• Il Restauro della parola – Linguaggio che unisce, linguaggio che esclude

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    di Gian Carlo Zanon

    Sono finiti da pochi mesi festeggiamenti per il cinquecentenario dell’unità d’Italia e il varesotto Bossi è ormai politicamente fallito. Alleluia. Nessuno più di lui aveva fatto del dialetto varesotto una barriera linguistica contro i tartari che prima o poi sarebbero arrivati a corrompere questi suoni gutturali che campeggiano anche sui segnali stradali. In un delirio di grettezza, intellettuale pari solo al fascismo, Bossi e i suoi camerati pensavano, alcuni lo pensano ancora, che gli innumerevoli dialetti sparsi nel Nord dell’Italia potessero divenire la lingua unica di quello Stato che non c’è che avevano denominato Padania. Ma si può essere più imbecilli di così.

    E mentre il Bossi chiuso nel suo Cerchio magico sventolava ampolle e baciava i nerboruti padani con tanto di corna vichinghe, i cretinetti del quartiere rubavano caramelle da milioni di euro.

    Visto che parliamo di linguaggi chiariamo che i dialetti sono e devono rimanere una ricchezza territoriale. Chi ha seguito il teatro dialettale del genovese Gilberto Govi o la Compagnia dialettale I Legnanesi, con la famosa Teresa Colombo creata da Felice Musazzi, sa bene che valore culturale ed artistico hanno i patois. Lo stesso vale per il teatro milanese di Carlo Bertolazzi: El nost Milan non ha nulla da invidiare a un Scarpetta o alle amare commedie di De Filippo.

    Certamente questi autori di teatro ma anche poeti come il milanese Carlo Porta o il romano Trilussa non scrivevano nel loro dialetto con il fine di escludere culturalmente gente che abitava a qualche centinaio di chilometri di distanza, ma solo perché quel linguaggio era loro più congeniale per esprimere al meglio ciò che con la lingua italiana non sarebbe loro riuscito.

    Poi naturalmente ci sono dei geniacci come il siciliano Pirandello capace di scrivere contemporaneamente il lingua siciliana e in lingua italiana un’intera opera teatrale. Al museo del Teatro situato alle spalle del Teatro di Torre Argentina a Roma, c’è un quadernetto autografo di Pirandello sul quale potete leggere nella pagina di sinistra in siciliano e nella pagina di destra in italiano la sua commedia Liolà.

    È inutile ripetere per l’ennesima volta che la lingua italiana è stata compresa e parlata solo dopo l’avvento della televisione.  Fino a metà degli anni ‘60 se un Bergamasco della Val Brembana scendeva a valle e faceva altri 50/60 kilometri verso Milano, arrivato a Gorgonzola non lo comprendeva più nessuno.

    Ma quello delle lingue create per riuscire ad avere un rapporto con l’altro da sé, è un problema solo per poveri di mente. Per tutti gli altri che hanno conservato un po’ di umanità, dialogare non è mai stato un problema … ricordo, un Natale a Londra, un colloquio di mezz’ora con un cinese che non parlava inglese come non lo parlavo io: eppure ci capivamo benissimo.

    E forse ciò che scrisse Isidoro di Siviglia nel suo Etymologiae: «Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt» cioè “sono le lingue che fanno i popoli, non i popoli già costituiti che fanno le lingue”, non ha più molto senso. Anche se un linguaggio comune è importante del punto di vista materiale perché assolve il compito di dare delle regole lessicali e grammaticali condivise che servono per disciplinare il pensiero/linguaggio articolato, in realtà per fare una società culturalmente coesa non serve una lingua unificatrice. Servono esseri umani che usino il proprio linguaggio soggettivo, che non è fatto solo di suoni articolati, per dialogare con altri esseri umani, per comprenderli, per ridefinire ad ogni incontro la propria identità umana.

    L’altro non è un limite invalicabile, né un inconoscibile, né un razza da cancellare . È il linguaggio della ragione, che ben si attaglia a personaggi come Bossi o Hitler, che ci ripete questo ritornello da almeno tremila anni. Per i filosofi greci coloro che non parlavano con la loro lingua era Barbari, parola che trae la sua etimologia da “balbuziente”, cioè “uomo che non riesce ad articolare le parole”.

    E questa ‘maledizione razionale’ che grava sul pensiero occidentale l’abbiamo rivista poche mesi fa quando i leghisti hanno fatto le leggi fasciste che obbligano gli extracomunitari all’apprendimento coatto dell’italiano.

    E pensare che, come scrisse la filologa Noemi Ghetti nel suo libro L’ombra di Cavalcanti e Dante, la lingua italiana nasce in Sicilia nelle corte di Federico II di Svevia come “rivolta dei poeti siciliani al latino ecclesiastico”

    5 giugno 2012

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