

    Proviamo a pensare ad una piazza, in una polis greca in un periodo storico che va dal XV al VI secolo a. C., dove un aedo, aoidós, un cantore, seduto in un angolo narra leggende e miti arcaici.

    (L’aedo aveva, nella cultura, greca varie funzioni: narrando i miti egli divulgava una proto lingua greca, la faceva vivere e divenire; inoltre diffondeva l’etica sociale, rappresentata nei miti.

     

    In un frammento di Eraclito troviamo una frase significativa: ”étos antropo daimon” che potremmo tradurre: l’immagine interna il daimon – è etica per l’essere umano. Certamente un’etica in divenire, anche perché il comportamento di Achille è vistosamente differente da quello di Odisseo. Il canto degli aedi dava alla koinè greca un’idea di civiltà che doveva essere interiorizzata e fatta infine divenire prassi di vita e comportamento sociale.)

     

    Ora pensiamo ad un teatro, anzi ad un’immagine quasi onirica di anfiteatro. Un teatro viene solitamente pensato come un luogo architettonico dove gli attori si recano a rappresentare tragedie e commedie. Per assurdo si potrebbe quasi pensare che è il teatro stesso, inteso come luogo fisico, fatto di mura e poltrone, che fa scaturire la rappresentazione. Certamente non è vero.

     

    E, se immaginassimo un luogo, una terra di nessuno, e quindi di tutti, mettiamo un posto addossato alla collina, dove, visto l’asperità del terreno, finiscono le case. Ecco pensiamo a questo luogo e a qualcuno, a più individui che vogliono ‘essere teatro’, che hanno voglia di fare e rappresentare una ricerca sul teatro, sulla sua storia, sulla sua nascita, sul suo divenire attraverso i secoli, aperto a chiunque si trovasse a passare da quelle parti. Cerchiamo di immaginare dei cantori che raccontino la nascita della tragedia, ma anche della filosofia, della lirica e della poesia, in un linguaggio comune, umano, comprensibile, a chi vuole conoscere. Cerchiamo di immaginare ad un teatro diverso, senza muri.

     

    Immaginiamo una piazza, l’ Agorà dell’antica Grecia, dove un aedo, abituato a raccontare, in modo schematico, il solito mito, si elevi dal terreno dove era seduto e, ribellandosi all’abitudine che lo teneva incatenato ai canoni epici, impersoni uno o più personaggi dell’epica mitica creando così la tragedia e il teatro.

    Immaginiamo che questo angolo di città, “abitato” da individui che si incontrano per fare ricerca sul teatro, scaturiscano, come per magia, strutture nate dalle voci di chi fa teatro, che appaiano, come in un sogno, sipari, scalinate …immaginiamo…come scriveva Pirandello nei Giganti della montagna: «…A noi basta immaginare, e le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa sia in noi, in noi ben viva, e si rappresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita. È il libero avvento di ogni nascita necessaria. Al più, al più, noi agevoliamo con qualche mezzo la nascita».

     

     

    Gorge Steiner, nella sua opera Morte della tragedia, racconta di aver visto in un ambiente rurale cinese «…una pantomima che rappresentava la lotta contro i banditi imperialisti e la vittoria finale degli eserciti contadini. La cerimonia si chiuse con la narrazione dell’eroica morte di uno dei fondatori del partito comunista locale, ucciso dai giapponesi e sepolto lì vicino. Mi chiedo se non sia stato con un rito di sfida e di pietà per i morti simili a questo, che la tragedia nacque, tremila anni fa, sulle pianure di Argo».

     

    F I N E

     

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