• Biografie poetiche: Nazim Hikmet

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    A cura della redazione di G&N

    Nazim Hikmet nasce a Salonicco nel 1902. La passione per la poesia la eredita dal nonno e dalla madre, fin dalla tenera età ha occasione di conoscere artisti e poeti, di frequentare circoli letterari. Pubblica i suoi primi versi a diciassette anni. Frequenta l’università a Mosca, attratto dalla Rivoluzione Russa e dalle sue promesse di giustizia sociale. Tornato in patria viene arrestato, colpevole di collaborare con una rivista di sinistra. Costretto a rifugiarsi a Mosca ha contatti con le avanguardie e, in particolare, con Majakovkij. Solo una amnistia generale gli permette di tornare in patria nel 1928.

    Tra il 1929 e il 1936 pubblica nove libri che rivoluzioneranno il modo di scrivere turco. Libera la poesia dalle convenzioni letterarie ottomane ed introduce versi liberi ed uno stile colloquiale.

    Nel 1938 viene condannato a 28 anni di carcere per la sua opposizione al regime di Kemal Ataturk. Le sue poesie, i suoi articoli, i suoi libri sono considerati un incitamento alla rivolta. Sotto accusa, in particolare, “L’epopea di Sherik Bedrettin” dove Hikmet racconta la ribellione contadina del 1500 contro l’impero ottomano. L’analogia è evidente.

    È Pablo Neruda nella sua autobiografia poetica Confieso que è vivido a raccontare come l’amico Hikmet viene trattato durante la sua prigionia «…accusato di aver tentato di incitare l’esercito turco alla ribellione, Nazim è stato condannato alle punizioni più terribili. Mi ha detto che è stato costretto a camminare sul ponte di una nave fino a non sentirsi troppo debole per rimanere in piedi, quindi lo hanno legato in una latrina dove gli escrementi arrivavano a mezzo metro sopra il pavimento…Il mio fratello poeta ha sentito le sue forze mancare : i miei aguzzini vogliono vedermi soffrire. Resiste con orgoglio. Comincia a cantare, all’inizio la sua voce è bassa, poi sempre più alta fino ad urlare. Ha cantato tutte le canzoni, tutti i poemi d’amore che riesce a ricordare, i suoi stessi versi, le ballate d’amore dei contadini, gli inni di battaglia della gente comune. Ha cantato qualsiasi cosa che la sua mente ricordasse. E così ha vinto i suoi torturatori.»

    Nel 1949, a Parigi, una commissione internazionale della quale fanno parte, tra gli altri, Pablo Picasso, Paul Robeson, Jean Paul Sartre, si batte per la liberazione di Hikmet.  Nello stesso anno si forma il primo governo turco eletto democraticamente e Hikmet viene nuovamente liberato in seguito ad una amnistia generale. Ben presto la sua persecuzione ricomincia più spietata che mai. Nel1950 gli viene assegnato il Nobel  per la pace.

    Simone de Beavoir ricorda gli eventi di quei giorni «Mi raccontò come nell’anno successivo alla sua liberazione subì due attentati, con le macchine, nelle vie di Istanbul. In seguito provarono a costringerlo a fare il servizio militare nella frontiera russa: aveva quasi cinquant’anni.  Il dottore, un maggiore, gli disse mezz’ora in piedi sotto il sole e sei un uomo morto. Ma io ti darò un certificato di buona salute. Così riuscì a scappare, di notte, attraverso il Bosforo, con un motoscafo. Voleva raggiungere la Bulgaria ma era impossibile considerate le condizioni climatiche. Incontrò una nave da carico rumena, che non si fermò. La inseguì, nonostante la tempesta. Dopo circa due ore si fermarono, senza però farlo salire a bordo. Il motore del motoscafo era ormai fuori uso. Si considerava senza via di scampo. Inaspettatamente riuscì a salire sulla nave. L’equipaggio chiese istruzioni a Bucarest. Esausto, mezzo morto, arrivò barcollando nella cabina del capitano, dove vide una sua enorme fotografia con il titolo SALVATE NAZIM HIKMET. La parte più divertente, ricordava Nazim, fu che ero già libero da più di un anno».

    Costretto ad espatriare a Mosca. Il governo turco nega il permesso alla moglie ed al figlio di seguirlo. Durante il suo esilio ha il secondo attacco di cuore. Nonostante le sue condizioni di salute continua a lavorare duramente, visitando non solo l’Europa dell’Est ma Roma, Parigi, L’Avana, Pechino. Privato della cittadinanza turca nel 1959 sceglie di diventare cittadino polacco. Nello stesso anno si sposa per la terza volta. Muore a Mosca nel giugno del 1963, a causa dell’ennesimo attacco di cuore. Il giorno prima, sentendo forse la sua fine vicina, scrive la sua ultima poesia “Il mio funerale

    Il mio funerale partirà dal nostro cortile?
    Come mi farete scendere giù dal terzo piano?
    La bara nell’ascensore non c’entra
    e la scala è tanto stretta.

    Il cortile sarà, forse, pieno di sole, di piccioni
    forse nevicherà, i bambini giocheranno strillando
    forse sull’asfalto bagnato cadrà la pioggia
    e al solito ci saranno i bidoni per l’immondezza.

    Se mi tiran su nel furgone col viso scoperto, come usa qui,
    forse mi cadrà in fronte qualcosa di un piccione, porta fortuna,
    che ci sia o no la fanfara, i bambini accorreranno
    i bambini sono sempre curiosi dei morti.

    La finestra della nostra cucina mi seguirà con lo sguardo
    il nostro balcone mi accompagnerà col bucato steso.
    Sono stato felice in questo cortile, pienamente felice.
    Vicini miei del cortile, vi auguro lunga vita, a tutti.

    Il poeta turco attraverso i suoi versi parla di se stesso, del suo Paese, dei valori in cui crede fermamente e per i quali ha combattuto. La sua vita è inscindibile dalla sua poesia. Eppure, nonostante i soprusi, le ingiustizie, le torture e le privazioni subite, dai suoi versi traspare una purezza lirica straordinaria, una volontà inarrestabile nel trasmettere i suoi ideali ed una passione che vive nelle sue poesie d’amore di una bellezza straordinaria.

    In occasione del centenario della sua nascita , il governo turco restituirà al grande poeta la cittadinanza che gli era stata ritirata. L’iniziativa fa seguito ad una petizione di oltre mezzo milione di cittadini.

    POESIE

    Il più bello dei mari

    Il più bello dei mari
    è quello che non navigammo.
    Il più bello dei nostri figli
    non è ancora cresciuto.
    I più belli dei nostri giorni
    non li abbiamo ancora vissuti.
    E quello
    che vorrei dirti di più bello
    non te l’ho ancora detto.

    Non ci lasciano cantare

     

    Non ci lasciano cantare, Robeson,

    mio amico delle Canarie, con ali d’aquila,

    mio fratello con denti di perla.

    Non ci lasciano urlare le nostre canzoni.

    Hanno paura, Robeson,

    Hanno paura dell’alba, paura di vedere,

    pura di udire, paura di suonare.

    Hanno paura di amare,

    Pura di amare come Ferhat, appassionatamente.

     

    (Sicuramente anche voi fratelli neri,

    dovete avere un Ferhat. Come lo chiamano Robeson?)

    Hanno paura del grano e della terra,

    dell’acqua che scorre,

    del ricordo.

    La mano di un amico che non chiede

    Né uno sconto, né una commissione, né una dilazione

    come un passero tiepido

    mai gli strinse la mano.

     

    Hanno paura della speranza,

    Robeson, paura della speranza.

    Hanno paura, amico mio, che hai ali d’aquila,

    hanno paura dei nostri canti, Robeson …


    Ottobre 1949

    Ti amo come se mangiassi il pane

    Ti amo come se mangiassi il pane
    spruzzandolo di sale
    come se alzandomi la notte bruciante di febbre
    bevessi l’acqua con le labbra sul rubinetto
    ti amo come guardo il pesante sacco della posta
    non so che cosa contenga e da chi pieno di gioia
    pieno di sospetto agitato
    ti amo come se sorvolassi il mare per la prima volta in aereo
    ti amo come qualche cosa che si muove in me quando il
    crepuscolo scende su Istanbul poco a poco
    ti amo come se dicessi Dio sia lodato son vivo.


    Lettere dal carcere a Munevver

     

    Che sta facendo adesso
    adesso, in questo momento?
    E’ a casa? Per la strada ?
    Al lavoro? In piedi? Sdraiata?
    Forse sta alzando il braccio?
    Amor mio
    come appare in quel movimento
    il polso bianco e rotondo!
    Che sta facendo adesso
    adesso, in questo momento?
    Un gattino sulle ginocchia
    Lei lo accarezza.
    O forse sta camminando
    ecco il piede che avanza.
    Oh i tuoi piedi che mi son cari
    che mi camminano sull’anima
    che illuminano i miei giorni bui!

    A che pensa?

    A me? O forse…chi sa
    ai fagioli che non si cuociono.
    O forse si domanda
    perché tanti sono infelici
    sulla terra.
    Che sta facendo adesso
    adesso, in questo momento?

    Ti ho sognata

    Ti ho sognata
    mi sei apparsa sopra i rami
    passando vicino alla luna
    tra una nuvola e l’altra
    andavi, e io ti seguivo
    ti fermavi e io mi fermavo,
    mi fermavo, e tu ti fermavi,
    mi guardavi e io ti guardavo
    ti guardavo e tu mi guardavi
    poi tutto è finito.

    Sei la mia schiavitù sei la mia libertà

     

    Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
    sei la mia carne che brucia
    come la nuda carne delle notti d’estate
    sei la mia patria
    tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
    tu, alta e vittoriosa
    sei la mia nostalgia
    di saperti inaccessibile
    nel momento stesso

    in cui ti afferro.

    Alla vita

    La vita non è uno scherzo.
    Prendila sul serio
    come fa lo scoiattolo, ad esempio,
    senza aspettarti nulla
    dal di fuori o nell’al di là.
    Non avrai altro da fare che vivere.

    La vita non é uno scherzo.
    Prendila sul serio
    ma sul serio a tal punto
    che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
    o dentro un laboratorio
    col camice bianco e grandi occhiali,
    tu muoia affinché vivano gli uomini
    gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
    e morrai sapendo
    che nulla é più bello, più vero della vita.

    Prendila sul serio
    ma sul serio a tal punto
    che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
    non perché restino ai tuoi figli
    ma perché non crederai alla morte
    pur temendola,
    e la vita peserà di più sulla bilancia.


    Amo in te

    Amo in te
    l’avventura della nave che va verso il polo
    amo in te
    l’audacia dei giocatori delle grandi scoperte
    amo in te le cose lontane
    amo in te l’impossibile
    entro nei tuoi occhi come in un bosco
    pieno di sole
    e sudato affamato infuriato
    ho la passione del cacciatore
    per mordere nella tua carne.

    amo in te l’impossibile

    ma non la disperazione.

    Ciò che ho scritto di noi

    Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia
    è la mia nostalgia
    cresciuta sul ramo inaccessibile
    è la mia sete
    tirata su dal pozzo dei miei sogni
    è il disegno
    tracciato su un raggio di sole

    ciò che ho scritto di noi è tutta verità
    è la tua grazia
    cesta colma di frutti rovesciata sull’erba
    è la tua assenza
    quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via
    è la mia gelosia
    quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati
    è la mia felicità
    fiume soleggiato che irrompe sulle dighe

    ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia

    ciò che ho scritto di noi è tutta verità.

     –

    Benvenuta, donna mia, benvenuta!

    Benvenuta, donna mia, benvenuta!

    certo sei stanca
    come potrò lavarti i piedi
    non ho acqua di rose né catino d’argento

    certo avrai sete

    non ho una bevanda fresca da offrirti

    certo avrai fame
    e io non posso apparecchiare
    una tavola con lino candido

    la mia stanza è povera e prigioniera

    come il nostro paese.
    Benvenuta, donna mia, benvenuta!
    hai posato il piede nella mia cella

    e il cemento è divenuto prato

    hai riso

    e rose hanno fiorito le sbarre

    hai pianto

    e perle son rotolate sulle mie palme

    ricca come il mio cuore
    cara come la libertà
    è adesso questa prigione.

    Benvenuta, donna mia, benvenuta!

    L’addio

    L’uomo dice alla donna
    t’amo
    e come:
    come se stringessi tra le palme
    il mio cuore, simile a scheggia di vetro
    che m’insanguina i diti
    quando lo spezzo
    follemente.

    L’uomo dice alla donna
    t’amo
    e come:
    con la profondità dei chilometri
    con l’immensità dei chilometri
    cento per cento
    mille per cento
    cento volte l’infinitamente cento.

    La donna dice all’uomo

    ho guardato

    con le mie labbra
    con la mia testa col mio cuore
    con amore con terrore, curvandomi
    sulle tue labbra
    sul tuo cuore
    sulla tua testa.
    E quello che dico adesso
    l’ho imparato da te
    come un mormorio nelle tenebre
    e oggi so
    che la terra
    come una madre
    dal viso di sole
    allatta la sua creatura più bella.
    Ma che fare?
    I miei capelli sono impigliati ai diti di ciò che muore
    non posso strapparne la testa
    devi partire
    guardando gli occhi del nuovo nato
    devi abbandonarmi.

    La donna ha taciuto
    si sono baciati
    un libro è caduto sul pavimento
    una finestra si è chiusa.

    È così che si sono lasciati


    Nelle mie braccia tutta nuda

    Nelle mie braccia tutta nuda
    la città la sera e tu
    il tuo chiarore l’odore dei tuoi capelli
    si riflettono sul mio viso.
    Di chi è questo cuore che batte
    più forte delle voci e dell’ansito?
    è tuo è della città è della notte
    o forse è il mio cuore che batte forte?
    Dove finisce la notte
    dove comincia la città?
    dove finisce la città dove cominci tu?
    dove comincio e finisco io stesso?

    Autobiografia (1962)

    Sono nato nel 1902
    non sono più tornato
    nella città natale
    non amo i ritorni indietro
    quando avevo tre anni
    abitavo Alep
    con mio nonno pascià
    a 19 anni studiavo a Mosca
    all’università comunista

    a 49 ero a Mosca di nuovo
    ospite del comitato centrale
    del partito comunista
    e dall’età di 14 anni
    faccio il poeta
    alcuni conosco bene le varie specie
    delle piante altri quelle dei pesci
    io conosco le separazioni
    alcuni enumerano a memoria i nomi
    delle stelle io delle nostalgie
    ho dormito in prigioni e anche in alberghi di lusso
    ho sofferto la fame compreso lo sciopero della fame
    e non c’è quasi pietanza
    che non abbia assaggiata
    quando avevo trent’anni hanno chiesto
    la mia impiccagione
    a 48 mi hanno proposto
    per la medaglia della Pace
    e me l’hanno data
    a 36 ho traversato in sei mesi
    i quattro metri quadrati
    di cemento
    della segregazione cellulare
    a 59 sono volato
    da Praga all’Avana
    in diciotto ore
    ero di guardia davanti alla bara di Lenin nel ’24
    e il mausoleo che visito sono i suoi libri
    han provato a strapparmi dal mio Partito
    e non ci son riusciti
    e non sono rimasto schiacciato
    sotto gl’idoli crollati
    nel 51 con un giovane compagno
    ho camminato verso la morte
    nel 52 col cuore spaccato ho atteso la morte
    per quattro mesi sdraiato sul dorso
    sono stato pazzamente geloso delle donne ch’ho amato
    non ho invidiato nemmeno Charlot
    ho ingannato le mie donne
    non ho sparlato degli amici
    dietro le loro spalle
    ho bevuto ma non sono stato un bevitore
    ho sempre guadagnato il mio pane
    col sudore della mia fronte
    che felicità
    mi sono vergognato per gli altri e ho mentito
    ho mentito per non far pena agli altri
    ma ho anche mentito
    senza nessun motivo
    ho viaggiato in treno in areoplano in macchina

    i più non possono farlo
    sono stato all’Opera
    i più non ci vanno non sanno
    nemmeno che cosa sia
    e dal ’21 non sono entrato
    in certi luoghi frequentati dai più
    la moschea la sinagoga la chiesa
    il tempio i maghi le fattucchiere
    ma mi è capitato
    di far leggere la mia sorte
    nei fondi di caffè
    le mie poesie sono pubblicate
    in trenta o quaranta lingue
    ma nella mia Turchia
    nella mia lingua turca
    sono proibite
    il cancro non l’ho ancora avuto
    non è necessario che l’abbia
    non sarò primo ministro
    d’altronde non ne ho voglia
    anche non ho fatto la guerra
    non sono sceso nei ricoveri
    nel mezzo della notte
    non ho camminato per le vie
    sotto gli aerei in picchiata
    ma verso i sessant’anni mi sono innamorato
    in una parola compagni
    anche se oggi a Berlino sono sul punto
    di crepar di tristezza
    posso dire di aver vissuto
    da uomo
    e quanto vivrò ancora
    e quanto vedrò ancora
    chi sa.

    Mehmet

     

    Da una parte gli et aguzzini ci separano come un muro.
    Dall’altra questo cuore sciagurato mi ha fatto un brutto scherzo,
    mio piccolo,
    mio Mehmet,
    forse il destino m’impedirà di rivederti.
    Sarai un ragazzo, lo so,
    simile alla spiga di grano:
    biondo, snello, alto di statura.
    Ero così quand’ero giovane.
    I tuoi occhi saranno vasti come quelli di tua madre,
    con dentro talvolta uno strascico amaro di tristezza.
    Avrai una bella voce,
    la mia era atroce.
    La tua fronte sarà chiara.
    Le canzoni che canterai spezzeranno i cuori.
    Sarai un conversatore brillante.
    In questo ero maestro anch’io,
    quando la gente non m’irritava i nervi.
    Dalle tue labbra colerà il miele.
    Ah Mehmet,
    quanti cuori spezzerai!
    Non dare pena a tua madre.
    Tua madre, forte e dolce come la seta,
    sarà bella anche all’età delle nonne,
    come il primo giorno che la vidi.
    Aveva 17 anni,
    sulle rive del Bosforo.
    Era il chiaro di luna,
    era il chiaro del giorno,
    era simile a una susina dorata.
    Tua madre un giorno, come al solito, ci siamo lasciati:
    a stasera!
    Era per non rivederci mai più.
    Tua madre nella sua bontà
    la più saggia delle madri.
    Non ho paura di morire, figlio mio.
    Eppure malgrado tutto
    a volte trasalisco di colpo.
    Contare i giorni difficile.
    Non ci si può saziare della vita, Mehmet,
    non ci si può saziare.
    Non vivere a questo mondo come un inquilino.
    Vivi su questa terra come se fosse la casa di tuo padre.
    La nostra terra, la Turchia,
    un bel paese tra gli altri paesi,
    e i suoi uomini,
    quelli di buona lega,

    sono lavoratori pensosi e coraggiosi
    e atrocemente miserabili.
    Tu, il futuro,
    lo vedrai coi tuoi occhi,
    lo toccherai con le tue mani.
    Io forse morirò lontano dalla mia lingua,
    dalle mie canzoni,
    dal mio sale ,dal mio pane,
    sentendo la nostalgia di tua madre e di te.
    Mehmet, piccolo mio,
    me ne vado. Sono calmo.
    La vita che si disperde in me si ritroverà in te,
    per lungo tempo.

    Prima di tutto l’uomo

    Non vivere su questa terra
    come un estraneo
    o come un turista nella natura.
    Vivi in questo mondo
    come nella casa di tuo padre:
    credi al grano, alla terra, al mare
    ma prima di tutto credi all’uomo.
    Ama le nuvole, le macchine, i libri
    ma prima di tutto ama l’uomo.
    Senti la tristezza del ramo che secca
    dell’astro che si spegne
    dell’animale ferito che rantola
    ma prima di tutto
    senti la tristezza e il dolore dell’uomo.
    Ti diano gioia tutti i beni della terra
    l’ombra e la luce ti diano gioia
    le quattro stagioni ti diano gioia
    ma soprattutto, a piene mani
    ti dia gioia l’uomo!

    E muore e nasce a tutta forza

    E muore e nasce a tutta forza
    albero stella uomo
    virus eccetera eccetera

    un tumolo uno strepito
    speranza malinconia
    nostalgia
    e nasce e muore
    a tutto vapore.

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