• “All’albeggiare emersi” – recensione

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    di Gian Carlo Zanon

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    «All’albeggiare emersi», con queste parole di notevole forza semantica inizia il romanzo La donna abitata di Gioconda Belli. E queste parole, autenticamente poetiche, hanno il suono della ribellione e rivendicano la nascita e la responsabilità dell’essere.

    Solo dopo aver letto il romanzo e la stupenda intervista di A.M. Torriglia, posta in chiusura del libro, si comprende come  queste tre parole, che creano un suono epico, siano una estrema sintesi di ciò che l’autrice ha raccontato in una prosa con accenti di grande poesia.

     

    Il romanzo prende spunti, in parte autobiografici, del vissuto dell’autrice all’interno del Fronte Sandinista in cui ha avuto una parte attiva: «Ho perso molte, molte persone care. Il commando di cui facevo parte, per esempio, era composto da dieci persone, siamo rimaste vive solo in due. Ho perso anche un uomo che amavo molto, Marcos …».

    La Belli nasce Managua nel 1949, in una famiglia dell’alta borghesia nicaraguense. Studia in Spagna e negli Stati Uniti. Tornata nel suo paese si specializza in giornalismo e comunicazione ed inizia a lavorare presso alcune agenzie pubblicitarie. Dal 1973 è impegnata attivamente nel Fronte di Liberazione Nazionale Sandinista e, caduta la dittatura del dittatore Somoza,  torna in Nicaragua dopo un esilio di tre anni, per impegnarsi nella campagna elettorale sandinista, partito dal quale poi ne è uscita delusa e amareggiata: «Sono uscita dal Fronte Sandinista con una poesia. – dice nell’intervista – In realtà non sapevo che quella poesia era una lettera di dimissioni, ma l’ho capito mentre la scrivevo.»

     

     

    La vittoria finale dei rivoluzionari in Nicaragua

     

    La donna abitata, scritto come un concerto sinfonico, in un crescendo trascinante, narra di una donna, affermata professionista, che, inconsapevolmente, viene ‘abitata’ da un’altra donna, Itzá, vissuta cinque secoli prima e uccisa dai conquistadores spagnoli. La ribellione di Itzá, la guerriera, rinasce lentamente in Lavinia – la protagonista del romanzo – entra nel suo sangue e apre i suoi occhi che finalmente vedono l’orrore dell’oppressione del ’Grande generale’, e la costringono al ribrezzo verso i suoi sgherri e alla pietas verso chi viene sfruttato dai potenti e ammansito da «l’effetto narcotizzante della religione».

    Alla donna delle pulizie, alla quale salva la vita, che andava spegnendosi a causa di un aborto clandestino, Lavinia dice che: «… le religioni erano state fatte dagli uomini. Non le sembrava ingiusto che la rassegnazione la raccomandassero solo ai poveri?».

     

    Itzá, dall’albero di arance nel quale il suo spirito si è incarnato, osserva ogni giorno la trasformazione della ragazza, e la racconta: «Lentamente, Lavinia ha toccato il fondo di se stessa, raggiungendo il luogo in cui giacciono i sentimenti nobili che gli dei danno agli uomini prima di mandarli a dimorare sulla terra. La mia presenza e stata la lama per tagliare l’indifferenza. Ma dentro di lei esistevano occulte le sensazioni che ora affiorano …»

     

    Sembra di udire la voce di Antigone che antepone alla legge del tiranno Creonte : «… le leggi non scritte degli dei, leggi immutabili che non sono di ieri o di oggi, ma esistono da sempre, e nessuno sa da quando.» Le leggi inscritte nel no della nascita.

    E gli occhi di Lavinia che «brillano con lo stupore di chi ancora continua a scoprire» infiammati da Itzá, non vedono solo la tragedia dell’ingiustizia sociale, ma anche il diverso da sé, Felipe, che sarà, fino alla fine, ciò che Yarince il ribelle, fu per Itzá. E sarà un grande amore, difficile e doloroso come sono i veri amori tra un uomo e una donna.

     

     

    Le storie delle due donne si fondono e così i popoli amerindi sterminati dagli spagnoli divengono gli oppressi dalla giunta militare di Faguas, la rivolta che fu di Itzá e Yarince diviene la ribellione di Lavinia e Felipe.

     

    Il romanzo oltre a narrare vicende e gesta eroiche accadute a cinquecento anni di distanza, aiutando il lettore a capire cosa fu la ‘famosa’ conquista del Nuovo Mondo da parte degli Spagnoli: gli fa conoscere anche le vicende dei paesi del Sudamerica del secolo scorso dove la feroce ingiustizia sociale faceva nascere i movimenti di rivolta armata che venivano catalogati, dai giornali occidentali, alla stessa stregua del terrorismo italiano o tedesco degli anni ‘70 e ‘80.

    La verità è ben altra e questo libro aiuta a conoscerla.

     

    Emiliano Zapata: seduto al centro

     

    Zapata, il Comandante Marcos, il Che, non erano i nostri deliranti terroristi, essi lottavano per la vita stessa dei popoli.  Il movimento peruviano dei Tupamaros doveva il suo nome all’ultimo comandante Inca che lottò contro gli spagnoli, Tupac Amaru, e le statue che lo ricordano ora si ergono nelle piazze andine al posto di quelle dei conquistadores che uccidevano, schiavizzavano, violentavano, in nome della santa Chiesa cattolica. Chiesa cattolica che aveva stabilito, nel 1553 nella disputa di Valladolid,  che gli indigeni delle Americhe, non avendo neppure un’anima, potevano essere trattati come animali da soma.

     

     Sub comandante Marcos ( a sinistra a cavallo) e le sue truppe rivoluzionarie

     

     

    Gioconda Belli, nell’intervista citata, parlandoci della sua visione della vita umana, forse inconsapevolmente, narra della genesi del romanzo:

     

     Gioconda Belli

     

     

    «La vita in sé non è un valore assoluto. C’è bisogno di una qualità della vita. (…) La vita è un dono, ma allo stesso tempo è un caso, un azzardo. È dovuta ad una serie imprevedibile di coincidenze che hanno creato da un certo ovulo e da un certo spermatozoo un individuo o un altro (..) e io credo che, per il solo fatto di essere vivi, noi abbiamo una responsabilità.(…) È una responsabilità che cambia con il tempo. Per me, ad esempio, in questo momento è la scrittura. (…) Come scrittrice sento la necessità di generare e far crescere consapevolezza. Questo è il ruolo che assegno alla scrittura: quello di elaborare pensieri che permettano ad altri individui di capire meglio se stessi e quello che vogliono – un ruolo che è, se vogliamo, di responsabilità sociale.»

     

    Da questo humus umano nasce il romanzo di Gioconda Belli, dai suoi limpidi pensieri che dicono della responsabilità dell’essere umani. Pensieri, che … “all’albeggiare emergono”  nella rêverie dei risvegli.

     

    Gioconda Belli

    Edizioni e/o

    euro 9,00

     

    Leggi l’incipit del romanzo

    • Grazie Gian Carlo. Bellissima recensione. Qualche tempo fa mi sono presa la briga di trascrivere l’alba di questo meraviglioso libro. La ricopio qua.

      ” All’albeggiare emersi. E’ strano tutto ciò che è accaduto dal giorno in cui mi trovai nell’acqua, l’ultima volta che vidi Yarince. Gli anziani dicevano nel corso della cerimonia che avrei viaggiato verso il Tlalocan, i tiepidi giardini d’oriente-paese del verde e dei fiori accarezzati dalla pioggia tenue- e invece mi sono ritrovata sola per secoli in una dimora di terra e radici, a osservare stupita il disfacimento del mio corpo nell’humus e nella vegetazione. Tanto tempo ad alimentare la memoria vivendo nel ricordo delle maracas, del frastuono dei cavalli, delle sommosse, delle lance, dell’angoscia per la sconfitta, di Yarince e delle forti nervature della sua schiena. Erano giorni che udivo i piccoli passi della pioggia, le grandi correnti sotterranee che si avvicinavano alla mia dimora centenaria, si aprivano varchi, e mi attiravano dall’umida porosità del suolo. Sentivo che il mondo era vicino, me ne accorgevo dal colore diverso della terra. …..Vidi le radici. La mani tese che mi chiamavano. E la forza di quell’ordine mi attirò irresistibilmente. Penetrai nell’albero e lo percorsi come una lunga carezza di linfa e di vita, un dischiudersi di petali, un tremito di foglie. Sentii il ruvido involucro, la delicata architettura dei rami, e mi allungai nei meandri vegetali di questa nuova pelle, mi stiracchiai dopo tanto tempo, sciolsi le mie chiome, e mi affacciai verso il cielo azzurro attraversato da nuvole bianche per ascoltare gli uccelli che continuavano a cantare come prima. …..Cantai anch’io (avrei voluto danzare) e sopra il mio tronco apparvero zagare e, in tutti i miei rami, profumo di arance. Mi chiedo se finalmente ho raggiunto le terre tropicali, il giardino dell’abbondanza e del riposo, la gioia pacata e inesauribile riservata a coloro che muoiono sotto il segno di Quiote-Tlaloc, signore delle acque…Perché non è tempo di fioriture, è tempo di frutti. Ma l’albero ha assunto il mio calendario, la mia vita; il ciclo di altri crepuscoli. E’ tornato a nascere, abitato da sangue di donna. …..Nessuno ha sofferto questa nascita, come accadde quando sporsi la testa tra le gambe di mia madre. Questa volta non ci sono state incertezze, né lacerazioni nella gioia. La levatrice non ha sepolto il mio xicmetayolt, il mio ombelico, nell’angolo oscuro della casa; né mi ha presa tra le braccia per dirmi: “ Starai dentro la casa come il cuore sta dentro il corpo…sarai la cenere che copre la brace del focolare”. Nessuno ha pianto nel darmi il nome, come dovette fare mia madre, perché dalla lontana comparsa dei biondi, degli uomini con peli sulla faccia, tutti i presagi erano tristi e temevano di chiamare l’indovino perchè mi desse un nome, mi desse il segno. Avevano paura di conoscere la mia sorte. Poveri genitori! La levatrice mi lavò, mi purificò invocando Chalchiuhtlicue, madre e sorella degli dei, e in quella stessa cerimonia mi chiamarono Itzà, goccia di rugiada. Mi diedero il nome di adulta, senza aspettare che arrivasse per me il tempo di sceglierlo, perché temevano il futuro. ….Ora,invece, tutto sembra tranquillo intorno a me: ci sono arbusti potati da poco, fiori in grandi fioriere e un vento fresco che si muove, mi dondola da una parte all’altra come se mi salutasse, mi desse il benvenuto alla luce dopo tanta oscurità.. E’ strano quello che mi circonda: muri, costruzioni dalle ampie pareti come quelle che ci facevano innalzare gli spagnoli. …..Ho visto una donna che ha cura del giardino. E’ giovane, alta, con capelli scuri, bella. I suoi lineamenti sono simili a quelli delle donne degli invasori, ma ha la stessa andatura delle donne della tribù, si muove con determinazione, come ci muovevamo e camminavamo noi prima dei tempi brutti. Mi chiedo se lavorerà per gli spagnoli. Non credo che lavori la terra né che sappia filare. Ha mani delicate e occhi grandi, brillanti. Brillano con lo stupore di chi ancora continua a scoprire. Tutto è rimasto in silenzio quando se ne è andata; non ho udito suoni provenire dal tempio, movimenti di sacerdoti. Soltanto la donna abita questa dimora e il suo giardino. Non ha famiglia né marito, e non è una dea perché ha paura: ha chiuso porte e chiavistelli prima di andare via. …..Il giorno in cui fiorì l’arancio, Lavinia si alzò presto per andare a lavorare per la prima volta nella sua vita……………………………………………………………..

      • Questo romanzo di Gioconda Belli mi colpì molto, per molte ragioni. Ma forse perchè lei ha saputo trasfigurare il suo tragico vissuto in poesia e speranza di vita umana. Un’altra cosa che mi piace di lei è questo amore non religioso per la natura.

        Gian Carlo

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