• L’enigma dell’Altro – seconda parte

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     di Gian Carlo Zanon

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    Noi abbiamo la possibilità di intuire la realtà interna dell’Altro da sé per mediante le sensazioni che il rapporto ci trasmette.  E, ciò che rimane di più vero e pregnante è l’immagine, non cosciente, che rimane dopo quel rapporto. Il nostro sguardo può depauperare l’Altro o lo può arricchire nel senso poetico del fare. Potremmo dire, ‘per assurdo’, che, come il colore non esiste, perché non è altro che il rapporto tra luce e materia, così noi non esistiamo senza rapporto, o, meglio, esistiamo ma non siamo.

    Certamente vi è una infinita dialettica percettiva tra l’immagine obiettiva dell’Altro che si stampa sulla retina e il soggetto che poi accampa questa stessa immagine nello spazio permeandola di senso. Nella percezione con l’Altro da sé non ci dovrebbero essere – e il condizionale è d’obbligo – idee  a priori di kantiana memoria, ma il formarsi istante per istante, del fenomeno in divenire perpetuo. Panta rei, tutto scorre nel continuo divenire del rapporto tra percezione obiettiva e immagine soggettiva.  Lo sguardo malato e quindi violento nega l’essenza umana; la dialettica come prassi di fare poetico la arricchisce. Noi diciamo ‘l’Altro’… e per Noi l’Altro è sempre oltre la frontiera. La linea di quell’irrequieto confine è la nostra capacità di pensare il rapporto, di immaginarlo.

    Storicamente il perturbante sconosciuto deve rientrare in una categoria perché solo così si può pacificare l’angoscia del nuovo, dell’Altro da sé. Non riconoscere un essere umano come proprio simile solo perché non è esattamente identico a noi è un delirio che va sempre rifiutato. Non farlo significa aderire a credenze misogine, xenofobe, naziste.

    Rifiutare, non l’umano uguale/diverso da noi, ma il disumano. Non parliamo solo di quel rifiuto etico, che sorge sicuro per una palese violenza fisica;  parliamo, anche e soprattutto, di un rifiuto interno che dovrebbe scattare nel nostro essere più profondo di fronte a quegli abusi invisibili, sotterranei che si perpetuano ogni giorno nelle famiglie, nei luoghi di studio e di lavoro, nei rapporti fra uomo e donna, fra diversi di stato sociale, tra forti e deboli.

    Parliamo di abusi psichici fatti di parole apparentemente normali, di piccoli gesti, di assenze, di annullamenti quasi inavvertibili che distruggono l’essere come mille punture di vespa; parliamo di quelle tragedie senza grida che si svolgono nel quotidiano e che immergono l’identità dei ‘gabbiani’, delle donne, dei bambini, dei più deboli perché non violenti, nel veleno del non esisti, non sei.

    Parliamo del padre deludente, che si assenta e continua a guardare la partita nonostante il figlio cerchi di comunicargli una sua realizzazione: un ottimo voto o il suo languore adolescenziale per la ragazzina di cui si è innamorato. A questa assenza invisibile ci si deve ribellare e opporre un rifiuto. Un rifiuto che mette in crisi il rapporto con un Altro che non è più umano quando il livello della sua distruzione è troppo forte. Rifiutare l’Altro che ha perduto la sua umanità significa aprire gli occhi e vedere chi si ha di fronte, vederlo nella sua realtà umana, senza negarlo né idealizzarlo; rifiutare un rapporto distruttivo significa opporsi all’annullamento, quindi separarsi prima interiormente, poi a livello materiale se e quando si avranno gli strumenti per farlo. Vale a dire età, libertà economica, ma, forse, anche sufficiente vitalità. Si deve rifiutare e ci si deve separare da chiunque cerchi di impedire le nostre realizzazioni umane.

    Accade frequentemente che l’Altro venga negato perché le sue qualità appaiono troppo stridenti con le percezioni abitudinarie che mettono in crisi l’usuale visione del mondo.

    E se l’Altro da sé è uno stimolo eccessivo deve essere fatto rientrare nelle nostre proprie categorie di pensiero, alterando il vero senso del suo essere, deformando, negativamente, l’immagine percepita: l’Altro non è più esattamente quello che è perché, negato, si è impoverito, ha perso le sue caratteristiche originali, le sue qualità, il suo vero senso nel mondo.

    Mettiamo il caso di una ragazza che prima era la docile fidanzata e che ora si sta trasformando in una donna con una forte identità; ebbene il suo Lui la nega rimanendo fermo all’immagine precedente, cercando follemente di farla rientrare in quei canoni in cui era abituato a percepirla e che lo tranquillizzavano. Lei si trasforma, ed è crisi: o Lui fa un movimento per cercare di seguire il divenire della ragazza o deve negare ciò che gli procura angoscia. Se sceglie la seconda strada sceglie il non è, la negazione, l’annullamento, sceglie di chiudere gli occhi di fronte a ciò che perturba la propria identità troppo povera per poter reggere questa nuova immagine.

    Ci sono due parole, nella lingua cinese, che unite esprimono il concetto di crisi: wuei-chi. Il significato, dei due fonemi staccati, è opportunità e pericolo: opportunità di cogliere un movimento vitale che può divenire anche per sé stessi un’occasione di trasformazione; pericolo e conseguente angoscia di destrutturazione, per chi vive il divenire dell’Altro come impossibilità di trasformazione per sé stesso.

    26 settembre 2012

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