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Deliri II
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Alchimia del verbo
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A me. La storia di una delle mie follie.
Da molto tempo mi vantavo di possedere tutti i paesaggi possibili, e trovavo risibili le celebrità della pittura e della poesia moderna.
Amavo le pitture idiote, sovrapporte, addobbi, tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari; la letteratura fuori moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle bisnonne, racconti di fate, libretti per l’infanzia, vecchie opere, ritornelli insulsi, ritmi ingenui.
Sognavo crociate, spedizioni di cui non esistono relazioni, repubbliche senza storie, guerre di religione represse, rivoluzioni del costume, migrazioni di razze e di continenti: credevo a tutti gli incantesimi. Inventai il colore delle vocali! – A nera, E bianca, I rossa, O blu, U verde. – Regolai la forma e il movimento di ogni consonante, e, con ritmi istintivi, mi lusingai di inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi. Riservavo la traduzione.
All’inizio fu uno studio. Scrivevo silenzi, notti, notavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini.
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Lontano dagli uccelli, da greggi e contadine,
Che bevevo, in ginocchio dentro quella brughiera
Circondata di teneri boschetti di nocciuoli,
Nella foschia di un verde e tiepido meriggio?
Che potevo mai bere in quella giovane Oise,
– Olmi senza voci, erba senza fiori, cielo coperto! –
Bere alle fiasche gialle, lontano dalla cara
Casa? Qualche liquore d’oro, che fa sudare.
Facevo insegna losca di locanda. Il cielo
Venne spazzato via da un temporale. A sera,
L’acqua dei boschi sulle vergini sabbie si perdeva,
Il vento di Dio gettava ghiaccioli negli stagni;
Piangendo, vedevo oro – e non potei bere.
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Alle quattro del mattino, d’estate,
Il sonno d’amore perdura.
Sotto i boschetti svapora.
L’odore della sera di festa.
La in fondo, nel vasto cantiere
Al sole delle Esperidi,
Si dimenano digià – scamiciati –
I Carpentieri
Calmi, nei Deserti di muschio,
Preparano i riquadri preziosi
Su cui la città
Dipingerà cieli falsi.
Oh, per questi Operai così belli
Sudditi d’un re Babilonese
Venere! un po’ abbandona gli amanti
Dall’anima fatta corona.
Regina dei Pastori
Da’ ai lavoratori l’acquavite,
Che plachino le forze in attesa
Del bagno in mare a mezzodì.
Il vecchiume poetico interveniva molto nella mia alchimia del verbo.
Mi abituai all’allucinazione semplice: vedevo indubitabilmente una moschea al posto di un’officina, una scuola di tamburi tenuta da angeli, calessi per le vie del cielo, in fondo al lago un salotto; i mostri, i misteri; un titolo di operetta drizzava terrori davanti a me.
Più tardi spiegai i miei sofismi magici con l’allucinazione delle parole!
Finii col trovare sacro il disordine del mio spirito. Ero ozioso, in preda a una febbre greve: invidiavo la felicità delle bestie, – i bruchi, che rappresentano l’innocenza del limbo, le talpe, il sonno della verginità!
Il mio carattere s’inaspriva. Dicevo addio al mondo con delle specie di romanze:
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CANZONE DELLA PIU’ ALTA TORRE
Venga, ben venga il tempo
Di cui ci s’invaghisca.
Ho avuto tanta pazienza
Che sempre mi dimentico.
Timori e sofferenze
In cielo son svaniti,
E la sete malsana
Oscura le mie vene.
Venga, ben venga il tempo
Di cui ci s’invaghisca.
Così la prateria
Tutta in preda all’oblio,
Più vasta, e fiorita
D’incenso e di loglio,
Al selvaggio ronzio
Delle sudicie mosche.
Venga, ben venga il tempo
Il tempo di cui ci s’invaghisca.
Amai il deserto, i frutteti bruciati, le botteghe avvizzite, le bevande riscaldate. Mi strascicavo per vicoli puzzolenti e, chiusi gli occhi, mi offrivo al sole, dio di fuoco.
“Generale, se resta un vecchio cannone sui tuoi bastioni in rovina, bombardaci con blocchi di terra riarsa. Sugli specchi dei negozi splendenti! nei salotti! Fa’ che la città mangi la propria polvere. Ossida le grondaie. Riempi i boudoirs di polvere di rubino rovente…”
Oh! il moscerino inebriato al pisciatoio della locanda, innamorato della borragine, e che un raggio dissolve!