• Storia di una percezione delirante occidentale e il genocidio dei “feroci e sanguinari” waimiri-atroari

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    2 Disegni Waimiri-Atroari

     

    WAIMIRI-ATROARI *

    Loretta Emiri **

    Il coinvolgimento con le sorti del popolo yanomami portava con sé marginalizzazione ed isolamento. I partecipanti del “III Incontro di Educazione Indigena” mi suggerirono di sviluppare rapporti di collaborazione con l’équipe che operava fra gli indios waimiri-atroari. Circa mille chilometri ci separavano, ma erano le persone a me più vicine tra quelle che gravitavano intorno all’organizzazione promotrice degli incontri di educazione. Mettendo a confronto le nostre esperienze e riflettendo a più menti, mi sarei sentita, forse, meno sola.  Date le distanze, approfittai del ritorno da un viaggio al sud per recarmi nella Prelatura di Itacoatiara  cui quelle persone erano legate, poi nella casa di appoggio che serviva loro per raggiungere i villaggi waimiri-atroari. A bordo della camionetta guidata da un componente dell’équipe, sul far della sera di un giorno di marzo del 1986 giunsi nella cittadina di Presidente Figueiredo.  La casa di appoggio era di legno, arredata di misere cose essenziali, piena di mercanzie che la rendevano simile a un deposito. L’équipe di indigenisti era composta da due coppie di sposi; una di esse aveva due figliolette, l’altra coppia aveva tre bambini e aspettava il quarto. Alcuni giovani waimiri-atroari avevano appeso le loro amache nella veranda della casa. Fu così che conobbi i sopravvissuti di quella che è stata fatta passare per l’etnia più pericolosa e sanguinaria del Brasile.

    Risalgono all’epoca delle prime spedizioni esplorative le aggressioni ai popoli indigeni della regione che si estende dal nord di Manaus e Itacoatiara fino al sud dello Stato di Roraima. Fra il 1720 e 1730, la stessa area divenne il palco della guerra contro Ajuricaba (1). Alcuni popoli della regione, tra cui i manaua, cominciarono a scomparire. Per sterminare gli indigeni rimasti, a partire dal 1850 i governi regionali organizzarono spedizioni sistematiche. Ad ogni tentativo che metteva a rischio libertà e sovranità territoriale, i popoli waimiri e atroari si univano e lottavano per la causa comune; finite le pressioni sparivano nella foresta, e riapparivano in altri luoghi sempre difendendo con coraggio i propri territori. Nel corso della storia gli indios vennero silenziosamente massacrati, ma qualsiasi morte da loro provocata era denunciata con chiasso per  giustificare nuove spedizioni punitive, nuovi incendi e saccheggi di villaggi, nuove stragi. Quella che era semplice autodifesa veniva fatta passare per ferocia.

     

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    1 LWaimi-Atroari

    Alla fine degli anni sessanta iniziò la militarizzazione dell’area, perché l’esercito costruì la strada BR 174 che congiunge Manaus a Boa Vista, capitale di Roraima. Aerei ed elicotteri controllavano gli spostamenti degli indios, bombe distruggevano i villaggi, macchinari squarciavano la foresta, voci gridavano ordini. Il controllo  dell’organizzazione  indigena  venne  affidato  alla FUNAI, l’ente governativo che agli indios avrebbe dovuto fornire assistenza; armati fino ai denti, in una determinata epoca i suoi funzionari arrivarono ad essere centoventi; avevano il compito di intimidire, raggirare, corrompere, creare divisioni interne, disorganizzare, integrare forzatamente gli indigeni alla società nazionale. Documenti e testimonianze hanno successivamente comprovato l’uso, da parte dei militari, di bombe, dinamite, mitragliatrici; invece la FUNAI inoculava vaccini contro malattie da virus, in superdosi che ammazzavano senza far rumore.

    Nel 1968 i waimiri-atroari uccisero i membri di una spedizione che aveva il compito di “pacificarli”; convincerli, cioè, ad allontanarsi dal tracciato della strada. Agli indios venne definitivamente attaccata addosso l’etichetta di selvaggi, barbari, esseri crudeli. Al missionario italiano che capeggiava la spedizione, di etichette ne affibbiarono due: per aver fatto scelte discutibili e commesso errori grossolani, in Brasile è ritenuto uno sprovveduto; in patria è considerato un martire. La strada avrebbe rapidamente modificato l’assetto fisico della regione, portando con sé industrie del legname, aziende agricole, allevamenti di bestiame; essa avrebbe reso possibile anche il concepimento di progetti turistici, uno dei quali prevedeva la costruzione di una ferrovia che passasse accanto ad un villaggio per propiziare la visione dei “pericolosi indios atroari”.

    Nel 1973 vennero scoperti giacimenti di cassiterite. Nel 1974 i waimiri-atroari uccisero il funzionario della FUNAI Gilberto Pinto e la sua équipe; fatto alquanto controverso dato che Gilberto era da loro considerato e chiamato “papà”. Nel 1979 la FUNAI autorizzò cinque compagnie ad iniziare le ricerche mineralogiche. Alla fine del 1981 venne approvata la costruzione di una nuova strada che sarebbe servita per ritirare i minerali. Infine, il governo decise di realizzare la faraonica centrale idroelettrica di Balbina. Il territorio indigeno venne così definitivamente consegnato alle imprese nazionali e multinazionali. Nel 1905 i waimiri-atroari erano stati stimati in seimila individui; nel 1968 erano tremila; nel 1975 non superavano le mille persone; nel 1982 erano ridotti a cinquecentosettantuno; nel 1987 ne restavano trecentosettantaquattro.

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    Prima di essere autorizzati a lavorare con i waimiri-atroari, cui era imposto un angosciante isolamento, i miei amici avevano dovuto aspettare cinque anni. Durante la lunga anticamera  avevano portato avanti campagne di sensibilizzazione della società regionale e nazionale. Veicolando informazioni più obiettive e formulando denunce avevano contribuito a modificare l’immagine che i bianchi si erano fatti di questo popolo, ottenendo addirittura che segmenti della società affiancassero gli indios nella lotta per il diritto alla vita e alla terra.

    Il giorno dopo il mio arrivo nella casa di appoggio, ci sedemmo intorno a un tavolo per una riunione che si sviluppò a partire dall’informazione che il novanta per cento dei waimiri-atroari con più di quattro anni d’età erano orfani. Nonostante gli indigenisti facessero molta attenzione a non approfondire le lezioni di storia, il terribile dramma vissuto dagli indios negli ultimi quindici anni veniva sempre fuori. Profondamente traumatizzati, si interrogavano sulle ragioni per cui i “civilizzati” si fossero accaniti tanto contro di loro. Molte volte avevano disegnato scene in cui aerei o elicotteri sorvolano i villaggi, immagini sempre accompagnate dalla scritta “perché?”. Durante l’incontro ebbi modo di apprezzare alcuni stupendi disegni, due dei quali risultarono essere particolarmente  significativi.  Nel  primo  lavoro  c’era scritto  “mio  padre  mi  ha  lasciato  sul sentiero per Wanakta”; il breve testo racchiude una storia contundente: il padre dell’autore era il capo di un villaggio che fu attaccato di notte dai “civilizzati”; donne e bambini potettero fuggire, mentre l’uomo tratteneva l’assalto; raggiunto da un tiro alle costole, riuscì a ricongiungersi alla moglie e ad imboccare il sentiero per il villaggio di Wanakta; poi svenne e morì. Nell’altro disegno c’era scritto “mia madre non mi ha insegnato a fare l’amaca”; la frase era stata chiarita durante una discussione, e significava che la mamma dell’autrice era morta di morbillo molto giovane, dopo che il marito era deceduto nella lotta di resistenza. Quando lasciai Presidente Figuiredo per far ritorno in Roraima, mi sentivo più sola e angosciata che mai. I miei amici riuscirono a mantenersi fra i waimiri-atroari per appena sedici mesi; poi il governo li espulse.

    In televisione giorni fa qualcuno ha affermato che l’Italia è il paese più vecchio d’Europa, nel senso che il numero degli anziani che vi si concentra è molto elevato. Occupo un monolocale al pianoterra di un palazzo in cui si sono concentrate quattro esponenti della quarta età. Al primo piano abita una nobile decaduta di novantaquattro anni; si imbelletta con rossetti dai colori squillanti, che mettono più in evidenza il volto incartapecorito; per nascondere un occhio di vetro, porta scuri e frivoli occhialoni; è ridotta ad uno scheletro; fa una certa impressione quando la si vede andare in giro sotto una pesante pelliccia di visone, calzando tacchi a spillo, dovendosi aggrappare a figlio e nuora; i due preferirebbero trascorrere qualche serena ora in più con i nipotini ma, essendo cattolici ortodossi, votati al sacrificio, soddisfano  religiosamente tutti i capricci dell’eterna bambina. Al secondo piano abita una ex operaia di novantacinque anni; in casa si è conquistata una posizione strategica, che le permette di controllare tutti gli spostamenti del figlio; lo aspetta al varco e, ogni volta che passa, gli chiede di portare avanti la partita a carte iniziata ventuno anni fa; grossolanamente e frequentemente, la furbacchiona gli ricorda di aver fatto fronte alla sue disavventure economiche, così, a causa dei sensi di colpa che gli provoca, l’uomo non trova mai il coraggio di dirle di no; a lui non resta tempo per leggere, scrivere, ascoltare musica, visitare gli amici, viaggiare, dedicarsi a moglie, figli e nipoti; tutto indica che l’indigesta partita a carte cesserà solo quando il povero diavolo avrà preso coscienza di essersi giocato la vita.

     

    Al terzo piano abita una ex insegnante di novantasei anni; vuole essere assistita solo dalla nipote presidentessa di associazione culturale; quest’ultima ha mandato in malora impegni e attività per assecondare l’egoista borghese, così degna rappresentante della nostra individualista società. Al quarto piano vive una ex contadina di novantasette anni; dal suo letto di morte riesce ancora a far tremare di paura la figlia; nel caso che la madre-padrona muoia davvero prima di lei, e ho i miei dubbi, mi chiedo se la poverina riuscirà almeno a tirare un sospiro di sollievo. Per una stramba coincidenza, alcuni giorni fa ho incontrato sul pianerottolo di casa, tutte in una volta, le vittime privilegiate delle quattro deliziose vecchiette. In quell’attimo mi è tornata in mente la frase “il novanta per cento dei waimiri-atroari con più di quattro anni d’età sono orfani”, ed ho sentito la necessità di elaborare questo brano. Ci sono dei periodi in cui, per ragioni di sopravvivenza, non riesco a concentrarmi e a scrivere; l’insoddisfazione e i sensi di colpa allora mi squarciano. Di recente, un pensiero ha lenito la mia inquietudine. Scrittori resi famosi da uno o due libri, ne sfornano poi tanti altri assolutamente mediocri. Auguro a me stessa di scrivere poche cose ma buone; così, se un giorno avrò dei lettori, non li tedierò con libri superflui e dispensabili quanto gli anni della quarta età.

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    (1) Eroe della resistenza indigena.

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    * Il brano “Waimiri-Atroari” è uno dei capitoli del libro Amazzone in tempo reale.

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    ** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i libri di racconti Amazzonia portatile, Amazzone in tempo reale (premio speciale della giuria per la Saggistica, del Premio Franz Kafka Italia 2013) e A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito Romanzo indigenista, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, AMAZZONIA – fratelli indios, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, La bottega del Barbieri, Pressenza, Euterpe.

      

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