• Cuore di Tenebra di Joseph Conrad – testo – quarta parte

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    Semplicemente perché poteva parlare inglese con me. Il Kurtz originario, quello in carne e ossa, aveva ricevuto parte della sua educazione in Inghilterra e – come ebbe la bontà di dirmi – le sue simpatie restavano collocate al posto giusto. Sua madre era per metà inglese e suo padre per metà francese. L’Europa intera aveva contribuito alla formazione di Kurtz; e un po’ alla volta venni a sapere che, molto a proposito, la Società Internazionale per la Soppressione delle Usanze Selvagge lo aveva incaricato di redigere un rapporto, destinato alla sua guida futura. E lui l’aveva scritto quel rapporto. L’ho visto. L’ho letto. Era eloquente, vibrante di eloquenza, ma, forse, un po’ troppo sublime. Aveva trovato il tempo per scrivere diciassette pagine fitte fitte! Ma questo doveva essere avvenuto prima che i suoi -diciamo nervi -saltassero, e lo portassero a presiedere a certe danze notturne, che si concludevano con riti innominabili, che -da quello che ho potuto capire attraverso ciò che ho sentito con riluttanza a più riprese venivano offerti a lui, capite? Al signor Kurtz! Ma era un bel saggio di scrittura. Il paragrafo iniziale, tuttavia, alla luce delle informazioni successive, mi appare adesso sinistramente significativo. Cominciava con il dichiarare che noi bianchi, al punto di sviluppo a cui siamo arrivati, “dobbiamo necessariamente apparire a loro (ai selvaggi) come degli esseri soprannaturali; ci accostiamo a loro con una forza quasi divina”, ecc., ecc. “Con il semplice esercizio della nostra volontà possiamo esercitare un potere, al servizio del bene, praticamente illimitato”, ecc., ecc. A quel punto si librava trasportandomi in alto. La perorazione era magnifica, anche se difficile da ricordare, capite. Mi fece pensare a un’Immensità esotica retta da un’augusta Benevolenza. Mi fece fremere di entusiasmo. Era questo il potere illimitato dell’eloquenza -della parola -di nobili parole infiammate. Non c’erano suggerimenti pratici a interrompere il flusso magico delle frasi, a meno che una specie di nota in fondo all’ultima pagina, scarabocchiata evidentemente molto dopo, con mano malferma, possa essere considerata l’enunciazione di un metodo. Era molto semplice, e come conclusione di quel commovente appello a tutti i sentimenti più altruistici, balenava davanti a voi, luminosa e terrificante, come un fulmine a ciel sereno:

    “Sterminare tutti questi bruti!” La cosa più curiosa è che doveva aver apparentemente dimenticato del tutto quel prezioso post-scriptum, perché, più tardi, quando in un certo senso ritornò in sé, mi pregò ripetutamente di prendermi cura del suo “pamphlet” (è così che lo chiamava), perché sicuramente in futuro avrebbe influito favorevolmente sulla sua carriera. Ebbi informazioni complete su tutte queste cose e, inoltre, accadde che dovetti essere io a prendermi cura della sua memoria. Ciò che ho fatto per lei mi darebbe l’indiscutibile diritto di depositarla, se questa fosse la mia scelta, nel secchio delle spazzature del progresso, per un eterno riposo in mezzo a tutti i rifiuti e -parlando metaforicamente -a tutti i gatti morti della civiltà. Ma, in realtà, vedete, non ho scelta. Non si lascia dimenticare. Qualsiasi cosa fosse non era un uomo comune. Aveva il potere di incantare o atterrire le anime semplici al punto che in suo onore si lanciavano in un esaltato sabba; aveva anche il potere di infondere nelle animucce dei pellegrini amari presagi. Aveva almeno un amico devoto, e aveva conquistato un’anima al mondo che non era né semplice né macchiata di egoismo. No, non lo posso dimenticare, anche se non sono disposto ad affermare che lui valesse la vita dell’uomo che perdemmo per arrivare da lui. Il mio timoniere morto mi mancava terribilmente. Mi mancava già quando ancora il suo corpo giaceva nella cabina del timone. Forse vi sembrerà piuttosto strano questo rimpianto per un selvaggio che contava quanto un granello di sabbia in un Sahara nero. Ma, vedete, aveva fatto qualcosa: aveva governato la barca; per mesi l’avevo avuto dietro di me -un aiuto -uno strumento. Era una specie di associazione la nostra: lui governava per me, io lo sorvegliavo, mi preoccupavo delle sue deficienze, e così si era creato un sottile legame, di cui mi resi conto solo nel momento in cui fu improvvisamente spezzato. E la profonda intimità dello sguardo che mi aveva lanciato quando era stato colpito, rimane ancor oggi nella mia memoria, come se nel momento supremo, avesse voluto attestare una nostra lontana parentela. «Che scemo! Bastava che avesse lasciato stare quel portello! Ma non aveva alcun freno, nessun freno inibitore – proprio come Kurtz – un albero in balia del vento.

     

     

    Non appena ebbi infilato un paio di pantofole asciutte, lo trascinai via dalla cabina, dopo avergli tirato fuori la lancia dal fianco, operazione che eseguii, lo confesso, con gli occhi ben chiusi. I suoi talloni sobbalzarono insieme sul piccolo gradino della porta; mi stringevo le sue spalle contro al petto abbracciandolo da dietro disperatamente. Oh! era pesante, pesante; mi sembrava più pesante di qualsiasi altro uomo al mondo. Poi, senza altre cerimonie, lo feci precipitare fuori bordo. La corrente lo afferrò come se fosse un ciuffo d’erba, e vidi il corpo rigirarsi due volte prima di sparire per sempre. Tutti i pellegrini, con anche il direttore, erano radunati in quel momento sul ponte di comando intorno alla cabina del timone. Ciarlavano fra loro, come uno stormo di gazze eccitate e la mia diligenza impietosa sollevò un mormorio scandalizzato. Perché poi ci tenessero a conservare quel corpo, non lo riesco proprio a capire. Per imbalsamarlo, forse. Intanto sul ponte sottostante era corso un altro mormorio, e molto minaccioso. I miei amici, i taglialegna, erano anche loro scandalizzati, e con una parvenza di maggior ragione, benché non esiti a riconoscere che non era una ragione proprio ammissibile. Ah, proprio no! Avevo deciso che se il mio timoniere doveva essere mangiato, sarebbero stati solo i pesci ad averlo. Da vivo, era stato un timoniere di second’ordine, ma adesso che era morto poteva diventare una tentazione di primissima qualità, e magari provocare qualche guaio serio. E per di più, ero anche ansioso di riprendere il timone, dato che l’uomo col pigiama rosa era totalmente negato alla bisogna. «Cosa che mi affrettai a fare non appena concluso quel semplice funerale. Procedavamo a velocità ridotta, tenendoci nel mezzo della corrente, e io ascoltavo i discorsi attorno a me. Davano Kurtz per spacciato e spacciata la stazione: cioè, Kurtz era morto e la stazione bruciata, e via su questo tono. Il pellegrino dal pelo fulvo era fuori di sé al pensiero che quel povero Kurtz per lo meno era stato degnamente vendicato.

    “Eh sì, dobbiamo aver fatto proprio un bel macello dentro alla boscaglia. Vero? Cosa ne pensate? Eh?” Gongolava, letteralmente, quel rosso malpelo assetato di sangue. Ed era quasi svenuto alla vista del ferito! Non potei trattenermi dal dire: “Quel che è certo è che avete fatto un bel po’ di fumo.” Avevo visto, dal modo in cui si muovevano e volavano le cime dei cespugli, che quasi tutti i colpi erano stati troppo alti. Non si colpisce niente se non si prende la mira e non si imbraccia il fucile; quei tangheri sparavano tenendolo appoggiato all’anca e con gli occhi chiusi. La ritirata, dichiarai, – e avevo ragione – era dovuta unicamente allo stridore del fischio. Al che si dimenticarono di Kurtz e iniziarono a sbraitare, protestando indignati contro di me. «Mentre il direttore, in piedi vicino al timone, mi mormorava confidenzialmente all’orecchio, qualcosa sulla necessità di ridiscendere la corrente per un bel tratto, prima del calar del sole, come precauzione, scorsi da lontano una radura sulla riva del fiume, e la sagoma di una specie di edificio. “Che cos’è?”, chiesi. Stupitissimo, batté le mani. “La stazione!”, esclamò. Mi spostai immediatamente verso riva, senza aumentare la velocità. «Col binocolo vidi il pendio di una collina con pochi alberi distanziati fra loro, completamente sgombra dal sottobosco.

     

    Un lungo edificio fatiscente appariva sulla cima, mezzo sepolto sotto l’erba incolta; dei grandi buchi nel tetto a punta, si spalancavano da lontano tutti neri; la giungla e la foresta facevano da sfondo. Non c’era né palizzata né steccato di nessuna specie; ma doveva essercene stato uno, perché vicino alla casa, restavano allineati una mezza dozzina di sottili pali, rozzamente squadrati e con le punte ornate di rotondi pomi intagliati. Le traverse, o quello che poteva esserci in mezzo a loro, erano sparite. Naturalmente la foresta circondava tutto, ma la riva era sgombra e sul bordo dell’acqua vidi un bianco, sotto un appello simile alla ruota di un carro che si sbracciava per richiamare la nostra attenzione.

    Esaminando il margine della foresta sopra e sotto, ebbi quasi la certezza di vedere dei movimenti: delle forme umane che scivolavano silenziose qua e là. Per prudenza passai oltre quel luogo, e poi fermai le macchine, lasciandoci trasportare dalla corrente. L’uomo sulla riva iniziò a vociare, incitandoci a scendere a terra. “Siamo stati attaccati”, strillò il direttore. “Lo so, lo so. Va tutto bene”, gridò in risposta l’altro, molto gioviale. “Venite.

    Tutto bene. Son contento.” «Il suo aspetto mi ricordava qualcosa, qualcosa di stravagante che avevo già visto da qualche parte. Mentre facevo manovra per attraccare, mi domandavo: “Ma a cos’è che assomiglia quello lì?” E improvvisamente mi venne in mente.

    Assomigliava a un arlecchino. I suoi vestiti erano fatti di quello che senz’altro era stato una volta del lino greggio, ma erano tutti coperti di toppe, dai colori vivaci, blu, rosse e gialle, toppe sul dorso, toppe sul davanti, sui gomiti, sulle ginocchia; una fettuccia colorata orlava la giacca, una bordura rossa il fondo dei pantaloni, e alla luce del sole appariva estremamente gaio e lindo nello stesso tempo, perché si vedeva con quale cura era stata fatta tutta quella rattoppatura. Un volto imberbe, da ragazzo, molto chiaro, privo di tratti caratteristici, il naso spellato, occhietti azzurri, sorrisi e aggrottamenti che si inseguivano su quella fisionomia aperta, come il sole e l’ombra su una pianura spazzata dal vento.

     

     

     

    “Attento, capitano!”, gridò. “C’è un tronco d’albero insediato qui dalla notte scorsa.” Cosa?

    Un altro? Confesso di aver bestemmiato senza ritegno. Mancava solo che squarciassi la mia bagnarola per concludere quel magnifico viaggio. L’arlecchino sulla riva sollevò il nasetto camuso verso di me. “Inglese?”, domandò, tutto sorrisi. “E lei?”, urlai dalla ruota. I sorrisi si spensero e scosse la testa come per scusarsi di dovermi deludere. Poi si rilluminò.

    “Pazienza!”, esclamò, incoraggiante. “Arriviamo in tempo?”, chiesi. “Lui è lassù”, rispose con una scrollata del capo verso la cima della collina, improvvisamente incupito. La sua faccia era simile al cielo d’autunno, ora coperto ora luminoso. «Quando il direttore, scortato dai pellegrini armati fino ai denti, se ne andò in casa, il giovinotto salì a bordo. “Guardi, non mi piace per niente. Ci sono gli indigeni nella boscaglia”, dissi. Mi assicurò caldamente che andava tutto bene. “È gente semplice”, aggiunse, “ma, son contento che siate venuti. Mi toccava passar tutto il tempo a tenerli a bada.” “Ma non ha detto che andava tutto bene!”, sbottai. “Oh, non avevano cattive intenzioni”, disse, e siccome lo fissai con gli occhi sgranati, si corresse: “Non proprio.” Poi con vivacità: “Perbacco, la sua cabina ha bisogno di una ripulita!” E senza riprendere fiato, mi consigliò di tenere abbastanza vapore nella caldaia per azionare il fischio in caso di allarme. “Una bella fischiata vi sarà più utile di tutti i vostri fucili. È gente semplice”, ripeté. Mi mitragliava di parole fino a stordirmi. Sembrava volersi rifare di silenzi accumulati, e di fatti mi lasciò capire, ridendo, che era proprio così. “Non parla con il signor Kurtz?”, chiesi. “Non si parla con un uomo come lui, lo si ascolta”, esclamò in tono severo e esaltato. “Ma adesso…” Agitò il braccio e in un batter d’occhio si trovò sprofondato nell’abisso dello scoraggiamento. D’un balzo però ne riemerse, si impossessò delle mie mani e senza smettere di stringerle, farfugliò:

    “Fratello marinaio… che onore… piacere… gioia… mi presento… russo… figlio di un arciprete… patriarcato di Tambov… Cosa! Del tabacco? Del tabacco inglese? L’eccellente tabacco inglese! Ah, questo sì che è da fratello. Se fumo? E qual è il marinaio che non fuma?” «La pipa lo sedò, e poco a poco colsi che era scappato da scuola, si era imbarcato su una nave russa, era scappato di nuovo, aveva servito per un po’ su delle navi inglesi e poi si era riconciliato con l’arciprete. Attribuiva grande importanza a questo fatto. “Ma quando si è giovani bisogna vedere il mondo, accumulare esperienza, idee, allargare la mente.”

    “Qui!”, lo interruppi. “Non si può mai dire! Qui ho incontrato il signor Kurtz”, disse con un tono di rimprovero e di giovanile solennità. Al che tenni a freno la lingua. Pare che avesse persuaso una ditta commerciale olandese della costa ad affidargli delle provviste e delle mercanzie ed era partito per l’interno a cuor leggero, e con più incoscienza di un bambino su quello che poteva capitargli. Aveva vagato sul fiume per quasi due anni, da solo, separato da tutto e da tutti. “Non sono così giovane come sembro. Ho venticinque anni”, disse. “All’inizio il vecchio Van Shuyten aveva provato a mandarmi al diavolo”, raccontò, molto divertito, “ma io, incollato alle sue calcagna, parlavo e parlavo, tanto che alla fine, temendo di restare schiacciato sotto la mia ruota libera, mi riempì di paccottiglia e di qualche fucile, dicendomi che sperava di non rivedere mai più la mia faccia. Bravo vecchio, l’olandese, Van Shuyten. Gli ho spedito una piccola partita di avorio un anno fa, così quando torno non potrà dire che sono un lestofante. Spero che l’abbia ricevuto. E del resto me ne infischio. Avevo preparato della legna per lei. Quella era la mia vecchia casa. L’ha vista?” «Gli porsi il libro di Towson. Stava quasi per buttarmi le braccia al collo, ma si trattenne. “Il solo libro che mi restasse e pensavo di averlo perso”, disse, guardandolo estasiato. “Capitano tanti accidenti, sa, a un uomo che se ne vain giro da solo. Le canoe ogni tanto si capovolgono e qualche volta bisogna anche battersela in fretta quando la gente si arrabbia.” Sfogliava le pagine. “Ci ha fatto delle annotazioni in russo?”, chiesi. Annuì. “Pensavo che fossero scritte in codice”, dissi. Si mise a ridere, poi, serio: “Ho fatto molta fatica a tenere a bada quella gente.” “Volevano uccidervi?”, chiesi. “Oh, no!”, esclamò, interrompendosi subito. “E perché ci hanno attaccati?”, continuai. Esitò, poi con una sorta di pudore disse: “Non vogliono che lui se ne vada.” “Davvero?”, dissi incuriosito. Annuì con un cenno pieno di saggezza e di mistero. “Badi bene”, esclamò, “quell’uomo mi ha allargato la mente.” Spalancò le braccia, guardandomi coi suoi occhietti azzurri, tondi tondi.

     

     

     

    «Lo guardai, smarrito per lo stupore. Era lì davanti a me, vestito da buffone, come se fosse scappato da una compagnia di saltimbanchi, entusiasta e favoloso. Il solo fatto che esistesse era inverosimile, inspiegabile, assolutamente sconcertante. Era uno di quei problemi che non si risolvono. Impossibile immaginarsi in che modo avesse vissuto, come avesse potuto arrivare tanto lontano, cosa avesse fatto per rimanervi, perché non sparisse sotto ai miei occhi. “Mi sono spinto un po’ più avanti”, disse, “e poi ancora un po’ di più, e un bel giorno mi sono trovato tanto lontano che non so come farò a tornare sui miei passi. Non importa. Ho tutto il tempo. Mi arrangerò. Ma lei porti via Kurtz presto presto, le dico.” L’incantesimo della giovinezza rivestiva i suoi stracci variopinti, la sua miseria, la sua solitudine, la profonda desolazione di quel suo futile vagabondare. Per dei mesi – per degli anni – la sua vita era stata sospesa a un filo; eppure era là, coraggiosamente, spensieratamente vivo e, secondo ogni apparenza, indistruttibile, grazie ai suoi giovani anni e alla sua audacia irriflessiva. Ero conquistato tanto da provare una specie di ammirazione, di invidia. Un incantesimo lo spingeva avanti, un altro incantesimo lo proteggeva. Lui non si aspettava assolutamente niente dalla landa selvaggia, soltanto uno spazio in cui respirare e in cui addentrarsi sempre più. Il suo unico bisogno era di esistere e di andare oltre, correndo più rischi possibile, con il massimo di privazioni. Se lo spirito d’avventura – allo stato puro, privo di qualsiasi calcolo e di senso pratico – aveva mai dominato un essere umano, era sicuramente quel giovane tutto rattoppato. Quasi gli invidiavo di possedere quella fiamma chiara e modesta. Sembrava aver così ben consumato in lui ogni pensiero personale che anche mentre parlava, ci si dimenticava che era a lui all’uomo che era sotto i vostri occhi -che erano capitate tutte quelle cose. Non gli invidiavo, però, la sua devozione a Kurtz. Non era deliberata. L’aveva subita e accettata con una specie di ardente fatalismo. Devo dire che ai miei occhi, fra tutte le cose che aveva incontrato, quella era di gran lunga la più pericolosa. «Erano inevitabilmente venuti a contatto, come due navi sorprese dalla bonaccia che a poco a poco si avvicinano e finiscono per strofinarsi i fianchi l’una contro l’altra.

     

    Immagino che Kurtz avesse bisogno di un uditorio, visto che una volta, mentre erano accampati nella foresta, avevano parlato tutta la notte, o più verosimilmente, era Kurtz che aveva parlato. “Abbiamo parlato di tutto”, mi disse, ancora trascinato dal ricordo. “Avevo dimenticato l’esistenza stessa del sonno. Quella notte non mi parve durare più di un’ora. Di tutto, di tutto!… Anche d’amore.” “Ah, le parlava d’amore!”, dissi molto divertito. Ebbe un grido quasi appassionato: “Oh, non è quel che pensa lei, parlava in generale… Mi ha fatto capire delle cose, tante cose.” «Alzò le braccia. In quel momento eravamo sul ponte e il capo dei miei taglialegna, che oziava poco lontano, volse verso di lui uno sguardo luminoso e penetrante. Mi guardai attorno, e non so perché, ma vi assicuro che mai, mai prima d’allora, quella terra, quel fiume, quella giungla, la volta stessa di quel cielo infuocato, mi erano apparsi più tetri e disperati, più impenetrabili all’intelletto umano e più impietosi verso l’umana debolezza. “E da allora”, dissi, “lei, naturalmente, è rimasto sempre con lui.” «E invece no. Pare che il loro rapporto fosse molto intermittente, per diverse ragioni. Era riuscito, e me lo disse con orgoglio, a curare Kurtz durante due malattie (vi alludeva come si farebbe per un’impresa piena di rischi), ma, generalmente, Kurtz errava da solo nelle profondità della foresta. “Spesso, quando arrivavo in questa stazione, mi toccava aspettare giorni e giorni prima che lui ritornasse”, disse, “ma valeva la pena di aspettare, qualche volta!” “Ma cosa faceva? Delle esplorazioni?…”, domandai. “Sì, certo.” Aveva scoperto molti villaggi e anche un lago. Lui non sapeva esattamente dove – era pericoloso fare troppe domande – ma la maggior parte delle spedizioni di Kurtz avevano l’avorio come obiettivo. “Ma se non aveva più mercanzie con cui barattarlo?”, obbiettai. Guardando da un’altra parte rispose: “Ancora adesso nella stazione ci sono un mucchio di cartucce avanzate.” “Chiamiamo le cose col loro nome”, dissi, “razziava semplicemente il paese.” Fece di sì con la testa. “Certamente non da solo!”

     

    Borbottò qualcosa a proposito dei villaggi attorno a quel lago. “Kurtz si faceva seguire dalla tribù, vero?” suggerii. Era un po’ sulle spine. “Lo adoravano”, disse. Il tono di quelle parole era così straordinario che lo guardai con attenzione. La riluttanza che provava a parlare di Kurtz si mescolava curiosamente in lui al bisogno di raccontare. Quell’uomo riempiva la sua vita, occupava tutti i suoi pensieri, comandava le sue emozioni. “Che cosa pretende?”, disse con impeto, “è arrivato da loro col tuono e col fulmine in mano; questa gente non aveva mai visto niente di simile, né di così terribile. Perché poteva essere terribile. È impossibile giudicare il signor Kurtz alla stregua di un uomo qualunque. No, mille volte no!

    Ecco – tanto per darle un’idea – un giorno, non mi vergogno a dirlo, voleva uccidermi,… ma io non lo giudico.” “Ucciderla!”, esclamai. “E perché?” “Bah, avevo una piccola quantità d’avorio che mi aveva dato il capo del villaggio vicino alla mia casa. Sa, io uccidevo della selvaggina per loro. Beh, lui lo voleva e non voleva sentir ragioni. Dichiarò che mi avrebbe fatto fuori se non gli davo l’avorio e se non sparivo immediatamente dal paese, visto che aveva il potere e anche la voglia di farlo, e non c’era niente al mondo che potesse impedirgli di ammazzare chiunque gli fosse garbato. Ed era vero… Gli diedi l’avorio. Che cosa me ne importava? Ma non me ne andai. No, non avrei potuto lasciarlo. Dovetti essere prudente, naturalmente, per un po’, finché non ridiventammo amici. Fu allora che si ammalò per la seconda volta. Dopo di che, dovetti star lontano, ma non gliene volevo. Passava la maggior parte del tempo in quei villaggi sul lago. Quando ritornava al fiume, qualche volta ricorreva a me e qualche volta era meglio che io stessi alla larga. Quell’uomo soffriva troppo.

    Detestava tutto di qui, e però era come se non se ne potesse staccare. Quando ne avevo l’occasione lo pregavo di andarsene, finché era ancora in tempo. Gli proposi di ritornare con lui. Accettava e non si muoveva da qui. Partiva per un’altra caccia all’avorio, spariva per delle settimane, trovava l’oblio fra quella gente, sì, l’oblio di se stesso, capisce.” “Ma è pazzo!”, dissi. Protestò indignato. Il signor Kurtz non poteva essere pazzo. Se lo avessi sentito parlare, anche solo due giorni prima, non avrei osato fare una simile insinuazione…

     

     

     

    Avevo preso il binocolo mentre parlavamo, e ispezionavo la spiaggia, frugavo il ciglio della foresta da ogni lato e dietro la casa. La sensazione che ci fosse della gente in quella boscaglia così silenziosa, così tranquilla – altrettanto silenziosa e tranquilla della casa in rovina sulla cima del colle – mi metteva a disagio. Sul volto della natura non c’era traccia della straordinaria storia che più che raccontata mi veniva suggerita con esclamazioni desolate, accompagnate da alzate di spalle, frasi interrotte, allusioni chiuse da profondi sospiri. La foresta, impassibile come una maschera, massiccia come la porta sbarrata di una prigione, guardava con un’aria di sapienza segreta, di attesa paziente, di inaccessibile silenzio. Il russo intanto mi spiegava che solo recentemente il signor Kurtz era ritornato giù al fiume, portando con sé tutti i guerrieri della tribù lacustre. Era stato assente molti mesi -per farsi adorare, immagino – ed era rientrato inaspettatamente, con l’intenzione, secondo ogni apparenza, di compiere una razzia dall’altra parte del fiume o a valle.

     

    Evidentemente la brama di avere altro avorio aveva trionfato su – come dire? – sulle aspirazioni meno materiali. Però il suo stato di salute era improvvisamente peggiorato. “Venni a sapere che stava male, privo di ogni cura, e così decisi di venire quassù, correndo il rischio”, disse il russo. “Oh, sta male, molto male.” Puntai il binocolo sulla casa. Non c’erano segni di vita: scorgevo solo il tetto che crollava, il lungo muro di fango che faceva capolino sopra l’erba, con tre buchi quadrati a guisa di finestre, non uno della stessa misura dell’altro, tutto a portata della mia mano, per così dire. E poi feci un movimento brusco e uno dei pali superstiti di quello steccato scomparso emerse nel campo del mio binocolo. Vi ricordate che da lontano ero rimasto colpito da certi tentativi di decorazione, che risaltavano ancor di più nello stato disastroso di quel luogo. Adesso li vedevo più da vicino e l’effetto immediato fu che tirai indietro la testa come per evitare un pugno. Poi col binocolo, esaminai attentamente un palo dopo l’altro e capii il mio errore. Quei pomi rotondi non erano ornamentali, ma simbolici; erano espressivi ed enigmatici, sorprendenti e inquietanti, cibo per la mente oltre che per gli avvoltoi, se ce ne fossero stati a guardare dal cielo, cibo in tutti i casi per delle formiche abbastanza industriose da arrampicarsi sul palo. Sarebbero state ancora più impressionanti, quelle teste impalate, se il loro volto non fosse stato girato dalla parte della casa. Solo una, la prima che avevo notato, era rivolta verso di me. Non fui così nauseato come potreste credere. Il mio brusco scatto indietro non era stato che un moto di sorpresa. Mi ero aspettato di vedere un pomo di legno là, capite.

     

    Deliberatamente, tornai a guardare la prima che mi era apparsa: nera, rinsecchita e infossata, la testa con le palpebre chiuse era sempre là, come addormentata in cima a quel palo e, con le labbra secche e raggrinzite che lasciavano scoperta la sottile fila bianca dei denti, aveva anche l’aria di sorridere, sorridere in continuazione per qualche sogno ilare e infinito del suo sonno eterno. «Non sto rivelando nessun segreto commerciale. Fu il direttore poi a dire che i metodi del signor Kurtz avevano rovinato quel distretto. Io non ho alcuna opinione a questo proposito, ma vorrei farvi capire chiaramente che a tenere lì quelle teste non c’era niente di vantaggioso. Stavano solo a testimoniare che il signor Kurtz era privo di qualsiasi ritegno nel soddisfacimento dei suoi vari appetiti; che gli mancava qualcosa, una piccola cosa che, quando il bisogno diventava urgente, si cercava invano sotto la sua magnifica eloquenza. Se lui sapesse di avere questa deficienza, io non lo so.

     

    Credo che se ne sia reso conto alla fine, quasi all’ultimo istante. Ma la selva selvaggia lo aveva scovato subito, e si era presa una terribile vendetta su di lui per quella fantastica invasione. Credo che gli avesse sussurrato delle cose sul suo conto che lui stesso ignorava, cose di cui non aveva il minimo sospetto, prima di aver sentito il parere di quella grande solitudine, e quel sussurro si era rivelato irresistibilmente affascinante. L’eco era risuonata tanto profondamente in lui perché dentro era vuoto… Abbassai il binocolo, e la testa che mi era apparsa tanto vicina da poterle quasi parlare, parve subito scomparire lontana da me in una distanza inaccessibile. “L’ammiratore del signor Kurtz si era un po’ ammosciato. Con voce febbrile e indistinta, cominciò ad assicurarmi che non aveva osato togliere quei… quei… diciamo, quei simboli. Non che avesse paura degli indigeni: non si sarebbero mossi a meno che Kurtz non avesse dato loro il segnale. Il suo ascendente era straordinario. Gli accampamenti di quella gente circondavano la stazione e ogni giorno i capi venivano a trovarlo… strisciando. “Non voglio sapere niente delle cerimonie usate per avvicinare il signor Kurtz”, gridai. Curioso, ebbi l’impressione che i dettagli sarebbero stati più insopportabili di quelle teste che rinsecchivano sui pali sotto le finestre del signor Kurtz.

     

    Dopo tutto, quello era solo uno spettacolo barbaro, e in quella oscura regione di orrori sottili, in cui ero stato trasportato d’un balzo, la barbarie pura, senza complicazioni, era un sollievo reale, come qualcosa che aveva il diritto di esistere -ovviamente -alla luce del sole.

    Il giovane mi guardò sorpreso. Immagino che non gli fosse venuto in mente che il signor Kurtz non era un mio idolo. Si era dimenticato che io non avevo sentito neanche uno di quegli splendidi monologhi su -cosa? -l’amore, la giustizia, la condotta nella vita, o che so io. Se si doveva strisciare davanti a Kurtz, lui strisciava come il più selvaggiodei selvaggi. Io non mi rendevo conto delle circostanze, disse. Quelle erano le teste dei ribelli. Lo lasciai di stucco perché mi misi a ridere. Ribelli! Quale sarebbe stata la prossima definizione che avrei sentito? C’erano stati nemici, criminali, lavoratori, e questi erano ribelli. Quelle teste ribelli mi sembravano molto sottomesse sui loro pali. “Lei non sa quanto una vita simile metta alla prova un uomo come Kurtz”, esclamò l’ultimo discepolo di Kurtz. “Beh, e lei?”, dissi. “Io! Io! Io sono un uomo qualunque. Non ho grandi idee. Non voglio niente da nessuno. Come può paragonarmi a…?” L’eccesso di emozione gli impediva di parlare e improvvisamente si lasciò andare. “Non capisco”, gemette. “Io ho fatto del mio meglio per tenerlo in vita e basta. Non ho preso parte a tutto ciò. Io non ho talenti. Erano mesi che qui non c’era una medicina che fosse una o qualcosa da mangiare per un malato. È stato vergognosamente abbandonato. Un uomo come lui, con tali idee. È una vergogna. Una vera vergogna. E io, io sono dieci notti che non dormo…” «La sua voce si perse nella calma della sera. Mentre parlavamo le lunghe ombre della foresta erano scivolate giù dalla collina, spingendosi molto oltre la baracca in rovina, oltre la simbolica fila di pali. Tutto ciò era immerso nell’oscurità, mentre, in basso, noi eravamo ancora nella luce del sole, e la distesa del fiume di fronte alla radura scintillava di un immoto splendore abbacinante, con una ansa buia e in ombra a monte e a valle. Non c’era anima viva sulla spiaggia. Non un fremito nella boscaglia. «E tutt’a un tratto, girato l’angolo della casa, apparve un gruppo di uomini, come se fossero sorti dal terreno. Avanzavano sprofondati fino alla vita nell’erba, in corpo compatto, portando in mezzo a loro una barella improvvisata. Istantaneamente, nel vuoto del paesaggio, si alzò un grido acuto che trafisse l’aria immota come una freccia acuminata che volasse dritta al cuore della terra e, come per incanto, un torrente di esseri umani -di esseri umani nudi -muniti di lance, archi e scudi, con sguardi feroci e movimenti selvaggi, si riversò nella radura dalla foresta dal volto scuro e pensoso. La boscaglia fremette, l’erba ondeggiò un momento e poi tutto ripiombò in un’attenta immobilità. «”E adesso, se non trova la parola giusta da dire, siamo tutti perduti”, disse il russo al mio fianco. Il gruppo di uomini con la barella si era fermato anch’esso, come pietrificato, a mezza strada dal battello. Al di sopra delle spalle dei portatori vidi l’uomo che giaceva nella barella mettersi a sedere, emaciato, con un braccio alzato. “Speriamo che l’uomo che sa parlare così bene dell’amore in generale trovi qualche ragione particolare per risparmiarci questa volta”, dissi. Risentivo amaramente l’assurdo pericolo della nostra situazione, come se essere alla mercé di quell’orrendo fantasma fosse stata una disonorevole necessità. Non udivo suoni, ma attraverso il binocolo vedevo il braccio sottile steso in un gesto imperioso, la mascella inferiore muoversi, gli occhi di quell’apparizione splendere tenebrosi e remoti in quella testa ossuta che oscillava con delle scosse grottesche. Kurtz, Kurtz in tedesco vuol dire “corto”, no? Ebbene, il nome era altrettanto vero di tutto il resto della sua vita, e della sua morte. Sembrava “lungo” almeno due metri.

     

    La coperta gli era caduta di dosso e il suo corpo atroce e pietoso ne era emerso come da un sudario. Vedevo la gabbia del torace tutta in movimento, le ossa del braccio che agitava.

    Era come se un’animata immagine della morte, scolpita in un vecchio avorio, tendesse la sua mano minacciosa a una immobile folla di uomini fatti di un bronzo scuro e lucente. Lo vidi spalancare la bocca – il che gli diede un aspetto straordinariamente vorace – come se avesse voluto ingoiare tutta l’aria, tutta la terra e tutti gli uomini davanti a lui. Una voce cavernosa giunse debolmente fino a me. Doveva aver gridato. Improvvisamente cadde riverso. La barella vacillò mentre i portatori riprendevano ad avanzare barcollando, e quasi nello stesso momento, mi accorsi che la folla dei selvaggi si stava disperdendo senza alcun percettibile movimento di ritirata, come se la foresta che aveva espulso quelle creature così all’improvviso, ora le risucchiasse, come un respiro dopo un lungo sospiro. «Un paio di pellegrini venivano dietro la barella portando le sue armi – due fucili da caccia, una carabina di grosso calibro, un’altra, leggera, a ripetizione – i fulmini di quel Giove pietoso.

    Il direttore, piegato su di lui, gli parlava all’orecchio, camminandogli accanto. Lo deposero in una di quelle piccole cabine, dove c’era appena il posto per una cuccetta e uno o due seggiolini da campo, lo sapete. Gli avevamo portato la corrispondenza accumulata in quei mesi e un mucchio di buste strappate e di lettere aperte era sparpagliato sul letto. Con una mano rovistava debolmente in mezzo alle carte. Fui colpito dal fuoco dei suoi occhi e dal languore composto della sua espressione. Non era tanto la spossatezza della malattia: non sembrava soffrire. Quell’ombra pareva sazia e calma, come se per il momento avesse fatto il pieno di tutte le emozioni. «Stropicciò una delle lettere e guardandomi dritto negli occhi disse: “Molto lieto.” Gli avevano scritto qualcosa di me. Saltavano fuori di nuovo le raccomandazioni speciali. Il volume del suono che emise senza sforzo, senza quasi la pena di muovere le labbra, mi stupì. Una voce! Che voce! Grave, profonda, vibrante, mentre l’uomo sembrava incapace di un sussurro. Eppure gli restava abbastanza forza – fittizia senza dubbio – da farci correre il rischio di finire tutti male, come sentirete fra poco. «Il direttore apparve silenzioso sulla soglia. Uscii subito ed egli tirò la tenda dietro di me. Il russo, guardato con curiosità da tutti i pellegrini, aveva gli occhi fissi sulla spiaggia. Seguii la direzione del suo sguardo. «Si distinguevano in lontananza delle scure forme umane muoversi leggere e indistinte contro il tetro limitare della foresta e, vicino al fiume, due figure di bronzo, appoggiate alle loro alte lance, si ergevano al sole, sotto fantastiche acconciature di pelli maculate, marziali e immobili in uno statuario riposo. E lungo la spiaggia luminosa si mosse da destra a sinistra una selvaggia e incantevole apparizione di donna. «Camminava a passi cadenzati nei drappeggi di una stoffa rigata e frangiata, toccando il suolo con fierezza, facendo leggermente tintinnare e balenare i barbari ornamenti. La testa eretta, i capelli acconciati come un elmo, le gambe fasciate di ottone fino al ginocchio, bracciali di filo d’ottone fino al gomito, una macchia scarlatta sulle guance bronzee, innumerevoli collane di perline colorate al collo. Oggetti bizzarri, amuleti, doni di stregoni, appesi al suo corpo, che luccicavano e dondolavano a ogni passo. Doveva avere addosso il valore di parecchie zanne di elefante. Eraselvaggia e maestosa, stralunata e magnifica. C’era qualcosa di minaccioso e di imponente nel suo incedere risoluto. E nell’improvviso silenzio caduto su quella terra afflitta, l’immensa landa selvaggia, quel corpo colossale di vita feconda e misteriosa sembrava pensosamente guardarla, quasi contemplasse in lei l’immagine della propria anima tenebrosa e appassionata. «Giunse all’altezza del battello, si fermò e incontrò i nostri occhi. La sua ombra s’allungò di traverso nell’acqua. La sua desolazione, il suo muto dolore mescolato alla paura del disegno formulato a metà – che si dibatteva in lei, prestava al suo viso un aspetto tormentato e tragico. Rimase a guardarci senza un gesto, con l’aria di covare – come la selva selvaggia qualche insondabile intenzione. Passò un minuto intero e poi fece un passo avanti. Ci fu un lieve tintinnare, un giallo balenio del metallo, un ondeggiare dei drappi frangiati: si fermò, come se le fosse mancato il cuore. Il giovane accanto a me ringhiò. I pellegrini mormorarono alle mie spalle. Ci guardava tutti come se la sua vita fosse dipesa dall’inflessibile fermezza del suo sguardo. D’improvviso aprì le braccia nude e le tese rigidamente in alto sopra la testa, come in un irresistibile desiderio di toccare il cielo e nello stesso istante l’oscurità si slanciò rapida sulla terra e, invadendo il fiume, avvolse il battello in un tenebroso abbraccio. Un formidabile silenzio stava sospeso sulla scena. «Si voltò lentamente, s’incamminò seguendo la sponda ed entrò nei cespugli sulla sinistra. Una sola volta, prima di sparire, i suoi occhi lampeggiarono verso di noi nell’ombra del folto.

     

     

     

    «”Se si fosse azzardata a venire a bordo credo proprio che avrei cercato di ucciderla”, disse nervosamente l’arlecchino. “In questi ultimi quindici giorni, ho rischiato la vita ogni giorno, per impedirle di entrare in casa. Una volta ci è riuscita e ha fatto una scena tremenda per quei quattro stracci che avevo preso nel magazzino per aggiustarmi i vestiti.

    Ero impresentabile. Credo almeno che fosse quello il motivo, perché è stata un’ora a parlare come una furia a Kurtz, indicando ogni tanto me. Non capisco il dialetto di questa tribù. Per mia fortuna, penso che Kurtz stesse troppo male quel giorno, per badarle, altrimenti avrei passato un brutto guaio. Non capisco… No, è veramente troppo per me.

    Beh, è acqua passata ormai.” «In quel momento udii la profonda voce di Kurtz dietro la tenda: “Salvarmi! Lei vuol dire, salvare l’avorio. Non mi venga a raccontare… Salvare me!

    Ma se sono io che ho dovuto salvarvi, e lei è venuto a intromettersi nei miei progetti.

    Ammalato! Ammalato! Non così ammalato come le piacerebbe credere. Non importa.

    Realizzerò lo stesso quello che ho in mente: ritornerò. Le farò vedere io che cosa si può fare qui. Lei, con i suoi sistemi da bottegaio, mi mette il bastone fra le ruote. Ritornerò. Io…” «Il direttore uscì. Mi fece l’onore di prendermi sottobraccio e di condurmi in disparte. “È molto giù, molto giù”, disse. Ritenne necessario sospirare, ma trascurò di mostrare la conseguente afflizione. “Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per lui, non è forse vero?

    Ma non si può nascondere la realtà: il signor Kurtz ha fatto più male che bene alla Compagnia. Non ha capito che i tempi non erano maturi per un’azione energica. Cautela, cautela ci vuole: è questo il mio principio. Dobbiamo andare ancora cauti. Per un po’ questo distretto ci sarà precluso. Deplorevole! E il commercio ne soffrirà nel suo insieme.

     

    Non nego che non ci sia una notevole quantità di avorio, per la maggior parte fossile. Lo dobbiamo salvare a tutti i costi. Ma vede com’è precaria la nostra situazione: e perché? Perché il metodo è inadeguato.” “Lei lo definisce”, dissi io, guardando la spiaggia, “un metodo inadeguato?” “Senza dubbio”, esclamò con calore. “Lei no?” … «”Non c’è nessun metodo”, mormorai dopo un po’. “Giustissimo”, esultò lui. “Io l’avevo previsto. Testimonia di una completa mancanza di discernimento. Sarà mio dovere segnalarlo a chi di competenza.” “Oh”, dissi io, “quel tale -come si chiama? -sì, l’uomo dei mattoni, potrà redigere per lei un rapporto leggibilissimo.” Restò un attimo interdetto. Mi pareva di non aver mai respirato in un’atmosfera tanto abietta, e per riprendere fiato mi rivolsi mentalmente a Kurtz, sì proprio per riprendere fiato. “Nonostante tutto”, dissi con enfasi, “penso che il signor Kurtz sia un uomo notevole.” Sussultò e lasciando cadere su di me un greve sguardo gelido, disse con molta calma: “Lo era”, e mi voltò le spalle. Non godevo più del suo favore. Avevo fatto comunella col signor Kurtz parteggiando per metodi per cui i tempi non erano maturi: ero anch’io inadeguato! Ah! ma era pur sempre qualcosa avere almeno la scelta dei propri incubi. «In realtà era alla landa selvaggia che mi ero rivolto, non al signor Kurtz che ormai -non stentavo ad ammetterlo -era come se fosse bell’e sepolto. E per un istante, parve anche a me di essere sepolto dentro a una grande tomba piena di inconfessabili segreti. Sotto un peso intollerabile che mi opprimeva il petto, sentivo l’odore della terra umida, la presenza invisibile della corruzione trionfante, la tenebra di una notte impenetrabile… Il russo mi batté sulla spalla. Balbettando borbottò qualcosa su “fratello marinaio… non si potrebbe nascondere… la conoscenza di cose che nuocerebbero alla reputazione del signor Kurtz.” Aspettai. Per lui, evidentemente, il signor Kurtz non era ancora nella tomba. Ho il sospetto che per lui il signor Kurtz fosse uno degli immortali. “Ebbene!”, dissi infine, “parli. Il caso vuole che io sia amico del signor Kurtz, in un certo qual modo.” «Molto formalmente, iniziò col dichiarare che se non fossimo stati uniti “dalla stessa professione”, si sarebbe tenuto tutto per sé, senza badare alle conseguenze. “Sospettava di essere molto mal visto da quei bianchi che…” “Sì, ha indovinato”, dissi, ricordandomi una certa conversazione che avevo involontariamente ascoltato. “Il direttore pensa che lei dovrebbe essere impiccato.” Nel sentirselo dire mostrò un turbamento che all’inizio mi divertì. “È meglio che me ne vada alla chetichella”, disse con franchezza. “Non posso far più niente per Kurtz ormai, e quelli farebbero presto a inventarsi qualche pretesto. Che cosa li fermerebbe? C’è un posto militare a cinquecento chilometri da qui.” “Sì”, risposi, “credo anch’io che farebbe meglio ad andarsene se ha degli amici fra i selvaggi qui intorno.” “Molti”, disse. “È gente semplice, e io non ho bisogno di niente, sa.” Tacque un attimo mordendosi il labbro e poi: “Io non voglio che accada nulla di male a questi bianchi”, continuò, “ma naturalmente è alla reputazione del signor Kurtz che pensavo, ma lei è un marinaio, un fratello e…” “D’accordo”, dissi, dopo un po’, “la reputazione del signor Kurtz nelle mie mani è salva.” Non sapevo fino a che punto stessi dicendo la verità. «Abbassando la voce, mi informò che era stato Kurtz a dare l’ordine di attaccare il battello. “Qualche volta non sopportava l’idea di essere portato via, e poi di nuovo… Sono cose che non capisco. Io sono un uomo semplice. Pensava che vi sareste spaventati tanto da andarvene, che avreste rinunciato, credendolo morto. Non sono riuscito a fermarlo. Oh, ne ho passate di tutti i colori, quest’ultimo mese.” “Non ne dubito”, dissi, “ma adesso sembra tornato in sé.” “Sì sì”, mormorò, senza grande convinzione. “Grazie”, dissi, “terrò gli occhi aperti.” “Ma non una parola, vero?”, riprese con ansiosa insistenza. “Sarebbe terribile per la sua reputazione se qualcuno qui…” Promisi solennemente la discrezione più assoluta. “Ho una piroga con tre neri che mi aspettano qui vicino. Vado. Mi potrebbe dare qualche cartuccia per la Martini-Henry?” Potevo e gliele diedi, con la dovuta segretezza. Strizzandomi l’occhio si prese una manciata di tabacco.

     

     

     

    “Fra marinai, vero?, questo suo buon tabacco inglese.” Già davanti alla porta della cabina si voltò: “Senta, non avrebbe un paio di scarpe che le avanzano?” Alzò una gamba: “Guardi.” Sotto i piedi nudi aveva legato con delle stringhe delle suole come fossero sandali. Ne scovai un vecchio paio che lui guardò ammirato prima di infilarselo sotto il braccio sinistro. Da una delle tasche (di un rosso brillante) traboccavano le cartucce, dall’altra (blu scuro) occhieggiava l’Indagine, ecc., ecc. di Towson. Sembrava ritenersi eccellentemente equipaggiato per il suo nuovo incontro con la landa selvaggia.”Ah! un uomo simile non lo incontrerò più, mai più. Avrebbe dovuto sentirlo recitare le poesie, sue per di più, me l’ha detto lui. La poesia!” Roteava gli occhi al ricordo di quelle delizie. “Oh, quell’uomo mi ha aperto la mente!” “Arrivederci”, dissi. Ci stringemmo la mano e svanì nella notte. Qualche volta mi chiedo se l’ho visto davvero, se è possibile che io abbia incontrato un fenomeno simile!… «Quando mi svegliai, poco dopo mezzanotte, mi venne in mente il suo avvertimento e il pericolo che vi era sottinteso, e nella tenebra stellata, mi parve sufficientemente reale da farmi alzare per dare un’occhiata in giro. Sulla collina bruciava un grande fuoco che illuminava a intermittenza un angolo obliquo della casa. Uno degli agenti con un picchetto di qualcuno dei nostri neri, armati per l’occasione, montava la guardia all’avorio, ma dentro alle profondità della foresta, dei rossi baluginii, che sembravano sorgere dalla terra e sprofondarvisi, fra forme indistinte simili a colonne di intensa nerezza, indicavano il punto esatto dell’accampamento in cui gli adoratori del signor Kurtz facevano la loro inquieta veglia. Il monotono rullare di un grosso tamburo riempiva l’aria di colpi soffocati e di una prolungata vibrazione. Il suono ininterrotto di una nenia di chissà quali magici incantesimi, cantata da una moltitudine di uomini, ciascuno per proprio conto, usciva dalla muraglia piatta e oscura della foresta, come un ronzio di api fuori dall’alveare, con uno strano effetto narcotizzante sui miei sensi già mezzo sopiti.

     

    Credo di essermi proprio assopito, appoggiato al parapetto, finché uno scoppio improvviso di urla, l’assordante esplosione di una frenesia misteriosa e repressa, non mi svegliò in attonito soprassalto. Si interruppe tutt’a un tratto e la nenia sommessa ricominciò dando quasi l’impressione palpabile e calmante del silenzio. Gettai un’occhiata distratta nella piccola cabina. Brillava una luce all’interno, ma il signor Kurtz non c’era più. «Penso che se avessi creduto ai miei occhi mi sarei messo a gridare, ma lì per lì non ci credetti: sembrava talmente impossibile! La verità è che ero completamente sopraffatto da una paura senza nome, un terrore puramente astratto, che non si collegava a nessuna forma riconoscibile di pericolo materiale. Ciò che rendeva quell’emozione così sconvolgente era -come posso definirlo? -lo scossone morale che avevo ricevuto, come se inaspettatamente si fosse abbattuto su di me qualcosa di mostruoso, intollerabile per la mente e odioso per l’anima. Questo, naturalmente, non durò che una frazione di secondo, e poi il comune senso del pericolo fisico, mortale, la possibilità di un assalto improvviso, di un massacro, o qualcosa del genere, che vedevo imminente, fu ben accolta e mi restituì la calma. Mi rese infatti così tranquillo che non diedi l’allarme. «C’era un agente abbottonato fino al naso nel suo pastrano che dormiva su una sedia sul ponte a pochi passi da me. Le urla non l’avevano svegliato; russava appena appena. Lo lasciai ai suoi sogni e saltai a terra. Non tradii il signor Kurtz – era nell’ordine delle cose che non l’avrei mai tradito – era scritto che sarei stato fedele all’incubo che mi ero scelto. Ci tenevo a essere solo a trattare con quell’ombra e ancor oggi non so spiegarmi perché mai fossi così geloso di dividere con qualcuno la particolare tenebrosità di quell’esperienza. «Non appena raggiunsi la riva vidi una pista, una larga pista nell’erba. Mi ricordo con quale esultanza mi dissi: “Non può camminare, si trascina a quattro zampe, lo prendo subito.” L’erba era bagnata di rugiada. Camminavo svelto con i pugni chiusi. Credo di aver avuto una vaga intenzione di saltargli addosso e picchiarlo. Non lo so. Ero pieno di idee strampalate. La vecchia che sferruzzava con il gatto in grembo si intrufolò nella mia memoria e mi parve la persona più inopportuna per sedere all’altro capo di una storia simile. Vedevo una fila di pellegrini riempire l’aria di piombo con i loro Winchester appoggiati all’anca. Pensavo che non sarei mai tornato sul battello e mi vedevo, solo e disarmato, vivere nei boschi fino a tarda età. Un mucchio di pensieri assurdi, capite. E ricordo che confondevo il battito del tamburo con quello del mio cuore e mi rallegravo della sua calma regolarità. «Intanto seguivo la pista e mi fermavo di tanto in tanto ad ascoltare. La notte era molto chiara, una distesa blu scuro, luccicante di rugiada e del chiarore delle stelle, in mezzo alla quale delle cose nere si ergevano immobili. Poi mi parve di distinguere una specie di movimento davanti a me. Ero stranamente baldanzoso quella notte. Lasciai deliberatamente la pista e descrissi correndo un largo semicerchio (non senza, credo, ridacchiare tra me e me) in modo da arrivare davanti a quella cosa che avevo visto in movimento, sempre che avessi visto qualcosa. Stavo accerchiando Kurtz come se fosse un gioco da ragazzi. «Lo raggiunsi e se non mi avesse sentito arrivare, gli sarei addirittura caduto addosso, ma si era alzato in tempo. Si sollevò, malfermo, lungo, pallido, indistinto, simile a un vapore esalato dalla terra, e barcollò leggermente davanti a me, annebbiato e silenzioso, mentre, alle mie spalle, i fuochi si profilavano tra gli alberi e il mormorio di molte voci usciva dalla foresta. Gli avevo abilmente tagliato la strada. Era stata una mossa indovinata, ma quando, mi trovai realmente di fronte a lui, mi sembrò di rinsavire e il pericolo mi apparve nelle sue giuste proporzioni. Non era affatto passato. E se si fosse messo a gridare? Anche se stava a mala pena in piedi, la sua voce era ancora piena di vigore. “Vada via! Si nasconda”, disse col suo tono profondo. Era tremendo. Mi guardai alle spalle. Eravamo a trenta metri dal fuoco più vicino. In quel momento si alzò un’ombra nera e fece qualche passo su delle lunghe gambe nere, muovendo delle lunghe braccia nere, controluce. Aveva delle corna -corna di antilope, penso -sulla testa. Uno stregone, un guaritore, senza dubbio: ne aveva l’aria piuttosto diabolica. “Sa che cosa sta facendo?”, sussurrai. “Perfettamente”, rispose alzando la voce per pronunciare quell’unica parola che mi risuonò lontana eppure chiara, come un richiamo attraverso un megafono. Se si mette a discutere siamo perduti, pensai. Anche a prescindere dalla naturale avversione che provavo all’idea di colpire quell’Ombra, quella cosa errante e tormentata, non era certamente una storia da risolvere a pugni. “Lei sarà un uomo finito”, dissi, “irrimediabilmente finito.” Si hanno talvolta questi lampi di ispirazione, sapete. Avevo trovato la cosa giusta da dire, anche se in verità non avrebbe potuto essere più inesorabilmente finito di quanto lo fosse in quel momento, quando furono gettate le basi della nostra intimità destinata a durare, a durare fino alla fine, e anche oltre. «”Avevo immensi progetti”, mormorò esitante. “Sì”, dissi io, “ma se prova a gridare le spacco la testa con, con…” Non c’era né un sasso né un bastone a portata di mano. “La strozzo con le mie mani”, mi corressi. “Ero alla vigilia di fare grandi cose”, insistette con voce avida e in un tono di rimpianto che mi raggelò il sangue. “E per colpa di questo piccolo farabutto…” “Il suo successo in Europa”, affermai fermamente, “è in tutti i casi assicurato.” Non ci tenevo a torcergli il collo, capite, senza contare che non sarebbe servito praticamente a nulla.

     

     

     

    Cercavo di rompere l’incantesimo -il greve, muto incantesimo della selva selvaggia -che sembrava volerlo attrarre nel suo cuore impietoso risvegliando istinti brutali e dimenticati, facendo riaffiorare passioni appagate e mostruose. Solo questo, ne ero persuaso, lo aveva riportato al ciglio della foresta, alla boscaglia, verso il bagliore dei fuochi, il fremito dei tamburi, alla salmodia di magici incantesimi; solo questo aveva trascinato la sua anima sfrenata oltre i limiti delle aspirazioni lecite. E il terribile della situazione, vedete, non era tanto nel rischio che correvo di ricevere un colpo in testa -benché fossi cosciente anche di quel pericolo -ma nel fatto che avevo a che fare con un uomo al quale non mi potevo rivolgere in nome di qualcosa né di nobile né di vile. Dovevo, proprio come i neri, invocarlo, invocare lui, la sua stessa degradazione, esaltata e inverosimile. Non c’era nulla al di sopra o al di sotto di lui, e io lo sapevo. Aveva volontariamente perso ogni contatto col mondo. Maledizione a lui!

    Aveva fatto a pezzi il mondo stesso. Era solo, e io davanti a lui non sapevo se poggiavo sulla terra o volteggiavo nell’aria. Vi ho riferito quello che ci dicemmo – ripetendo le frasi che pronunciammo – ma a che pro? Erano comuni parole quotidiane, i suoni vaghi e familiari che si scambiano ogni santo giorno della vita. E allora? Per me, era come se celassero la terribile suggestione delle parole udite in sogno, delle frasi pronunciate in un incubo. Un’anima! Se qualcuno ha mai lottato con un’anima, quello sono io. E notate che non stavo discutendo con un pazzo. Che mi crediate o no, la sua mente era perfettamente lucida, concentrata su se stessa, è vero, con spaventosa intensità, ma lucida; ed era proprio lì la mia unica possibilità, salvo, naturalmente, ucciderlo seduta stante, il che non sarebbe stata una gran trovata, per via dell’inevitabile rumore. Era la sua anima che era folle.

     

    continua …

    Le foto sono quasi tutte tratte dal film Apocalypse Now ; un film del 1979 diretto da Francis Ford Coppola, liberamente ispirato al romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra,

     

    Le altre puntate le potete trovare in il FEUILLETON ritrovato

     

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