• Ribellione?

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     20 maggio 2012 – Oggi abbiamo aperto il giornale con le notizie dal mondo. Il tema scelto era la Ribellione. Due notizie, quelle de El Pais e del Guardian riguardavano la ribellione legittima sotto ogni punto di vista degli indignados. Un’altra bellissima e civile ribellione è quella del popolo algerino che, come scrive il quotidiano Libertè, è uscito dal fatalismo religioso rifiutandosi di votare i partiti di matrice islamica. Le Monde rende pubblica la ribellione dei prigionieri politici palestinesi che continuano lo sciopero della fame per rivendicare i loro diritti di esseri umani che vanno trattati come tali. Anche questa ribellione, che essendo pacifica non lede l’altro da sé, ci sembra legittima.

    La ribellione che, come fa il giornale L’Unità, non condividiamo è quella del terrorismo. Condividiamo anche l’interpretazione del giornalista del giornale che parla di persone profondamente malate, psicopatici, che percepiscono, come il Breivik della strage di Oslo, gli esseri umani unicamente come bersagli inanimati da colpire.

    Volevamo, a questo punto fare una disamina del significato del concetto di ribellione, ma preferiamo lasciare la parola alla rappresentazione in quanto essa ha la capacità di interpretare meglio la realtà approfondendone il senso.

    Nel 2003, al teatro delle belle arti de L’Aquila, nel corso della manifestazione “Ribellione, la prima arte” è stato rappresentato un monologo dal titolo Ribellione.

    Ne presentiamo alcuni frammenti

    Ribellione

    Un palcoscenico disadorno triangolare, con la punta che si innesta fra il pubblico, un tavolo modernissimo quasi al centro del proscenio, sul tavolo un computer, che servirà anche per illuminare il viso dell’attrice in alcuni momenti), sul tavolo, e attorno al tavolo, cataste di libri in semi disordine: si deve dare l’idea di un lavoro di ricerca in atto; vale a dire : studio e scrittura.

    Ci saranno le luci fortissime e cangianti nel colore e zone d’ombra assoluta dove l’attrice potrà sparire per alcuni secondi. i rumori di sottofondo, che dovranno sottolineare il testo interpretato dall’Attrice, saranno quelli naturali dell’acqua che scorre, del  vento, del fuoco che divampa, di un cuore che batte, della risacca e del rifrangersi delle onde del mare in tempesta.

    il Computer si accende, rumori classici di computer, l’Attrice-Ribellione appare al computer, ed inizia a leggere dal video:

    Ribelle:…. colui che rinnova la guerra; colui che rifiuta la ripetizione, le norme, le leggi dei padri.

    L’Attrice si alza e indossa un saio molto femminile;

    (il mantello avrà un cappuccio che verrà indossato solo alla lettura dei brani di Giordano Bruno.)

    L’Attrice prende un libro e legge:

    «per l’uomo arcaico, la psiche è la trama del proprio destino, e si presenta sotto forma di daimon, un essere sovrannaturale, che conduce dentro ogni essere umano un’esistenza autonoma; questa divinità è la legge interna, la legge dell’umano»

    Poi, quasi accorgendosi di trovarsi davanti a qualcuno, si rivolge direttamente al pubblico (metateatro):

    Io sono la Ribellione. Sacrilega; la mia origine? La mia origine è nell’urlo della nascita e in quella materia dove il tempo non era ancora iniziato…. il mio divenire è tempo umano.

    Appaio nel grido della nascita, nella traccia di ogni essenza. Sono l’orgoglio potente, la dismisura. Sono vita , vita fremente. Vivo già in ciò che ancora non ha forma.

    Fui Zagreo a Creta, Dioniso fra gli Ioni, venni riportata alla vita dai poeti della tragedia che mi tradirono… li abbandonai, lasciai la sedia vuota nei teatri dell’Attica a conferma della mia assenza.

    Sono una minaccia per ogni regola scritta, per tutte le certezze e le credenze del sapere cristallizzato.

    Ero nel braccio di Ettore: lo stesso braccio che cingeva innamorato Andromaca ed era possente nella battaglia.

    Ero nello sdegno della ragazza di Tebe: Antigone bella, l’orgoglio di Edipo negli occhi, Antigone condannata dal suo nome, dal suo sangue, a vivere una vita estrema. Si ero Antigone, Antigone che si ribella….che rifiuta le leggi dei padri……aspramente rifiuta. Si ribella per rivendicare la propria appartenenza al genere umano; Antigone che dice no… anche se tutti dicono sì,….. e poi vanno ad incatenarsi come cani ai loro quattro ossi….. di “felicità”.

    Anche Edipo si cibò del mio nettare, si ribellò al fato, mi onorò del suo sguardo; cantò i miei canti, fu viandante, libero, straniero scioglitore di enigmi.

    Poi si dimenticò di me, credette di essere un superbo ribelle e cieco non vide che tramutava nel padre, il vecchio violento che al trivio aveva ucciso con rabbia. Edipo si liberò dei miei stendardi e scelse le braccia rassicuranti della moglie-madre; non rischiò più l’orma insicura che gli amanti lasciano sul cuscino. L’ultima volta che lo vidi chiedeva … chiedeva agli altri di sé.

    Così fu: arcaici eroi, sognando i miei sogni distruggevano l’ordine del Cosmo, poi Nemesis, giustizia distributrice, placava i giganti che si erano ribellati agli Dei, calmava le divinità telluriche;  ridisegnava il Cosmo, l’ordine delle cose; nel nuovo equilibrio il ricordo della rivolta trovava spazio nella realtà trasformata e… nuove forme nascevano nella mente degli uomini: Prometeo pagò a caro prezzo il suo atto di orgoglio, ma ai mortali rimase il fuoco che salva loro la vita.

    La mia forma muta col tempo ma la mia essenza è antica quanto le prime immagini che affollarono la mente di un uomo. Sono il movimento, il divenire, uccido il passato, assedio il presente.

    Nessuno può fermarmi, quando qualcuno tenta di impossessarsi della mia immagine scompaio, mi nascondo, assumo altre forme e aspetto tempi … e donne e uomini migliori.

    Nell’anno 1548 nacque Bruno, il mio figlio migliore; a Trento erano già riuniti i suoi carnefici. Fui sorella e sua ombra, lui fu filosofo e scienziato, artefice del proprio destino, ebbe vita fatata. Anch’egli doveva dire no e andare a testa alta verso la morte. Per non rinnegare la mia essenza finì sul rogo.

    Lo stesso inestinguibile fuoco ora divampi attorno e dentro di voi a ricordare la mia invisibile presenza.

    L’Attrice in momenti come questo “attacca” violentemente il pubblico.

    In momenti come questo la luce sarà rossa e il cuore batterà all’impazzata quasi a coprire le parole dell’attrice.

    La luce cambia in un colore più tenue e i rumori di sottofondo si attenuano.

    L’attrice indossa il cappuccio, raccoglie un polveroso libro, lo apre e legge:

    «Io ho nome Giordano della famiglia dei Bruni,della città de Nola vicino a Napoli dodeci miglia, nato e allevato in quella città, e la professione mia è stata ed è di littere e d’ogni scienzia; e mio padre aveva nome Gioanni, e mia madre Fraulissa Savolina; e la professione de mio padre era di soldato, il quale è morto insieme anco con mia madre… e nacqui, per quanto ho inteso dalli miei, dell’anno 48. E sono stato in Napoli a imparar littere de umanità logica e dialettica sino a 14 anni ; e solevo sentir lezioni publiche d’uno che si chiamava il Sarnese, ed andavo a sentir privatamente la logica da un padre augustiniano, chiamato fra Teofilo da Variano, che doppo lesse la metafisica in Roma: E de 14 anni, o 15 incirca, pigliai l’abito di San Dominico, nel monasterio o convento de S. Dominico in Napoli;e fui vestito da un padre, che era allora prior in quel convento…»

    (…)

     «E chi mi impenna, e chi mi scald’ il core?

    chi non mi fa temer fortuna o morte?

    Chi le catene ruppe e quelle porte,

    onde rari son sciolti et escon fore?

    L’etadi, gli anni, i mesi,i giorni e l’ore

    figlie et armi del tempo, e quella corte

    a cui né ferro né diamante è forte

    assicurato m’han dal suo furore.

    Quindi l’ali sicure a l’aria porgo,

    né temo intoppo di cristall’ o vetro;

    ma fendo i cieli, e a l’infinito m’ergo.

    E mentre dal mio globo a gli altri scorgo,

    e per l’eterio campo oltre penetro:

    Quel ch’altri lungi vede, lascio a tergo.»

    L’attrice si toglie il mantello e lo appoggia con molta energia sulla sedia:

    Già, volava alto Bruno… non poteva far altro. Doveva cantare il suo essere e dire di no e… morire. Non poteva far altro che morire perché amava troppo la vita. E se non capite è inutile che stiate qui a guardarmi, perché tanto non mi vedete. Piuttosto di vedere pupille vuote preferisco essere accolta con grida di odio.

    (…)

    Ora è possibile ribellarsi senza sangue; non ho un volto definito, sono dentro di voi, come immagine interna in movimento.

    Sono reazione all’abitudine, alla norma. I miei canti vivono solo per i giovani esigenti dal pensiero tagliente.

    Il mio seme è nel primo vagito delle rivoluzioni; spesso, troppo spesso le abbandono. Le rivolte fallite non hanno mai racchiuso la mia immagine di femmina altera. Ho altre armi per altri tempi, ora i miei eroi non vanno più alla bella morte, né si richiudono nelle torri a fantasticare la vita. Quando gli uomini rischiano di perdere l’ultimo sogno che gli rimane mi evocano… ed io emergo urlando la mia nascita.

    Sono un canto di  frontiera, sono il Duende che fa danzare la ballerina ogni volta che si sente violentata dai suoni oltraggiosi del flamenco e si contorce invasata dalla divinità della danza. Duende che si deve evocare dalle più segrete oscurità del corpo. Questo mio oscuro potere , che spinge alla rappresentazione, viene da molto lontano; era già vivo nelle sillabe cuneiformi dei sumeri, ha attraversato l’arte minoica, la tragedia greca e tutto ciò che fu ricerca sulla realtà ignota degli esseri umani e che ora come sempre diviene visibile nelle opere d’arte.

    Opera d’arte che contende allo spazio zone inesplorate, creazione poetica che annienta i limiti della percezione.

    Ma sono anche la crisi che pretende una scelta, legge primordiale che giudica il fare umano. Sono una frontiera che non si può varcare a ritroso. Chi accetta il mio dominio  deve arrendersi al suo più profondo destino: rincorrere la propria legge interna.

    Eppure dovreste accorgervi della mia esistenza, anche se non vedete la mia tenda berbera, né la valigia dell’addio, io vivo lì, accampata vicino alle vostre case. No non abito nelle vostre calde dimore dove si consumano tragedie senza grida. La mia indignazione è vita,…..superbia…. i miei figli devono dire dei no incomprensibili alle persone amate e vederle allontanare come nelle separazioni (…)

    Sono una, mille donne che rifiutano di volgere la faccia dall’altra parte, che serbano ancora quell’immagine di sé che uno, mille, centomila Creonti hanno perduto per sempre. Antigoni, ragazze che si ribellano perché la loro legge interiore stride troppo dolorosamente con le leggi dei padri, dei Re, dei Legislatori, degli uomini potenti che nascondono la loro impotenza nella sopraffazione, che usano la ragione per nascondere la loro follia. Agamennoni che hanno ucciso le loro figlie più care: le utopie e le speranze. Uomini potenti con gli occhi vuoti che mendicano come il più miserabile servo un piatto diaccio di amore tremando di freddo anche sotto il sole d’estate.

    Una, mille donne mi chiedono il mistero di baci mai provati, notti mai vissute. Mi pregano di non lasciarle morire tra le braccia di amanti distratti, poi si allontanano altere, regine dei loro sogni. Le vedo svanire mischiandosi alla folla.

    Quanti pensieri agitano il petto delle donne, pensieri che chiedono di vivere nella luce del giorno.  Donne in rivolta, che dicono di no senza sapere perché; dicono di no perché sentono il grido folle delle Erinni che tornano a ricordare la giustizia sotterranea, a ricordare la rivolta perché una vita destituita di senso è peggio della morte vera.

    Se non si rifiuta l’assenza e l’indifferenza dell’amante …..ci si ammala; ci si ammala. La Melanconia strega matrigna è li acquattata tra i rovi e colpisce con quel suo nero veleno che acceca…. e non si vede più …..e si annaspa in un gorgo di sensazioni a cui non si riesce a dare né un’immagine, né un senso, né un nome.

    Si…sono il no dell’amante che si ribella all’assenza dell’altro:

    Il colore ora è oro e il rumore è risacca. L’attrice prende una busta, ne estrae una lettera , la legge:

    “La mancanza di te è  arrivata improvvisa un giorno d’estate. Era caldo, la folla inquieta; ancora nello sguardo il sogno della notte: una figura di donna, triangolare, dorata. E non poteva che essere quel giorno. Lei era già presente, l’avevo sentita arrivare Ma… non l’ho riconosciuta. Non poteva che essere quel giorno, quel giorno in cui una maledetta sensibilità femminea aveva messo a nudo, di nuovo, i miei nervi. Tu giravi tra i sorrisi, ti sei avvicinata e la mancanza si è messa tra di noi, forse tu non ti sei accorta ma lei stava in mezzo a noi, palpabile come cosa viva. No, non aveva immagine, la mancanza non ha immagini. Lei era un pugno nello stomaco, era il tuo sguardo, era quello che non c’era più. Non ti ho parlato di lei per molti giorni anche se la mancanza si insinuava nelle tue parole, le tue parole che non erano per me, erano una parodia, solo un canto senza senso né scopo.

    La colpa? Nessuno ha colpa, nessuno.E’ successo, stavamo così vicini, mangiavamo dalle mani dell’altro, non ci siamo accorti che ci stavamo smarrendo.

    Una notte in sogno le labbra mute di una donna amata mi hanno detto “ti amo”, e al mattino il mare era di nuovo lì …infinito.”

    (…)

    Dove vivo? Chi sono ora? Di cosa mi nutro?

    Oggi attraverso città sazie d’arte e bellezza. Città come carte da gioco: nera Regina di Quadri, rossa Regina di Cuori. Il mio alimento? In primavera mi nutro di vaghe forme di donne; di sole e gesti nudi d’estate; di città da costruire e castelli abbandonati in autunno. D’inverno, poi, fingo piccole morti e ascolto i gemiti di stagioni affioranti pregne di nuove nascite.

    L’attrice/Ribellione si risiede al computer come chattando. Una Ragazzetta  tutta vestita d’oro appare come d’incanto, come uscisse da una crisalide, raccoglie un polveroso libro, percorre tutto il palcoscenico inondato di luce rossa scomparendo poi repentinamente in una zona d’ombra; la  voce fuori campo dell’Attrice recita l’ultimo sonetto di Giordano Bruno:

    “Se non togliete il ben che v’è da presso,

    come torrete quel v’è lontano

    Spreggiar il vostro mi par fallo espresso,

    e bramar quel che sta ne l’altrui mano.

    Voi sète quel ch’abbandonò se stesso

    la sua sembianza desiando il vano;

    voi sète il veltro che nel rio trabocca ,

    mentre l’ombra desia di quel ch’ha in bocca.

    Lasciate l’ombre et abbracciate il ver,

    non cangiate il presente col futuro,

    io d’aver dì meglior già non dispero;

    ma per viver più lieto e più sicuro,

    godo il presente, e del futuro spero:

    cossì doppia dolcezza mi procuro.”

    Fine

    © Gian Carlo Zanon

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